The stately side of Expo

Architetti, appassionati di pellicola e analogico, Matteo Cirenei e Marco Menghi documentano l’aspetto monumentale delle architetture effimere di Expo nell’atto di essere distrutte o smontate.

Milioni di visitatori, milioni di sguardi, milioni di visioni, milioni di vedute. Expo è stato anche questo. Ora Expo è finito, i padiglioni sono in fase di smantellamento, di dismissione. Le discussioni su cosa ne sarà di quell’immenso spazio divenuto così appetibile fervono accese.

Ma di Expo, tra poco, resteranno davvero poche tracce. Come in un immenso gioco di mattoncini colorati, le costruzioni che sono state create vengono in questi giorni distrutte o smontate e saranno forse ricostruite altrove, in nuove forme, con altri significati. Ad Astana prima, a Dubai dopo.

A noi resta la memoria di un evento eccezionale. E tante, tantissime fotografie. Matteo Cirenei e Marco Menghi sono preziosi. Erano sul campo quando Expo Milano 2015, non ancora diventato l’Expo che tutti conosciamo, era solo un enorme cantiere pulsante, un progetto da realizzare, una sfida da vincere. Era febbraio del 2015. Scortati dalla sicurezza e guardati a vista, i due fotografi (e architetti) giravano per il cantiere assorbendo l’energia che questo emanava. Intorno, camion e gru, terre smosse, cavi e cumuli di materiali, motori rombanti e mille lingue diverse, l’Expo in fieri.

Albero della Vita. Photo Matteo Cirenei
In apertura: padiglioni di Polonia, Olanda e Intesa San Paolo. Photo Matteo Cirenei. Qui sopra: Albero della Vita. Photo Matteo Cirenei
Nel mezzo, Matteo e Marco alla ricerca della bellezza. Consapevoli di essere al centro di qualcosa di grande, Cirenei e Menghi hanno rivolto i loro obiettivi all’alacre lavoro degli uomini, degli operai, all’homo faber e alla sua opera. Quel fare da cui arriva poesia, il greco poiein. Energia che si trasforma in forma. Forma che diventa bellezza, esaltata dagli occhi consapevoli di Cirenei e di Menghi. Il progetto, la pre-visione dei due fotografi è stata proprio la ricerca dell’altro lato di Expo: quello che prendeva le distanze dalla negatività e dal pessimismo che dilagava nei ultimissimi mesi antecedenti l’apertura di Expo Milano 2105 e aleggiava un po’ cupo sui lavori. Le contestazioni, l’opposizione anche dura, le critiche feroci rimandate al mittente, lo sguardo rivolto al positivo, alla trasformazione, alla costruzione. Ed ecco il titolo di questa serie, The stately side of Expo: l’aspetto monumentale e imponente di queste architetture effimere, frutto del lavoro degli uomini: questo hanno saputo vedere Cirenei e Menghi, questo il loro progetto.
Padiglione del Belgio. Photo Marco Menghi
Padiglione del Belgio. Photo Marco Menghi
I due fotografi tornano più volte, quasi sempre insieme, su quel campo che li incanta. Ne seguono la gestazione, ne documentano la crescita. Fino alle ore 13 del 30 aprile 2015, l’ultimo momento in cui fosse possibile per i non addetti ai lavori essere nel cantiere, prima degli ultimi importanti controlli a opera della sicurezza, dell’antiterrorismo, della burocrazia istituzionale. Il primo maggio, poi, Expo Milano 2015 sarebbe venuto alla luce e da allora, per sei mesi, è stato per tutti. Matteo Cirenei ci conduce in una sorta di racconto per gradi, allargando progressivamente il suo sguardo dal dettaglio e dal particolare a un campo di osservazione molto più ampio. Come in una moderna cosmogonia, lo sguardo di Cirenei trasforma il disordine complesso degli elementi materiali che ritrova nel caos dei cantieri Expo nell’universo ordinato del cosmos. E senza stare a distanza, senza alcuna neutralità, pone se stesso nella sua creazione. La sua narrazione ha inizio con le grandi tre stampe a forte impatto scenico dell’ordine superiore dell’esposizione, una precisa ricerca estetica espressa in forme e volumi, linee e spazi, rapporto dialogante tra pieni e vuoti. Il fotografo prosegue, nell’ordine centrale, la sua ricerca sui volumi e sulle forme, di chiara memoria costruttivista, quasi un omaggio a Rodčenko e al contempo elemento caratterizzante di tutto il suo lavoro sull’architettura, soprattutto milanese. Cirenei si spinge infine a una visione di impostazione più documentaria con le immagini dell’ordine inferiore. Qui troviamo anche aerei che sfrecciano nel cielo, cumuli di spazzatura e uomini che guardano in una sorta di adorazione le prove dei getti d’acqua dell’albero della vita. Lo spazio si è dilatato. La vita si è fatta evidente. L’uomo, che pure è presente, minuscolo attore da scoprire quasi come elemento inaspettato nella perfezione della composizione, nel rigore dei bianchi e dei neri delle stampe di più grande formato, si incarna, homo faber. Ed è proprio l’aspetto umano quello che più interessa Marco Menghi. Un altro linguaggio, il suo, più sporcato dal lavoro, dalla polvere, dalla grana. 

