La Biennale come Kraftwerk

Il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta racconta a Domus i preparativi per la prossima Mostra d'Architettura, diretta nel 2014 da Rem Koolhaas. E lascia trasparire la volontà di produrre un'edizione memorabile, capace di rappresentare un vera svolta nel ruolo, anche sociale, della manifestazione.

I ritmi di produzione delle grandi manifestazioni culturali non conoscono soste. Se il pubblico e i critici stanno ancora valutando esiti e numeri dell'ultima edizione dedicata all'Architettura, la Biennale di Venezia sta già preparando la nuova edizione prevista per il 2014. Domus ha chiesto al presidente dell'istituzione di tracciare il modo nel quale ci si sta preparando alla futura manifestazione, raccontando quali programmi e scelte guideranno il dialogo con il curatore prescelto, Rem Koolhaas. Un incontro dal quale emerge la crescita dell'istituzione veneziana e la volontà di produrre un'edizione memorabile, capace di rappresentare un vera svolta nel ruolo, anche sociale, della manifestazione.

Domus: Quali indirizzi ha assunto la Biennale negli ultimi anni e come orienteranno la struttura della Mostra dedicata all'Architettura nel 2014?
Paolo Baratta: A partire dalla Mostra d'Arte del 1998 l'esposizione internazionale si è sommata a quella per padiglioni. In altre parole, la rappresentazione del mondo è stata affidata anche alla "nostra Mostra" (che da quell'anno si svolge nell'ex-padiglione Italia e all'Arsenale che fu restaurato per questo scopo) e i padiglioni nazionali sono diventati, in modo più chiaro, contributi originali, specifici e indipendenti, volti a ottenere una pluralità di voci. Questa nuova formula ha portato ad avere un curatore della "nostra Mostra", più 80-90 interpreti internazionali che ci mostrano altrettante diverse visioni. Tutto ciò è coerente con una Mostra d'Arte oggi. Oggi il compito di questo tipo di manifestazione non può più essere, come qualche volta nel passato, quello di evidenziare la nascita di correnti e movimenti. Non si manifestano più i movimenti che si vogliono affermare come tali, ma esiste un mondo di artisti liberi dove ognuno sceglie la propria strada, il proprio modo di creare autonomo e indipendente. La Mostra, quindi, deve restituire un pluralismo fatto di geografie che nulla hanno a che vedere con i confini nazionali, un pluralismo di voci legate da diversi fili che attraversano spazi e tempo. In questo quadro ciascun curatore dà la sua pennellata, intensificando questo o quell'aspetto e sempre più traguardando il tempo presente anche alla luce di ciò che ci ha preceduto. Nel caso dell'Architettura, invece, l'evoluzione che si può riscontrare del nostro tempo ci ha suggerito un tema dominante di sottofondo; ci siamo trovati in un momento critico in cui massima ci è parsa la tendenza all'utilizzo dell'architetto per "spettacol mostrare", cioè per produrre opere stravaganti, con forti messaggi comunicativi, opere fatte per colpire, sia nel senso positivo di rappresentare grandi energie, sia in quello negativo di manifestare indirettamente la difficoltà, e la sempre crescente incapacità di occuparsi dello sviluppo di città e territori. Questa situazione ha generato delle novità straordinarie, ma tutt'intorno anche un'estesa banalità. A fianco dei grandi couturier si è affermato un prêt-à-porter d'imitazione, monotono e scontato nelle forme, che ha lasciato fuori dall'architettura, intesa come pensiero e ambizione civile, i problemi urbani e le questioni sociali delle metropoli. Nell'ultimo quadriennio ho ritenuto che proprio questo fosse il campo d'indagine specifico: la frattura – ma potremmo anche chiamarla schizofrenia – tra architettura e società civile. L'architettura se n'è andata per conto suo con splendidi cavalieri che, da soli, si oppongono con i loro edifici alla confusione e al caos. Si crea così un divario grave tra questa disciplina e le potenzialità straordinarie che essa possiede. Questo fenomeno si è riassunto nel trionfo degli archistar. Si badi bene, molti di loro sono eccellenti figure che hanno condotto ricerche interessantissime. Se sono diventate archistar destinate a far spettacolo è colpa del committente. Loro non sono sceneggiatori di feste, sono grandi architetti emersi proprio in virtù delle loro capacità, grandi architetti ai quali la committenza della società civile ha però proposto molto spesso occasioni di esibizione. Abbiamo parlato persino di crisi di identità dell'architetto. Ho così ritenuto che la Biennale dovesse lentamente impegnarsi a sottolineare l'urgenza e l'importanza del dialogo tra architettura e il suo pubblico di riferimento: individui e istituzioni.
In apertura: Paolo Baratta con Rem Koolhaas, direttore della prossima Mostra Internazionale di Architettura, nel 2014. Qui sopra: Paolo Baratta con Bice Kuriger, curatrice della 54. Biennale d'Arte di Venezia, nel 2011
In apertura: Paolo Baratta con Rem Koolhaas, direttore della prossima Mostra Internazionale di Architettura, nel 2014. Qui sopra: Paolo Baratta con Bice Kuriger, curatrice della 54. Biennale d'Arte di Venezia, nel 2011
