Architecture in Uniform

Il curatore Jean-Louis Cohen racconta a Roberto Zancan l'indagine, ora in mostra al CCA, sul ruolo degli architetti durante la Seconda Guerra Mondiale.

Roberto Zancan: Perché la Seconda Guerra Mondiale non è mai stata presa in considerazione dalla storia dell'architettura moderna, o per lo meno perché non lo è stata finora?
Jean-Louis Cohen: È difficile rispondere a questa domanda senza contestualizzare. Contrariamente a quanto dicono quasi tutti i manuali di storia attuali, a quell'epoca nella maggior parte dei Paesi si faceva moltissima architettura. Alcuni di questi edifici sono molto difficili da rintracciare (quelli sovietici), per certi altri ancora è del tutto impossibile (quelli giapponesi). La parte che coincideva con il racconto dell'evoluzione del Movimento Moderno (la ricostruzione) è l'unica che sia stata discussa a fondo. E allora perché questa assenza della Seconda Guerra Mondiale? La cosa varia da Paese a Paese. La mostra World War 2 and the American Dream, allestita da Donald Albrecht più di dieci anni fa al National Building Museum di Washington DC, resta una delle più interessanti. In Inghilterra, si è lavorato molto sulla cultura della vita quotidiana in tempo di guerra. Anche i ricercatori francesi hanno lavorato sulla storia della ricostruzione, ma non altrettanto in profondità sul governo di Vichy e sulle sue scelte politiche. In Italia la situazione di molte città è stata documentata da mostre, ma nel complesso la conoscenza del sistema tramite il quale la prassi architettonica è stata riformata fino alla fine del regime mussoliniano resta un enigma. L'unico Paese in cui la questione è stata dibattuta in modo relativamente ampio è la Germania. Due generazioni di studiosi hanno fatto i conti con l'eredità del nazismo, con l'Olocausto e con l'occupazione tedesca della Polonia. Anche il lavoro condotto da Hans Robert van Pelt su Auschwitz è di grande interesse. Ciò che è mancato è il tentativo di collegare queste storie monografiche, se non addirittura micrografiche, con la Storia in senso più ampio. È quello che ho cercato di fare io, in molti casi sulla scorta di ricerche originali, ma anche consultando gli studi condotti da decine di persone.

Photo © CCA Montreal.
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Parliamo allora dell'esposizione di tutti questi oggetti, di tutti questi elementi. So che voleva esporre anche una jeep. Questo lato Pop qui manca…
La differenza tra una mostra e un libro è profonda. In un libro si può dire ciò che si vuole ed è facile sostenere le proprie argomentazioni. In una mostra si può sostenere un'affermazione solo documentandola con degli oggetti. E quindi è stato difficile individuare quello che chiamerei il linguaggio specifico di questa mostra evitando di cadere in una specie di narrazione tragica. Non era certamente questo il punto, dato che per questo ci sono dei luoghi appositi come i musei di Storia. Non volevo nemmeno cadere in ciò che definirei kitsch militare, come esporre parti di aerei o componenti di attrezzature militari. E tuttavia a un certo punto ho pensato che avere una jeep, o parte di una jeep, avrebbe avuto senso perché rappresenta il delinearsi di una sensibilità nuova, in cui gli oggetti tecnici che giravano per il mondo venivano presi sul serio perché annunciavano un nuovo modo di progettare e una nuova estetica. Alla fine abbiamo mantenuto appeso alle pareti un nucleo significativo di opere e questo ci ha impedito altre scelte.