 

Il lavoro dell’uomo che domina e guida i macchinari e la polvere del cantiere sollevata dagli operai si depositano sulle immagini come grana fotografica. Gli spazi si fanno molto più ampi. L’uomo quasi si perde in questi ambienti espansi ma, allo stesso tempo, la sua presenza aiuta a darci un’idea delle dimensioni superbe delle architetture che si stanno costruendo. Sono altissime, quasi una vertigine, le tre immagini in alto. E gli uomini dei puntini, formiche operose. La composizione, pur nell’esecuzione a mano libera, senza i rallentamenti che l’uso del cavalletto avrebbe certamente implicato, mantiene un notevole rigore nel contrappunto dei pieni e dei vuoti, uno studio preciso delle linee e dei punti di fuga, un ordine accurato che si distanzia in modo deciso dal caos totale della realtà fotografata. E l’immagine dell’uomo col cavo di Marco Menghi mi riporta alla memoria il mai abbastanza elogiato Franco Pinna e il suo il cavaliere col cavallo impennato di Orgosolo, Barbagia del 1967. Un azzardo, forse, il mio. Ma così è. E in questo vorticare di uomini e cose Menghi riesce a cogliere anche la quiete. Quei pochi secondi di pausa sottratti alla frenesia del cantiere, il riposo in un istante. Due stili, due sguardi, due intenzioni differenti, ma non in contrasto, quelle di Matteo Cirenei e di Marco Menghi. Non c’è gap generazionale tra i due, che pure nascono a vent’anni di distanza: i comuni interessi lo annullano. 

 

Entrambi architetti, appassionati di pellicole e di macchine analogiche, con le quali continuano a lavorare e a fare ricerca, hanno una vera passione per la stampa, intesa come ultima finalità di un lungo processo che inizia con la preparazione mentale dello scatto, la pre-visione della fotografia. L’idea cioè si deve fare, deve trasformarsi in materia, in stampa. Così è stato anche per questa esposizione: i due fotografi hanno curato personalmente la stampa delle fotografie di The stately side of Expo (tranne le più grandi).

Cirenei insegue la forze dei contrasti in un impatto deciso e personale su chi guarda cercando la maggior nitidezza possibile, Menghi vuole invece di restituire con il digitale quelle imprecisioni che solo la fotografia analogica da lui tanto amata può dare. Ora sono al lavoro con la seconda parte del lavoro su Expo: la dismissione dei cantieri. Lo scambio di idee, di conoscenze e di esperienza continua in un arricchimento reciproco. È una storia da proseguire (e forse anche da imitare). Aspettiamo di vedere cosa sapranno farci vedere, di nuovo.

© riproduzione riservata

Ultimi articoli di News

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram