L'utopia di un paese normale

Nel cantiere del suo nuovo centro congressi a Roma EUR, Massimiliano Fuksas racconta il paese che siamo stato e il paese che vorremmo.

Stefano Casciani: Ecco Massimiliano, cominciamo la mia ultima intervista per Domus: siamo amici, quindi ti ho lasciato per ultimo. Partiamo dalla preistoria democratica di questo Paese, quando era ancora normale, aveva un prestigio e un'aspirazione internazionale. Com'era Bruno Zevi con te? Si comportava bene, male? Era un despota o un maestro? Che cosa ha significato per la tua generazione?
Massimiliano Fuksas: Zevi ha rappresentato una delle persone più importanti per la mia formazione, insieme a Giorgio Castelfranco, Giorgio de Chirico, Asor Rosa (mio professore d'italiano, al liceo). Zevi: m'iscrivo all'Università e lui era appena arrivato, chiamato dagli studenti romani, insieme a Quaroni e Piccinato, per insegnare Storia dell'Architettura. Incomincia a fare delle lezioni bellissime. La prima cosa che dice è: "Guardate, non ho la minima voglia di fare l'esame ogni tre mesi" – c'era quello di febbraio, poi giugno e poi ottobre – "Mi mandate per posta la vostra tesi, io la guardo e vi mando il voto". Subito insorgono i giornali di destra: "È arrivato un pazzo, vuole distruggere la scuola italiana!"

In effetti, lui sì che non è mai stato un tipo normale: ma era un genio.
Poi disse: "Perché fare le prime lezioni qui in facoltà, che è così triste? Facciamole in un teatro, al cinema: il Roxy, vicino all'Università". Ci stavano 300 persone, e molti intervenivano: chiamava Paolo Portoghesi, Giulio Carlo Argan. Passiamo la prima settimana del suo anno accademico al cinema, a fare grandi discussioni. Era un genio, è vero. Realizza una mostra al Palazzo delle Esposizioni su Michelangelo, insieme a Portoghesi: era fatta con modelli di studio, che chiamava "modelli critici". Prendeva un edificio, che so, la scala della Biblioteca Laurenziana e con un modello spiegava concettualmente il progetto. Si considerava un erede di Benedetto Croce, ma molto più avanti. "Se non vedete la criticità di un'opera, non saprete mai fare l'architetto", diceva. Così ha fatto conoscere in Italia l'architettura contemporanea, soprattutto Frank Lloyd Wright, l'autore che amava di più, dando anche giudizi un po' arbitrari, su Le Corbusier o Louis Kahn che detestava cordialmente. Non poteva amarlo, per lui c'era soprattutto Wright: la quintessenza dell'avanguardia, della ricerca, del coraggio. Zevi amava quella mente così coraggiosa: Wright.

Dopo di lui, non ho più letto nessuno che sapesse farti capire così bene – solo con le parole, qualche disegno in pianta e qualche piccola foto in bianco e nero (ogni tanto, non sempre) – che l'architettura è soprattutto spazi, spazi reali: poi viene il problema del linguaggio.
Ti racconto una storia sul linguaggio: più o meno nel 1966, una sera troviamo sotto le finestre dello studio di uno dei tanti gruppi di lavoro che s'erano formati (c'era l'abitudine di affittare le case in centro, a pochissimo, ognuno si prendeva una stanza) due signori – Zevi e Quaroni – che passeggiano sotto le nostre finestre. Allora mi affaccio e dico a Zevi: "Professore, che ci fa a quest'ora qua sotto?". E lui: "Eh, che facciamo? Passeggiamo! Siamo peri- patetici! Siamo prostitute, vero Ludovico? (rivolto a Quaroni) Siamo passeggiatrici!". Era tutto un mondo, una cultura del linguaggio autoironico, provocatorio, anche un po' futurista, come declamava lui ogni frase, ogni parola: ma era già allora un mondo incomprensibile per me, figurati oggi. Zevi si sentiva dalla parte dell'avanguardia in architettura, ma con il '68 si accorge improvvisamente di essere vecchio, capisci?

Infatti si è sempre rifiutato di riconoscere il mondo che cambiava intorno a lui. Ancora nel 1975, si rivolgeva a noi studenti come fossimo dei bambini dell'asilo.
Sua figlia si era fidanzata con un militante di Lotta Continua: lui, ebreo e radicale, non poteva immaginarsi niente del genere. Quando ha capito che il mondo era diventato un altro, è iniziata una forma di declino: con le sue idee, i suoi articoli, le sue riviste, i suoi progetti.