Photo © CCA Montreal.
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Lo spirito della mostra sembra essere quello di utilizzare tutti i temi, ma essere contemporaneamente aperta a nuovi settori di ricerca. Come può succedere?
Questa è stata una guerra che ha dato forma al territorio di diversi Paesi, e quindi avrei potuto raccontare la storia della ricostruzione con centinaia di bei disegni e di racconti interessanti. Avrei potuto concentrarmi saldamente sull'architettura militare, sul Vallo Atlantico, partendo dalla Linea Maginot, che resta un sito straordinariamente vasto, una città lineare sotterranea che si estende per 400 chilometri. Poi viene il Vallo Atlantico nazista, che è rimasto e certe volte è ancora impressionante, e una quantità di altre strutture come le basi costruite dai nazisti per l'offensiva missilistica contro la Gran Bretagna. Nel nord Ovest della Francia ci sono degli edifici incredibili, come per esempio il bunker più grande costruita in tempo di guerra, a Éperlecques. Restano anche alcuni bunker sulle coste canadesi, costruiti quando il Canada e gli Stati Uniti temevano ancora incursioni tedesche e giapponesi. Il mondo è pieno di sistemi di questo genere, ma documentarli sarebbe stato eccessivo. Alcuni artisti e alcuni storici hanno fatto di più, ma per così dire noi abbiamo deciso di essere più specifici. Anche la qualità di certe opere è stupefacente. Sto pensando alle foto di Guido Guidi, ai vecchi scatti di Paul Virilio. E penso anche all'opera della fotografa francese Anne Garde. Ma anche questa sarebbe stata probabilmente una storia molto diversa. Una storia in cui gli architetti sarebbero stati coinvolti solo in minima parte. Furono coinvolti nella costruzione del Vallo Atlantico in Francia come supervisori e coordinatori. Furono presenti nella traduzione delle idee originarie dei nazisti in forme costruite. Alcuni di loro furono anche puniti dopo la guerra. Ma resta un'eccezione.

Mi interessavano i megaprogetti dotati di un certo livello di complessità, ma mi interessava anche il lavoro fatto, soprattutto da parte nazista, per standardizzare l'intera gamma della produzione architettonica.
Photo © CCA Montreal.
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Stiamo parlando per lo più di grandi opere. Progetti di megastrutture, progetti di grandi dimensioni, ma so di alcuni progetti più pervasivi anche nel corso della guerra. Il problema si limitava nell'insieme a piccole strutture oppure soluzioni per i rifugi?
Sì, ma ancora una volta non bisogna dimenticare che qui si tratta di una mostra e di un libro sull'architettura, non su tutto ciò che veniva prodotto per la guerra. Altrimenti avrei potuto lavorare sulle garitte minimaliste, sulle più piccole buche scavate per le sentinelle all'ingresso delle basi aeree. Parafrasando Nikolaus Pevsner, il quale diceva che l'architettura va dalla tettoia per le biciclette alla cattedrale di Lincoln, la cattedrale sarebbe probabilmente il Pentagono e la tettoia per le biciclette sarebbe il rifugio individuale. Mi interessavano i megaprogetti dotati di un certo livello di complessità: il Pentagono, Auschwitz e gli impianti di produzione e di prova dei missili di Peenemünde; ma mi interessava anche il lavoro fatto, soprattutto da parte nazista, per standardizzare l'intera gamma della produzione architettonica. Il lavoro di Ernst Neufert per esempio è relativamente poco noto fuori dalla Germania, e tuttavia Neufert cercò di uniformare l'intera produzione edilizia della Germania nazista in un unico sistema modulare. Contemporaneamente la ricerca sugli spazi minimi, sulla minima occupazione dello spazio da parte del corpo umano è ovviamente l'altra faccia della stessa moneta ed è probabilmente più importante per ciò che successe dopo il 1945, cioè per la massiccia produzione di abitazioni, uffici e spazi standardizzati e controllati, dell'importante processo che incise sull'organizzazione dei grandi studi professionali.

Photo © CCA Montreal.
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Mi pare che sia una mostra molto personale e collegata a storie personali…
In ogni tipo di ricerca ciò che si potrebbe chiamare 'transfer psicoanalitico', o il rapporto dello studioso con il suo tema di ricerca, ha una parte molto importante. Non si impiegano 25 anni della propria vita – visto che io ho iniziato la ricerca sull'architettura dell'occupazione nel 1986 – a caso. C'è una motivazione profonda che spinge a farlo. E, nel mio caso, risale all'esperienza della mia generazione, quella dei bambini cresciuti nel dopoguerra in un paese come la Francia, l'Italia o l'Inghilterra, dove il ricordo della guerra era ancora percepibile nella città e nei testi che leggevamo. Così, essendo diventato architetto e storico, sono stato in grado di guardare a questo episodio del passato con strumenti nuovi, che non erano quelli della nostalgia ma quelli della conoscenza, e di cercare anche di capire che cosa significavano gli sviluppi di cui prima non si faceva assolutamente menzione. Quindi sia la mostra sia il libro sono espressione del mio personale impulso ad andare a vedere ciò che sembrava proibito o per lo meno non era visibile. Contemporaneamente sono ritornato su episodi cui ero interessato.

