Il museo che diventa due

A poco più di un mese dall’apertura del nuovo SFMoMA, il flusso in corso di critiche, osservazioni e  opinioni è inarrestabile. Accademico o da happy hour, quel dibattito autorizza una riflessione.

Snøhetta, SFMoMA, 2016
Nell’attraversare il nuovo edificio del SFMoMA e il vecchio insieme, sono ormai evidenti due livelli di percezione, pari a due diverse scuole di pensiero.
Il doppio livello non riguarda solo la prevedibile dicotomia tra i due edifici, i momenti in cui nascono e i relativi progettisti. C’è la dimensione oggettiva, puramente fisica e immanente, di esperire gli spazi, e dunque l’arte. E c’è la dimensione dell’immaginario che ci accompagna a ogni passo, sul significato, anche etico, della nuova architettura, sul messaggio che essa vuole comunicarci. Materiale e immateriale: due aspetti sempre presenti, mischiati, nella realizzazione di un’opera, che qui si smarcano l’uno dall’altro, e prendono strade diverse. Da una parte la tangibilità fisica, quel che cioè resterà per certo nel tempo. Dall’altra l’immagine intangibile che ognuno di noi avrà ricevuto da quella fisicità, dunque le onde di opinioni, le critiche demolitive, entusiasmi ed emozioni, che con ogni probabilità segneranno in cicli, la storia del nuovo Museo di Arte Moderna di San Francisco. Del tangibile-intangibile resterà un democratico ‘si ama o si odia’, ma dell’architettura va detto il suo.   
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016
L’edificio di Mario Botta inaugurato nel 1995 portava con sé un successo di basso profilo, non era piaciuto granché già allora. A metà tra l’austero e l’autorevole, quasi autoritario nelle forme, il ‘vecchio’ SFMoMA non è mai stato un edificio particolarmente convincente, una presenza poco amichevole insomma. Si inseriva sonnacchioso in zona SoMa, il quartiere centrale di South Market, tra altre architetture sonnacchiose, come il Parco Yerba Buena e gli edifici intorno. Tuttavia la sua identità forte, è stata ben evidente da diventare fin da subito, icona di un intero distretto, simbolo di un preciso momento della storia dell’architettura, lì nella west coast, fin qui, nella vecchia Europa.
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016, terrazza
La richiesta di concorso era di triplicare gli spazi da destinare a nuove gallerie e di ricavarli dove possibile, date le dimensioni minime della superficie disponibile al suolo. Il primo impatto del nuovo edificio è così deciso da esigenze contingenti: il volume si svilupperà verso l’alto. Sale su per dieci piani in un lotto stretto che occupa, sul retro, l’intera lunghezza dell’edificio preesistente: gli si aggancia per cinque piani, e lo sovrasta di altri cinque. Il sito diventa così ispirazione e limite a quel che sarà.
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016, ingresso laterale
Decisa l’altezza, l’approdo al primo, quanto risolutivo gesto progettuale ha determinato la scelta di campo per tutto il resto: il nuovo edificio si sarebbe affiancato al vecchio per contrasto, una sorta di contrappunto generazionale. Da lì in poi è tutta acqua (architettura) che scorre. Del nuovo SFMoMA c’è un’immagine, urbana, che si impone sopra ogni cosa, e sarà per sempre il logo del futuro museo: l’architettura scultura (scultura architettonica?) della nuvola bianca. La forma organica, si schiaccia, si allunga e si deforma dove occorre. L’edificio con la pelle corrugata di onde orizzontali, è un volume che sembra gonfiarsi allo spirare del vento. Come a suo tempo fu deciso per l’edificio oggi siamese, anche questa appare la scelta suprema, condivisibile o meno, di una personalità architettonica assertiva, che vuole distinguersi, di più, accenna a indicare una svolta, un cambio di rotta definitivo nell’immagine di una città.
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Il primo approccio, che viene d’istinto, è confrontare e contrapporre il nuovo e il vecchio edificio per differenze, o complementarietà, capire come si avvicinano e dialogano. Di fatto un ibrido. Sarà causa, di quell’ibrido, il vecchio o il nuovo? È questa l’anima del progetto? Si rimane senza risposta. Di là pannelli bianco puro a profusione, di qua la muratura in mattoni rossi curata in ogni dettaglio. Di là qualcosa che sembra gioco, polistirolo a buon mercato, di qua il caro buon vecchio pensiero architettonico, presente in tutta la sua sapiente gravità. Per alcuni salvare il vecchio è stato come ucciderlo per sempre. A tratti i due edifici sembrano soffrire uno a causa dell’altro da far pensare come unica possibile, la soluzione drastica di demolizione e ricostruzione: salvare il vecchio da confronti inopportuni e lasciarne onorata memoria storica; salvare il nuovo dagli stessi rischi e lanciare nel futuro la nuova storia del museo.
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016, terrazza