Da dieci anni tieni una tua rubrica d'architettura su L'Espresso, proprio quella che prima era di Zevi. Nella marea di scrittura pressapochista dei giornali italiani, è una piccola isola di riflessioni utili. Come hai avuto il coraggio di prenderla in mano tu?
Per l'esattezza sono undici anni: ho scritto qualche centinaio di pezzi. È un altro dispetto che mi ha fatto Zevi: è morto il giorno del mio compleanno, il 9 gennaio del 2000. Da L'Espresso mi hanno chiamato lo stesso giorno, il direttore mi disse che non volevano cadesse in mani che Zevi non avrebbe amato: mi hanno fatto capire che lui sarebbe stato contento se avessi continuato io. Ho detto: "Guardi che io non sono scrittore, non sono neanche giornalista, una cosa del genere è difficilissima"... Mi ha risposto: "Le do un quarto d'ora per pensarci, poi sarà un disastro". Il corpo era ancora caldo e già tanti si stavano proponendo. Dopo un quarto d'ora, lo richiamo e dico: "Va bene". E accetto. Feci il primo articolo su Gehry, sul progetto del nuovo Guggenheim a New York, che poi non si è realizzato: mi è sembrato giusto, Gehry rappresentava proprio il sogno di Zevi. È stato lui il primo a farmi capire che l'architettura è fatta di attualità e non di storia. Odiava il postmoderno, odiava gli imbroglioni del postmoderno.

Che cosa vuol dire per te non imbrogliare?
Creare un linguaggio. Pensa al cinema italiano degli anni Sessanta, le battute fulminanti, come quando Gassman ne Il Sorpasso guarda la foto sfuocata della ragazza che piace a Trintignant, lo studente timido che l'ha fotografata dalla finestra, e gli dice sorridendo: "Non je potevi annà un po' più vicino?". Non è vero che adottavano un linguaggio, lo inventavano. Alberto Sordi, lo stesso Gassman, hanno inventato un linguaggio molto rapido, che si associava a un'immagine. Pasolini non ha mai amato questo tipo di linguaggio...

Lo credo, era friulano... Un immigrato, dal Nord, ma sempre un immigrato...
E lui amava quelli che non erano romani, Franco Citti, suo fratello... erano d'origine meridionale, parlavano un romano di periferia che era completamente adulterato dai dialetti del meridione. Molti immigrati, per esempio, sull'asse delle vie Prenestina o Casilina, venivano dal Sud e si fer mavano ai margini della città storica.

C'erano le baracche, fino agli anni Settanta. Mi ricordo benissimo, erano veri slums o baraccopoli, come le chiamavamo noi: vere città, non quattro catapecchie. E le discussioni, interminabili, ad Architettura, sul problema dei baraccati: visite di solidarietà, studi, ricerche. Tutto inutile: Roma, la città è andata avanti per i fatti suoi, ovviamente verso un degrado sempre più forte.
Gli immigrati avevano portato, molto vicino al centro, il mito della casa di campagna, una tipologia bassa, con parvenze di giardini o orti: poi anche lì è arrivata la speculazione e gli stessi immigrati hanno costruito le palazzine per affittarle o per metterci dentro tutta la famiglia, i 'ricongiunti'.

Ci sono anche film molto drammatici, anzi tristi, degli anni Settanta, specialmente di Ettore Scola, ambientati da quelle parti: uno terribile, con Manfredi, baraccato 'ricco'. E sempre di Scola, ti ricordi quello con Gassman, l'ex partigiano che diventa proprio un palazzinaro, anzi l'avvocato di un suocero palazzinaro?
C'eravamo tanto amati, certo, me lo ricordo. Con Gassman, più avanti, abbiamo anche provato a lavorare insieme. Era invecchiato, soffriva già di depressione. Un giorno, mi chiama il sindaco di Roma, allora era Rutelli, e mi dice: "Sono qui con Vittorio Gassman e vorremmo chiederti una cosa. Vuole aprire la Fondazione Gassman per giovani, studenti, all'ex Acquario". Così ci vediamo, comincio a fare un progetto e lo discutiamo insieme. Gassman era molto simpatico, arrivava in studio con una borsa da medico, anzi da scuola: una specie di cartella. Poi andavamo a mangiare in una trattoria romana, e lì mi spiegava cos'era la depressione. Una cosa che non sai: ti alzi male, un giorno, poi non ti passa più.