Photo © CCA Montreal.
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Il che forse ci porta all'ultima domanda: il grande spessore etico della mostra. Nell'introduzione c'è un breve paragrafo sulla guerra giusta. E lei punta il dito anche sull'ambiguità della posizione di moltissimi architetti…
Questa guerra fu una guerra giusta, che doveva essere vinta contro il nazifascismo dalle forze della democrazia, anche se erano alleate con Stalin che non era particolarmente democratico. In ogni caso il contributo russo alla guerra fu enorme e per questo naturalmente era molto importante per me includerlo nella mostra. È importante dire che c'è anche una grande differenza tra la Seconda Guerra Mondiale e tutte le guerre che sono scoppiate dopo. È l'ultima guerra in cui siano state mobilitate intere nazioni e intere categorie professionali. La guerra di Corea, le guerre coloniali francesi, la guerra del Vietnam e tutte le guerre recenti in molte parti del mondo, quella nell'ex Jugoslavia, quella tra Iran e Irak e così via sono state combattute da professionisti o quanto meno da soldati di leva, con l'intervento di consulenti militari di professione; mai i professionisti sono stati impegnati in intense azioni di forza come nel corso degli anni che andarono dal 1936, quando tutto iniziò in Spagna, al 1945. E la domanda naturalmente è in che modo la guerra susciti problemi per professioni come l'architettura, la cui cultura si pone obiettivi umanistici come, semplicemente, fornire riparo. Che cosa vuol dire quando degli architetti prendono parte a operazioni di distruzione sistematica come i bombardamenti inglesi e americani della Germania, per esempio, o quando degli architetti partecipano a una colonizzazione criminale come quella condotta dai nazisti in Polonia? Che cosa ci dice questo dell'impegno, della responsabilità etica dell'architetto? Probabilmente il fatto è che questa categoria professionale non possiede un orizzonte etico e morale migliore di altre. Negli ospedali e in Giappone, negli abominevoli esperimenti sui prigionieri, c'erano anche dei medici. E allora questa guerra ci dice che la tecnologia può essere messa al servizio del delitto, e che cosa ci può essere di peggio? Per me, forse, la grande scoperta, fatta nel corso delle visite ad Auschwitz e a Peenemünde, di una specie di aspirazione dei nazisti a 'fare la cosa giusta' dal punto di vista dell'architettura. A dare una forma architettonica corretta, visibile e perfino 'bella' a un'impresa criminale. Quindi l'estetizzazione del delitto è un'impresa cui gli architetti hanno partecipato in ogni ordine di ruoli, ed è questo che la mostra e il libro illustrano tra l'altro, dal punto di forza e dalla posizione di criminali di guerra come Speer, che a Norimberga non fu condannato come architetto ma come organizzatore del lavoro coatto, o di un nazista dimenticato come Hans Kammler, che fu anche peggiore perché si dedicò direttamente alla progettazione dei campi. Durante la Repubblica di Weimar era stato un attivo modernista. Ci furono anche dei prigionieri che dovettero partecipare alla progettazione dei campi per sopravvivere. Sotto questo aspetto la cosa impressionante è la vastità della gamma di ruoli ricoperti da persone estremamente diverse, in rapporto all'articolazione delle esigenze belliche e alla progettazione dell'architettura.
Photo © CCA Montreal.
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La mostra Architecture in Uniform, curata da Jean-Louis Cohen al CCA di Montreal, rimarrà aperta fino al 18 settembre 2011.
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