Gabriele Basilico (1944–2013)

Le città con le loro strade, piazze, campi, linee di trasporto, con i loro tetti, muri, facciate, piani terra, arcate e lunghe prospettive: questi sono i suoi temi, per i quali noi, amanti di città nelle loro mille declinazioni, ricorderemo con gratitudine il grande fotografo, spentosi ieri a Milano.

Forse, la scomparsa ieri di Gabriele Basilico, fotografo, corrisponde alla fine di un determinato modo di guardare le nostre città. Egli è stato uno straordinario osservatore, neutrale, intelligente, profondo; vedeva gli ammassi di edifici (cioè, la città) come qualcosa che, sebbene realizzato dall'uomo, per continuare a vivere, dell'uomo non aveva più bisogno. Le sue fotografie, scattate con passione e senza retorica viaggiando su e giù per il nostro pianeta, oltre a essere oggettive, ci aiutano a raggiungere un livello di comprensione del fenomeno urbano di cui non sapevamo di essere capaci. Inoltre, su un piano più personale, Gabriele Basilico è stato una persona vera, un artigiano dell'immagine, lontano dai molti personaggi-calcolatori che fanno una cosa ma vogliono dirne un'altra.

Circolava la voce che la sua hidden agenda fosse, molto semplicemente, fotografare tutte le grandi città del mondo: un'agenda che può sembrare un'utopia (alla maniera di Borges), ma che – ce lo diranno le generazioni future – forse egli è riuscito a portare a compimento. Le sue prime fotografie, quelle delle fabbriche di Milano, si concentravano sugli edifici, ma la loro anonimità è già urbana. Le sue immagini della grande rassegna della DATAR ritraggono invece i porti nel nord della Francia e qui, oltre alle città, vengono ripresi il paesaggio e il confine della costa. Egli era costantemente all'inseguimento dei confini, di linee fisiche, insomma di quei segni primigeni che sono alla base di ogni luogo: per lui, doveva esserci un disegno che sovrintendeva alle cose.
In apertura: Edificio Azarieh a Beirut, fotografato da Gabriele Basilico nel 1993. Da: <i>Domus</i>, 748, aprile 1993. Qui sopra: i suk di Moneo in fase di cantiere, fotografati da Gabriele Basilico dieci anni dopo, nel 2003. Da: <i>Domus</i> 862, settembre 2003
In apertura: Edificio Azarieh a Beirut, fotografato da Gabriele Basilico nel 1993. Da: Domus, 748, aprile 1993. Qui sopra: i suk di Moneo in fase di cantiere, fotografati da Gabriele Basilico dieci anni dopo, nel 2003. Da: Domus 862, settembre 2003
Ha poi documentato Roma, i porti e le navi, Beirut, la Silicon Valley, i tessuti delle casette monofamiliari americane, le valli del Trentino, Mosca, Rio de Janeiro, le linee ferroviarie e i canali, le fabbriche di Sesto San Giovanni, Berlino. Non importa l'ordine cronologico dei suoi progetti urbani, perché in essi non pare esserci un'evoluzione e neppure una progressione: nelle città non c'è nulla né di vecchio né di nuovo; le sue città sono fatti, cose, documenti, frutto di un'antica necessità antropologica e sociale della razza umana, che è la prossimità. Vale la pena ricordare anche le sue straordinarie immagini realizzate per un volume Electa dedicato all'architettura di Michelangelo, di cui egli seppe, tramite le angolature e il trattamento della luce, far risaltare al meglio gli effetti scultorei. Molti ricorderanno la rassegna che Basilico ha presentato alla scorsa edizione della Biennale di Architettura di Venezia "Common Ground", fotografando i diversi padiglioni nazionali nei Giardini: forse, questa era un consapevole omaggio alla coppia dei Becher.
Rue Maarad a Beirut, fotografata da Gabriele Basilico nel 1993. Da <i>Domus</i>748, aprile 1993
Rue Maarad a Beirut, fotografata da Gabriele Basilico nel 1993. Da Domus748, aprile 1993
Non mi vengono in mente sue immagini in cui si vedano figure umane: presumo lavorasse la mattina presto, perché quasi sempre le ombre sono lunghe. Le sue fotografie del centro di Milano sono probabilmente scattate nella canicola dell'agosto deserto. Quasi tutto il suo portfolio è in bianco e nero: solo recentemente Basilico si era lanciato nell'uso del colore, dimostrando, tra l'altro, che il manufatto-città è sostanzialmente incolore. Non penso sia possibile scindere le fotografie di Basilico dal suo momento storico. Come le fotografie di Atget raccontano la scomparsa della Parigi che se ne va davanti alle demolizioni, come quelle di Feininger raccontano la New York del business che sale verso il cielo, e come quelle di Stoller raccontano del consumo di suolo americano negli anni '50 e '60 dello scorso secolo, penso che Basilico ci racconti della città compatta che ritorna, e di una nuova presa di coscienza collettiva della bellezza del disegno urbano.
Quasi tutto il suo portfolio è in bianco e nero: solo recentemente Basilico si era lanciato nell'uso del colore, dimostrando, tra l'altro, che il manufatto-città è sostanzialmente incolore.
Rue Abdel Malek a Beirut fotografata da Gabriele Basilico. Da: <i>Domus</i> 862, settembre 2003
Rue Abdel Malek a Beirut fotografata da Gabriele Basilico. Da: Domus 862, settembre 2003
Non mi pare fosse particolarmente interessato ai landmark e agli oggetti fantasmagorici che oggi vanno per la maggiore e che si contendono la provvisoria visibilità nelle città, per poi cadere nell'oblio. Tuttavia, uno dei meriti di Basilico è quello di essere stato capace, quando si trovava a dover fotografare un oggetto strano, a riportarlo nei binari della norma, ad attenuarne i tratti spettacolari e a ritrarlo semplicemente all'interno di una situazione collettiva, insieme ai suoi compagni di strada. Le città con le loro strade, piazze, campi, linee di trasporto, con i loro tetti, muri, facciate, piani terra, arcate e lunghe prospettive: questi sono i suoi temi per i quali noi, amanti di città nelle loro mille declinazioni, lo ricorderemo con gratitudine.
Le rovine di Rue Abdel Malek a Beirut fotografate da Basilico durante il suo viaggio del 1993. Da: <i>Domus</i> 862, settembre 2003
Le rovine di Rue Abdel Malek a Beirut fotografate da Basilico durante il suo viaggio del 1993. Da: Domus 862, settembre 2003

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