Eppure era molto attivo, faceva teatro sperimentale, allestiva spettacoli con Renzo Piano...
Con me era molto in confidenza: ero magari a casa sua, c'era la moglie Diletta che stava in cucina, o in giro, e lui mi faceva segno verso il mobiletto bar, diceva: "Apri, apri". C'erano due bicchieri e la bottiglia di whisky. E lui diceva: "Famo presto". Ci sedevamo a discutere davanti a un tavolino di Charles Eames, a cui aveva tagliato le gambe, non le sopportava. Anche Marcello D'Olivo, grandissimo amico, persona adorabile, grande architetto italiano degli anni Sessanta, beveva whisky e vino. Cucinava con il sigaro, prendeva la bottiglia del whisky e bere per lui era riempire un bicchiere come aperitivo. Aveva conosciuto Hemingway all'Harry's Bar: gli spiegò come era fatto il Martini cocktail. Era un altro mondo, un'altra Italia, dove accadevano cose stranissime.

Torniamo a oggi, quando prevedi sarà finita la costruzione della Nuvola?
Fra un anno e otto mesi: entro il 2012...

E se non riesci, vuol dire che si farà a Milano (sorride).
Buona idea, si potrebbe dividere: un po' la mettiamo a Milano, diciamo verso la Nuova Fiera di Rho-Pero, e un po' al Palazzo dei Congressi...

A parte gli scherzi, secondo te qual è il problema di queste grandi opere in Italia?
I problemi sono moltissimi. Innanzitutto, manca l'abitudine ormai da molti anni a progettare e a costruire in grande. Lo Stato italiano non ha idee, non ha strutture per progettare gran- di opere, oppure impiega decine d'anni. Non è neppure un problema finanziario. Costruire una scuola costa dai 10 ai 30 milioni: ma per il Ponte sullo stretto di Messina sono stati stanziati quasi 4 miliardi di euro, senza avere nessun progetto esecutivo. Vedi, non è difficile trovare i soldi. Sicuramente c'è, poi, il gravissimo problema di una legge che spinge le imprese a fare ribassi assurdi nelle offerte per vincere gli appalti. E il giorno dopo, per iniziare i lavori cominciano a chiedere rialzi: infatti è impossibile costruire qualsiasi progetto con un ribasso del 20 o del 30%. Sono leggi che sembrano europee, ma che celano sempre uno stratagemma all'italiana. E, comunque, soffriamo anche della mancanza di grandi scuole di management che formino, per esempio, gli amministratori pubblici.

In Italia, comunque, la tradizione di queste scuole è debolissima. Se c'era un tempo, oggi si è persa. Che cosa devono fare gli architetti giovani in questa situazione? Emigrano, cercano altre possibilità fuori dall'Italia. È quello che hai fatto tu, mi sembra, quando ti sei trasferito in Francia.
Se un architetto, entro i trent'anni, non riesce a costruire qualcosa, anche di piccolo, e a fare esperienza, rischia di arrivare troppo tardi. Rispetto alla concorrenza internazionale, che ha già una sua esperienza e ha completato le prime realizzazioni, gli italiani sono fuori gioco e non possono neanche partecipare ai concorsi. Devo ammettere che sono stato fortunato: ho cominciato a costruire molto giovane, a ventisei anni ho fatto il mio primo lavoro, il Palazzetto dello Sport di Sassocorvaro. Ho avuto sempre in testa l'idea che bisognava costruire. Sono stato in questo caso fortunato e, poi, lungimirante per così dire. Anche non facendo parte di organizzazioni né politiche né parapolitiche, alla fine la buona sorte si è fatta vedere. Mi ha fatto vincere i concorsi, mi ha fatto lavorare, indipendentemente dal mio trasferimento parziale in Francia.

Per questo tu non sei mai entrato in quegli schemi accademici o politici, su cui altri, invece, si appoggiano ampiamente? Usano gli incarichi all'università, nelle riviste, per promuoversi sul mercato, ottenere consulenze... Festeggiamo l'Unità d'Italia e 150 anni di clientelismo, con qualche leggina che finge di voler contrastare la baronia nelle Università.
Se sei impegnato nell'università, giorno e notte, e fai magari anche bene il tuo mestiere di professore, farai male il tuo mestiere di architetto. È molto difficile esercitare due diversi mestieri nella vita.