Esiste una mitologia che afferma che lei preferirebbe avere degli architetti piuttosto che dei critici e degli storici a dirigere la Biennale Architettura.
Non so quanto si possa dire questo. Durante la mia presidenza queste figure si sono egualmente divise nella guida della Mostra. Se facciamo un bilancio, a cominciare dall'edizione del 2000 curata da Massimiliano Fuksas, ho chiamato tre architetti e due critici. Comunque lascio ad altri valutare, ma se si prova a costruire un giudizio sulla base delle figure che hanno curato le ultime edizioni, e soprattutto a partire dai titoli che hanno dato alla Mostra, forse emerge una storia che val la pena di leggere come un continuum. Lo stesso Aaron Betsky, pur essendo un critico, ha sostenuto l'idea che l'edificio è la tomba dell'architettura. Kazuyo Sejima, dando alla Mostra il titolo "People meet in architecture", presupponeva un'idea di architettura intesa come res publica in cui riconoscersi, e non più l'architettura come edificio che si risolve nell'effetto scenico. Infine, con la Mostra "Common Ground" di David Chipperfield abbiamo avuto un'edizione dove non c'erano solo architetti affermati, ma diverse figure dialoganti tra loro, che hanno inteso riproporre l'Architettura come luogo dell'incontro e del dialogo, e non solo dunque della esibizione personale. Insomma, se chiamiamo degli architetti, li chiamiamo a portare se stessi in qualità di ricercatori… Va detto, inoltre, che proprio in questi anni la Biennale Architettura, che all'inizio è stata vista da alcuni come luogo di architetti per architetti, ristretta quindi a un ambito settoriale, si è evoluta in qualcosa di diverso. Abbiamo aumentato il numero dei visitatori e dei giovani diventando sempre di più un'istituzione che fa dialogare l'architettura con il pubblico, appunto, la società civile. Si è dunque modificato nel tempo il tipo di realizzazioni che si chiedeva agli architetti invitati di portare in Mostra. Si è passati da una mostra dove dominavano disegni e poi maquette, alle istallazioni degli architetti che rappresentano idee e riflessioni. Nata come costola della Biennale Arte, la Biennale Architettura è diventata sempre più rilevante lungo una strada simile a quella della Biennale Arte, adottandone in parte modalità (inviti) e linguaggio, quello delle emozioni visive.
Paolo Baratta. Photo F. Galli. Courtesy la Biennale di Venezia
Paolo Baratta. Photo F. Galli. Courtesy la Biennale di Venezia
Quale sarà il passo successivo su questa strada?
Impegnare in una riflessione uno dei più significativi architetti del nostro tempo che ne ha condiviso i più importanti fenomeni, un architetto che ha stupito e ha fatto ricerca al tempo stesso: Rem Koolhaas. Il solo fatto che Koolhaas accetti di fare un'operazione del genere è significativo: la Biennale non è la fiera delle vanità, toglie tempo all'attività di un professionista, è un impegno e un rischio. La Biennale non è il Pritzker, tanto è vero che in questi anni ho ricevuto nobilissimi e alti "no". La prima vera novità di questa Biennale è proprio il "sì" di Koolhaas che accetta di mettersi in gioco. E accetta di mettersi in gioco con una riflessione e con una ricerca sull'architettura.
Paolo Baratta (a destra) con David Chipperfield, direttore della 13. Mostra Internazionale di Architettura, nel 2012, "Common Ground"
Paolo Baratta (a destra) con David Chipperfield, direttore della 13. Mostra Internazionale di Architettura, nel 2012, "Common Ground"
Come avete scelto il curatore?
La scelta del curatore è frutto di una ricerca che segue linee coerenti declinate in un'istruttoria che viene presentata al consiglio di amministrazione. Vi è una responsabilità precisa del proponente con l'esposizione di obiettivi chiari. Nel caso della Biennale non si tratta di dare un incarico professionale (fare mostre non è specifico della professione dell'architetto). Si tratta di scegliere un direttore artistico che completi la struttura organizzativa della Biennale con una capacità di immaginare, creare e realizzare. Ho già detto più volte che questa scelta deve rappresentare la capacità della Biennale di intuire le scelte più opportune e ad un tempo realizzare l'autonomia del direttore artistico. Non si ottiene questa chiarezza con i comitati di selezione solitamente orientati a far compromessi prima di iniziare a scegliere. Ho dialogato a lungo con Koolhaas prima che accettasse l'incarico, rendendo possibile anticipare di molto la sua nomina rispetto agli anni passati; nello stesso tempo sono infinitamente grato a Chipperfield per aver accettato in condizioni di urgenza e aver realizzato una mostra memorabile. Ma non è solo questione di comodità; se la Mostra rimanesse come quella di anni fa, quando il curatore "invitava" architetti, Rem Koolhaas potrebbe farne una in poche settimane, non gli sarebbe certo difficile trovare subito 50 grandi architetti che accettino di portare la propria istallazione. Se abbiamo deciso di prenderci tutto questo anticipo è perché i contenuti di ricerca che si vogliono dare alla Mostra necessitano di tempo. E con questo daremo forse il via a una nuova serie di mostre diverse nell'impostazione da quelle tenute fin qui.