L’ingresso principale al SFMoMA è confermato dall’edificio preesistente, ma Snøhetta ne aggiunge uno laterale dal carattere binato esterno e interno. Una gradonata esterna va dritta al piano ammezzato, collegandosi alla prima terrazza con un effetto urbano molto ben riuscito. Mentre l’ingresso da strada permette di trovarsi immediatamente dentro e in contatto con una delle opere più belle esposte al museo, il labirinto circolare di Richard Serra. Il doppio ingresso ha paradossalmente confuso percorsi e relazioni tra i due edifici, più che migliorarne le prestazioni. A parte le ciniche osservazioni di chi nell’ingresso da strada, vede più la hall patinata di un elegante edificio per uffici, che l’ingresso libero a un museo, da lì ci si inoltra verso direzioni non ben chiare per giungere non facilmente all’area biglietti. Stesso problema si avverte provenendo dal vecchio ingresso. Dove, se in origine la scala razionalista segnava un punto focale, geometricamente centrata nel cono di luce del grande oblò circolare, oggi il ruolo della nuova scala, leggera e angolata, appare come un attraente oggetto di design, la si percorre per quello, non perché sia chiaro dove conduce. L’ibrido è in quel mancato dialogo, nel non riconoscersi insieme dei due edifici, proprio nel punto di contatto, dove il nuovo concept è entrato a gamba tesa nel vecchio privandolo del suo maggiore simbolo di riconoscimento Post Moderno.  
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016
L’elemento più appagante dell’intera (nuova) esperienza architettonica nell’attraversare gli edifici è nelle viste, spettacolari, che si offrono ai vari livelli sulla città. Scorci stretti, angolati tra i volumi degli edifici intorno, prospettive in quota, aperte a più sfondi o l’incontro ravvicinato con la mole del grattacielo bianco Decò accanto, danno un ritmo inaspettato alla visita. I percorsi che si svolgono a gradoni sul lato lungo dell’edificio restano una delle composizioni architettoniche più avvincenti nel panorama delle architetture museali contemporanee. La possibilità di traguardare le rampe da un livello all’altro, si risolve con vetrate a sorpresa, dall’effetto illusorio spiazzante. Il dentro-fuori dagli oggetti esposti nelle sale, dall’arte alla città, crea un vero e proprio spazio urbano in cui cercare il proprio punto di vista, e restare a osservare. Succede così nella prima terrazza, stretta tra muri alti, cui si accede dalla gradonata esterna laterale, come a una piazza pubblica. Succede alla terrazza al terzo piano, quasi metafisica. Null’altro che due sculture figurative che ci fanno da specchio nel guardar fuori, anche perplessi. Minimalismo del nulla, e del bianco, eppure di grande scuola espressionista. Succede alla terrazza intermedia, quella del ristorante. Questa fa da contrappunto alla linearità delle prime riproponendo in quota, lo spazio quadrangolare di una piazza, quasi mediterranea.
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Immagine, presupposti e scelte progettuali interessanti, dal carattere sommamente esplorativo, onorano uno stato sempre vivo della ricerca architettonica del gruppo capitanato da Craig Dyckers. Snøhetta ci ha abituati a colpi di scena onirici di altissimo pregio nel mondo del tangibile, ci ha fatto credere che è possibile costruire poesia materiale, attraversarla e viverla come parte delle nostre città. Nella Biblioteca di Alessandria come nell’Opera di Oslo, c’è un pensiero aulico che diventa realtà, come succede quando la musica psichedelica dei Sigur Ròs diventa contatto spirituale con la terra, fuoco e ghiaccio insieme, nei concerti all’alba, nelle campagne islandesi d’alta quota. Il suono, l’architettura che emerge dal progetto a San Francisco interpreta spazi e ritmi secondo una sensibilità e un gusto tipicamente nordici, qualcosa che appare caratterizzato in senso istintivo, prima ancora che pratico e funzionale. Risulta doveroso per questo darsi conto di dubbi e perplessità, parte di progetto anch’essi, che emergono naturali nel progetto del nuovo SFMoMA.
Snøhetta, SFMoMA, 2016
Snøhetta, SFMoMA, 2016

La genesi di quest’opera resterà unica per molte ragioni, la più importante è che accompagnerà per sempre il nome di Snøhetta a quello di Mario Botta, l’architettura contemporanea del costruire scultoreo per emozioni, e i canoni di un classicismo Post Moderno. Una personalità alpina granitica e l’altra nordica solare. Il SFMoMA sarà questo per sempre. Non potrà mai esser letto senza la dicotomia da cui è nato.

Resta il fatto che San Francisco è in un momento di grande riaffermazione urbana, e ha bisogno per questo di lasciar fare, di lasciare che l’architettura si esprima per costruire la nuova identità della città. Per quell’obiettivo si concede (all’architettura) di sorprendere, di non piacere per forza, e a volte di essere anche strana, ma sempre stimolante. Il nuovo SFMoMA sale sui tetti e reclama la sua dirompente identità. Non vuol dipendere da nessuno.

Chissà che non sia nel dibattito aperto su arte, città e ruolo dell’architettura, la vera eredità consegnata da Snøhetta a San Francisco.

© riproduzione riservata

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