Sono anni, ormai, che i tuoi edifici hanno sempre un esito molto controverso, sono sempre molto discussi. Come reagisci quando ricevi delle critiche – giuste o ingiuste?
Ovviamente reagisco bene quando capisco che le critiche colgono un problema: reagisco male quando non hanno un vero valore. Per un progetto realmente avanzato c'è sempre un 50% di disaccordo: l'unanimità possono averla cose marginali, come le canzonette orecchiabili. Capita, comunque, che persone molto semplici, con minori conoscenze dell'architettura, riescano a percepire l'emozione di certi edifici. Una famiglia francese, non particolarmente devota a Cristo e alla Madonna, mi ha scritto in un'e-mail a proposito della chiesa di Foligno. Sono andati là, c'era una messa e l'hanno ascoltata tutta perché nel luogo hanno sentito una forte spiritualità. In un altro piccolo progetto, la Peres Peace House a Giaffa, il direttore mi ha detto, più o meno il primo giorno che ha occupato il suo ufficio: "Sono seduto al mio posto, vedo il mare, c'è una luce bellissima e mi piace stare qua, sento un senso di serenità".

Nel progetto del Palazzo dei Congressi, trovo una specie di pudore: sostanzialmente hai fatto una grande massa trasparente, una teca e dentro ci hai messo un oggetto architettonico molto poetico, molto evocativo. Perché, invece, non hai agito, come ormai fanno tutti, sull'esterno con il grande gesto, la forma eroica, il landmark definitivo per passare alla storia dell'architettura (ammesso che esista ancora una sua storia)?
Ti risponderei che sono interessato all'interstizio, che è il luogo dove io amo stare. Ovvero, la mia architettura si può definire interstiziale e in questo c'è qualcosa anche di un po' autobiografico: tu sai di cosa parlo. Non sono mai appartenuto a grandi movimenti, a grandi schieramenti di pensiero. Ho sempre vissuto in una forma di spazio ritagliato per me, finché non si chiude anche quello e devo andare a cercarmene un altro. Sono molto lontano dal sistema di potere: contrariamente a quello che la maggior parte delle persone pensa, in un paese difficile come l'Italia, viste le enormi difficoltà nel realizzare i grandi progetti. Chi ci riesce deve essere necessariamente collegato con lobby più o meno mafiose: non è il mio caso.

Certo, con questo edificio del Palazzo dei Congressi non mi sembra che tu abbia cercato il consenso, ma neanche la polemica.
Torno alla tua domanda di prima e ti racconto questo: insegnavo alla Columbia University di New York, ma vivevo a Parigi. Nei grandi viaggi, che facevo per seguire anche lo studio di Parigi, avevo come unico panorama le nuvole viste dall'alto: rappresentavano per me un oggetto abbastanza sicuro, tranquillo, come un letto sul quale riposare, atterrare. Mi davano un senso di serenità e di pace. Vedere queste geometrie con un algoritmo estremamente complesso (che però esiste) mi affascinava: così ho avuto un'idea semplice e una complessa, Rinascimento e Barocco, come succede a chi vive a Roma, o la conosce bene. Inizio a lavorare con un plastico, con una sorta di scultura che alcuni chiamavano Nuvola: questo concetto non l'ho dato io, la gente l'ha adottato, ma era esattamente quello a cui pensavo. Poi, a un certo punto, è cominciata a nascere questa teca: la Nuvola occupava e si espandeva all'interno di un oggetto molto simbolico.

Così in una zona come l'EUR , che è tutta di grandi masse, hai combinato il volume gigante, ma trasparente, con il simbolismo della Nuvola che si espande al suo interno?
Esatto: una specie di 'coabitazione' tra razionalismo romano e uno spirito diciamo 'borrominiano'. Una massa proporzionata alla scala urbana, alla grande scala monumentale, ma che contiene un elemento della città tipico di Borromini: che poi sappiamo derivare da uno sviluppo quasi naturalistico, quindi sempre molto più complesso di quello che crediamo.

E sotto, nel ventre della megastruttura, c'è anche un po' di Piranesi... Insomma, questi giganteschi sotterranei mi fanno pensare a un film di storia dell'architettura antica, dove puoi leggere le diverse stratificazioni dei secoli...
C'è, infatti, una stratificazione, qui sotto c'è del cemento con pilastri immensi. Hanno una dimensione abbastanza impressionante a vedersi, e la luce che, in certi punti, attraversa tutto l'edificio, dall'alto fino ai sotterranei, li rende simili a un enorme Mitreo con queste gradinate, questa scala gigante, così antica... L'hai detto perfettamente, una sorta di rovina contemporanea.

Forse, non t'interessa qui fare del design. A me invece interessa molto, in questo periodo, l'architettura che contiene dei valori, almeno progettuali, legati al design. Credi che, in questo caso, ci sia una componente di progetto industriale, per esempio, nella 'teca' in cristallo?
Non so se questo è design, ma la struttura della teca è pensata al decimo di millimetro: qui, se si sbaglia la scala, salta tutto. Una proporzione errata, su una lunghezza di 198 metri, mette in crisi il progetto. Se il cavo che sostiene i vetri cambia di diametro, di un decimo di millimetro, si vede benissimo. Così tutto è stato studiato lavorando con un modello in legno alto otto metri, a scala 1:50. Via via che progettavamo, con l'impresa ci raccordavamo sulle varie fasi, usando il modello di controllo.

Stai facendo dei progetti sicuramente ancora più grandi di questo, come l'aeroporto di Shenzhen: ti capita mai, lavorando su certe opere, di ripensare a quelle già realizzate, di rammaricarti perché avrebbero potuto essere diverse?
Credo proprio che l'architetto, ogni architetto, non possa dare colpa a niente e a nessuno di quello che realizza, se non a se stesso. Non sarai così stupido da non capire che con un certo committente, in un certo progetto, il risultato dipende tutto da te. Io amo molto costruire perché c'è l'esperienza del cantiere, non solo per il risultato finale. Il cantiere può essere una fonte di ispirazione per moltissimi altri progetti, ma senza ripensa- menti, rimorsi per nessuno. Io non ho compassione per me stesso, figurati per gli altri... Certo, magari si può usare qualche piccolo trucco: per esempio, a volte aggiungo all'inizio del progetto qualcosa che poi toglierò, mi serve per avere più fondi per fare altre cose che possono venirmi in mente durante l'esecuzione. Comunque, ti ripeto, il responsabile del progetto e del risultato, alla fine, sono sempre io, con le mie decisioni. Ti ricordi cosa diceva Sartre ne Il diavolo e il buon Dio? Decido io il bene o il male, Dio non esiste. La colpa non si può dare a Dio. E neanche al diavolo.

Tu hai sicuramente una 'firma' evidente sui tuoi edifici, che però non è un marchio di fabbrica, come potrebbero fare Koolhaas, Libeskind, Zaha Hadid... Penso alla torre dell'albergo accanto al Palazzo dei Congressi: crei un complesso di volumi urbani, ma non ti preoccupi minimamente di fare la torre in pendant con il Palazzo dei Congressi. Perché?
Perché sarebbe fare dello stile: io non ho uno stile, non lo voglio avere, per tutta la vita mi sono battuto contro. In qualche modo, la gente riconosce comunque i miei progetti anche se non sono simili formalmente. Perché li riconoscono? Me lo sono chiesto tante volte, ma non so darmi una risposta. Forse i miei edifici hanno una loro continuità. Se li guardi bene, lavoro sempre sugli stessi concetti: usare del materiale ma come materia, non come materiale; invecchiare il progetto prima che invecchi, cioè non rivestire, falsificare, fingere; cercare di avere il materiale espresso naturalmente; e infine avere e dare una lettura semplice della costruzione. Uso pochissimi materiali: legno, travertino, acciaio e vetro, cemento per le fondazioni. Non uso rivestimenti, uso pochissimo la pittura, cerco di far vedere quello che ho pensato: semplicemente. La nuova Fiera di Milano a Rho-Pero, in fondo, è vetro, alluminio, un po' di cemento, pannelli di acciaio inox, oppure superfici colorate di rosso, pavimento di pietra naturale. Basta.