Inoltre ci sarà la variazione del calendario.
Come abbiamo annunciato, la prossima edizione comincerà a giugno. La Biennale Architettura avrà quindi la stessa durata di quella di Arte. Questa anticipazione è un cambiamento importante. Al semplice invito a colleghi e alla predisposizione delle loro istallazioni, si sostituirà un lavoro di ricerca più intenso da parte del curatore e un importante coinvolgimento di soggetti esterni nelle indagini e nella realizzazione della Mostra. Il titolo stesso sarà un titolo di ricerca e sarà annunciato già il 25 gennaio in occasione dell'incontro con i responsabili dei paesi partecipanti, che si terrà dunque dieci mesi prima dei tempi tradizionali, e prima che essi nominino i loro curatori. Se abbiamo ragione, se vogliamo andare oltre la crisi del rapporto tra architetto e società civile, se vogliamo riflettere e, perché no, ripensare molte cose sull'architettura, mi pare cosa buona che venga proprio Koolhaas, grande stella del firmamento del nostro tempo, ma inarrestabile ricercatore. Per perseguire questo obbiettivo intensificheremo la Mostra di Architettura con workshop e meetings, facendola diventare una Kraftwerk (come diceva un grande curatore del passato) che produce energia ogni settimana e per mesi interi. Non più quindi la sorella minore della mostra d'Arte. Anche per questo anticipiamo l'apertura di due mesi. Possiamo così colmarla di iniziative facendole assumere una funzione attiva come luogo d'incontro, di ricerca e punto di riferimento delle università di tutto il mondo. Lo sviluppo del progetto Biennale College ne risentirà positivamente.
Paolo Baratta (a destra) con Aaron Betsky, direttore della 11. Mostra Internazionale di Architettura nel 2008, dal titolo "Out There: Architecture Beyond Building"
Paolo Baratta (a destra) con Aaron Betsky, direttore della 11. Mostra Internazionale di Architettura nel 2008, dal titolo "Out There: Architecture Beyond Building"
In base a quanto diceva in apertura, sembra che lei abbia a cura la ricostruzione del rapporto dell'architetto con la committenza, non solo presentare una parata di celebrità.
La Mostra offre al pubblico opere e pensieri. Può essere un trait d'union con la committenza: non c'è architettura se individui e istituzioni balbettano nello sviluppare le loro esigenze e faticano nel formulare una domanda articolata e matura. Vanno sollecitati i facitori d'architettura affinché le cose si possano fare meglio e diversamente, affinché ci si abitui, prima di fare, a pensare, anche in un confronto con il territorio. Ancora una volta insisto nell'osservare che, mentre siamo stati bravissimi ad evolvere nella qualità del consumo privato individuale (si pensi a come è evoluta la nostra domanda di moda, di arredamento, di igiene personale, di cosmesi, di cura della persona, fino all'attenzione per l'arte culinaria), non possiamo dire lo stesso a proposito dell'architettura. Sembriamo essere impacciati e confusi nell'esprimere una domanda qualificata di architettura. All'architettura ci rivolgiamo quando vogliamo curare non solo noi stessi, ma lo spazio che ci circonda, perché altri ne abbiano a godere, è un'arte di per se stessa legata all'idea di bene pubblico oltre che privato. Diffondere questa sensibilità è tra le finalità della Biennale. Per ottenere questi risultati bisogna lavorare su tutti i vari aspetti della Biennale Architettura: durata, contenuti, modi, paesi, curatori dei padiglioni, rapporto con il pubblico, qualità e tipologia del pubblico, attività seminariali di incontro. La "parata" che al fine si realizza deve avere una sua logica. Così come facciamo per Arte, non organizziamo una mostra mercato. Per questo, oltre ad offrire ai visitatori stimoli e suggerimenti, lavoriamo anche nello spirito di Biennale College per promuovere l'aiuto a nuovi talenti. Qui noi non facciamo formazione scolastica ma diamo sostegno al 'fare' con l'ausilio di maestri; ci interessa cogliere i nuovi talenti nel momento in cui sono pronti a spiccare il volo e aiutarli in questo processo di affermazione.

