Questa intervista è pubblicata su Domus 1079, in edicola a Maggio 2023.
“Una sorpresa inaspettata di cui sono grata. Raramente alla soglia dei 60 anni accade di poter allargare la propria vita. A me è successo grazie alla Biennale di Venezia, che mi ha letteralmente trasformata”. Arriva 15 minuti in anticipo all’appuntamento Lesley Lokko. Architetta, docente, attivista sociale e, da alcuni anni, anche autrice di best seller che hanno fatto discutere. Perché c’entrano poco con l’architettura e molto con la razza, l’identità, le emozioni e l’eros in una società sempre più globalizzata. Temi postcoloniali di intellettuali come Edward Said, Gayatri Chakravorty Spivak, Chinua Achiebe, Vidiadhar Surajprasad Naipaul, che Lokko ha portato anche nel cuore della sua riflessione architettonica. Aprendole un percorso inedito che culminerà proprio tra pochi giorni proprio qui, alla 18. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia.
Partiamo da qui. Lei risiede ad Accra, ma ha vissuto a Dundee, Londra, Oxford, Ames, New York, Chicago, Edimburgo e Johannesburg. Che effetto le ha fatto passare questi mesi a Venezia?
Non c’è niente di analogo a Venezia nel mondo. Per questo milioni di persone vengono a visitarla da tutto il globo. Viverci però è molto diverso. Venezia è una dimensione magica, che sospende la relazione con il mondo reale. E fa accadere una cosa incredibile.
Qual è la cosa incredibile?
Si spende poco! (sorride). Adesso che ho preso il ritmo della città guardare il mio conto in banca mi sorprende sempre.
Perché Venezia costa poco?
Venezia è piena di turisti globali, ma in realtà è very local. È decisamente una città, ma diversa dall’idea di città che si è affermata ed è definita dall’asse display-retail. Oggi la città è dove si vende tutto 24 ore al giorno, mentre a Venezia le tentazioni di acquisto sono pochissime.
“Il laboratorio del futuro” è un titolo impegnativo. Soprattutto perché architettura non è un termine univoco.
È così. Architettura significa cose diverse in contesti diversi. Nel Nord o nell’Ovest globali è parte della conversazione, molto alta e raffinata, ma in altre zone del mondo tutt’altro. In città come Londra, Milano o New York è una categoria larga, che ha a che fare con scuole, case, ospedali e soprattutto con un’idea di civiltà. In Africa, invece, non c’è nemmeno una parola esprimere il concetto di architettura. Ha a che fare, però, con residenze individuali e, per questo, c’è un senso di ottimismo controintuitivo, un cantiere che guarda avanti.
Ottimismo controintuitivo?
Se l’architettura non è chiara nel suo significato, c’è fede, c’è fiducia, c’è sforzo. E una grande opportunità di reinventare il mondo, di essere un change agent.
È l’altro concetto della sua Biennale. Ma cosa significa essere un agente di cambiamento in un mondo iperfluido?
Per tutta la gestazione della mostra ho pensato a questa domanda, e cioè se le manifestazioni come quelle organizzate dalla Biennale e, in generale, le architetture siano giustificate in termini di emissioni di carbonio e di costi. Quando un anno fa annunciai il titolo, pensavo e parlavo di una ‘narrazione’ che si evolve nello spazio. Oggi ho una visione molto diversa, in cui la Biennale è allo stesso tempo un momento e un processo. Prende in prestito struttura e formato dalle mostre d’arte, ma se ne distingue per aspetti critici troppo trascurati, come le questioni legate alla produzione, alle risorse, ai diritti e ai rischi. Per questo i riflettori sono sull’Africa, o meglio su quella cultura fluida e intrecciata di persone di origine africana che oggi abbraccia il mondo.
A proposito di Africa. Nella sua Biennale per la prima volta ce n’è molta. Troppa forse?
L’Africa è il continente più giovane del mondo, con un’età media pari alla metà di quella dell’Europa e degli Stati Uniti, e un decennio più giovane dell’Asia. È anche il continente con il più rapido tasso di urbanizzazione, quasi il 4 per cento annuo. Questa crescita rapida, in gran parte non pianificata, avviene generalmente a spese dell’ambiente e degli ecosistemi locali, ponendoci dilemmi che investono il cambiamento climatico sia a livello regionale che planetario.
Ascoltandola, l’Africa pare una metafora. Dove tutte le questioni legate all’equità, le risorse, la razza, la paura, la speranza si fondono.
È così. Oggi siamo un po’ tutti africani: ciò che accade in Africa accade a tutti noi.
Anche l’architettura è una metafora?
Due metafore, perché l’architettura è almeno due cose: una professione e una disciplina, e c’è una grande differenza fra le due. La disciplina è più larga, influenza il mondo e ha a che fare con filosofi, giornalisti, critici, politici e civil servant. La professione, invece, è più stretta ed è parte del risk management o, se vogliamo, del risk mitigation, in un mondo che sta diventando incredibilmente rischioso. Penso che la professione di architetto sia oggi una delle più vulnerabili, perché quello che fa è messo altamente a rischio dal mondo fluido. E viceversa.
Architettura è però sempre più anche comunicazione dell’architettura. Per Domus questo ha voluto dire un redesign del proprio metodo e del purpose, perché quelli tradizionali erano stati superati dall’evoluzione degli studi e delle mostre a livello globale.
È una domanda interessante. Risponderei parlando della mia esperienza negli Stati Uniti, dove ho vissuto per tre volte per lunghi periodi di tempo. Ogni volta ho avuto una sensazione angosciosa che non sapevo definire. Alla fine, ho capito che era la “transazione”, che in fondo significa semplicemente che in qualche modo lì qualcuno ti sta vendendo qualcosa, a tutti i livelli. Non dico che questo aspetto esista solo negli Stati Uniti, ma lì è molto più evidente che altrove.
La Biennale Architettura è ricerca ma nasce come progetto di comunicazione. Anche la Biennale partecipa della stessa transazione?
Certo che anche la Biennale “vende” qualcosa, ma quello che vende non appartiene alla dimensione commerciale, che forse è più evidente nella Biennale di Arte perché l’arte ha sempre a che fare con “le opere fisiche” oggetti. La comunicazione, invece, oggi negli studi di architettura è centrale per vendere progetti. Niente di male, ma è una comunicazione molto diversa da eventi manifestazioni come quelle organizzate dalla Biennale, che certamente deve anche vendere biglietti ma non è questo il suo scopo principale.
Immagina come si sentirà dopo la Biennale?
Una sola parola: stanca. Ma anche profondamente grata perché questa esperienza ha cambiato il mio modo di vedere il mondo, non solo l’architettura.
Ultima domanda. A chi ha pensato organizzando la Biennale?
Ho pensato a mio padre, che mi ha cresciuto ripetendomi che davanti a un lavoro bisogna sempre impegnarsi al massimo delle nostre possibilità. E ho pensato al mio editor, che legge i miei libri e decide se pubblicarli. Quando lo incontrai la prima volta mi disse: “Non pensare mai a chi ti leggerà perché il rischio è perdere la tua voce”. Ho ascoltato entrambi e adesso dentro di me, nel mio profondo, so che più di così non avrei potuto fare.
Immagine di apertura: Illustrazione di Felix Petruška