Toglimi una curiosità: non hai costruito molti edifici residenziali, almeno in Italia. A Lione, a Parigi sì, ma qui non molto. Eppure mi sembra che le tue 'case' siano molto belle, come le due torri al quartiere di via Spadolini a Milano. Ci passo sempre davanti, sono vicine alla Bocconi: anche qui, questo albergo di quattrocento stanze è, in fondo, una torre di abitazione. Insomma, se ti vengono così bene, perché non ti chiedono più residenze?
Non so risponderti: nei fatti, non mi danno incarichi per progetti residenziali. Certo, mi piacerebbe fare una città abitata: so che è difficile, ma a Lione ho realizzato, forse, il primo quartiere residenziale rivestito in acciaio inox. Però è difficilissimo realizzare della residenza: la ricerca sull'abitazione è oggi la cosa più importante da fare, ma occorre un cliente illuminato, un cliente che voglia investire su un progetto residenziale di qualità.

Questa è una domanda che, più o meno, ho già fatto a Maldonado, il primo che ho intervistato: la faccio adesso a te, l'ultimo... Sei sempre molto chiaro sui problemi che ci sono in Italia per gli architetti giovani. Che cosa dovrebbero fare, secondo te, oltre a lavorare?
Dovrebbero fare la rivoluzione, come diceva Mario Monicelli. Noi pensiamo sempre che le cose possano migliorare, ma lui sosteneva di no. Durante uno degli ultimi pranzi che abbiamo fatto in una trattoria accanto a casa sua, mi disse: "In Italia ci vuole la rivoluzione! I giovani devono fare la rivoluzione, sotto tutti i punti di vista". E, in effetti, la stanno facendo in Tunisia, in Egitto, la stanno facendo in Algeria, nello Yemen, perché non in Italia? Ci vuole una rivoluzione non violenta, durante la quale le ultime generazioni si presentino nelle piazze per dire: "Eccoci qua, siamo pronti a cambiare". Evidentemente, non solo i giovani architetti...

Come negli anni Sessanta?
Forse come nel 2011. Non c'è niente da fare. Non c'è niente da dire. Non possiamo resistere a questo tipo di situazione. Prima o poi succederà, in ogni caso.

Per finire ti faccio una domanda di moda, sulla tecnica. Ti ho visto prima in studio usare l'iPad, per mostrarmi gli ultimi cantieri. È uno strumento che usi davvero o è solo una sorta di album di fotografie molto chic?
L'iPad è uno strumento importantissimo. Ha un unico difetto: essere solo Apple. Fosse universale sarebbe l'invenzione migliore del mondo. E poi bisognerebbe trasformarlo in quello che potrebbe essere veramente: un vero e proprio computer. Ovvio che Steve Jobs vuole, deve, vendere un Mac, un iPhone, un iPad: quindi l'hanno diviso in tre... ma diventerà uno strumento formidabile. Hai la collezione di tutto – la tua memoria di immagini, i video – puoi scaricare un sacco di applicazioni. Certo, c'è bisogno di completarlo, è una macchina da raffinare.

E i temi dell'architettura oggi sono adatti a un utilizzo su iPad? Il mio amico Lissoni lo usa anche per fare schizzi di progetto...
Io preferisco la carta per disegnare, dipingere: sai che sul mio tavolo c'è sempre un rotolo di carta da schizzi. L'iPad, però, è adatto a darti una conoscenza complessiva di quello a cui stai lavorando. Vuoi sapere tutti i dettagli di un progetto? Li trovi facilmente, puoi sintetizzare i vari progetti che hai fatto, quello che stai facendo e che vuoi realizzare molto più rapidamente. Ti trasmettono i materiali dallo studio e li vedi a Shenzhen, a Francoforte, dovunque sei: li studi, li correggi. Ti ripeto, aspetto solo che diventi un vero piccolo computer.

Lo vedi come uno strumento di lavoro, una piccola fabbrica di architettura, di progetto?
Sì, una piccola fabbrica di idee in uno spazio limitatissimo. Certo, è uno dei punti su cui lavorare: le nanotecnologie sono il futuro del progetto, in tutti i sensi. È così che dovremo lavorare, naturalmente senza perdere di vista i grandi temi: come far vivere meglio le persone. A che cosa servono altrimenti il design, l'architettura, la città, l'arte?
Di origini lituane, Massimiliano Fuksas nasce nel 1944 a Roma, dove si laurea in architettura nel 1969 presso l'Università "La Sapienza". Nel 1967, ha dato origine al suo studio di Roma, al quale ha fatto seguito, nel 1989, quello di Parigi e, nel 2008, Shenzhen in Cina. Direttore della 7. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia "Less Aesthetics, More Ethics", dal 2000 Fuksas è l'autore della rubrica di architettura del settimanale L'Espresso, rubrica fondata da Bruno Zevi.

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