In sostanza non tanto dare una linea ma rappresentare la complessità del contemporaneo.
Il contemporaneo è complesso, anzi è consapevolezza della complessità. Un'avanguardia si fa strada con la sua inevitabile provocazione. Ma quando non c'è più avanguardia e si procede sull'onda del presente, ci ritroviamo tutt'intorno, e persino addosso, tutti i problemi del presente e del futuro. Gli artisti hanno da tempo cessato di inseguire un ideale e hanno optato per opere che diano forma sensibile ad idee. Anche per questo il nostro pluralismo diviene un punto di forza. I problemi del tempo presente sono spesso chiari, ma non di facile soluzione e molti ci appaiono insolubili. In qualche modo noi viviamo nei dilemmi della Grecia antica, Antigone e le due verità di un dilemma non risolvibile con scelte nette; occorre una grande capacità di comprendere, laddove non vi sono facili e univoche soluzioni. Per quanto riguarda il nostro ruolo, mi sembra invece sia facilmente identificabile. Per comprendere quale sia la funzione di un'istituzione pubblica occorre identificare la necessità di una imprenditorialità pubblica: cercare di cogliere i vuoti che riscontriamo intorno a noi e cercare di riempirli, facendo ciò che è necessario e non è fatto da altri. Vuol dire, molto semplicemente, vedere e comprendere dove c'è una carenza e riconoscere quale azione si rivela necessaria, data la nostra missione.

Articoli più recenti

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram