Lo scorso 28 gennaio è scomparso l'architetto italiano Alessandro Anselmi. Nato nel 1934 a Roma, città in cui si è laureato in architettura nel 1963, Anselmi è stato membro fondatore dello studio G.R.A.U. (Gruppo Romano Architetti Urbanisti) e redattore dal 1974 al 1981 della rivista Controspazio. In questo articolo pubblicato nel 1981 sulle pagine di Domus, Francesco Moschini si sofferma sui progetti di Santa Severina in Calabria: un asilo, un cimitero e un mattatoio. Si traccia così una narrativa in grado di tenere unito il lavoro dell'architetto, che "non si accontenta soltanto di aderire alle più intime evocazioni del luogo, ma si pone con esso in termini dialettici".
Pubblicato in origine su Domus 623 / dicembre 1981
Architettura di frontiera
La pluralità di questi quattro progetti – tutti tesi alla negazione di una ricerca di novità ed invenzione ad ogni costo, per farsi invece continuità e rivisitazione di altre precedenti, personali esperienze progettuali – restituisce un'idea di architettura come insieme; come combinazione cioè di spazi e oggetti tra loro interferenti, che trapassa dal singolo manufatto all'architettura nella sua vocazione più spiccatamente urbana. Le risposte in termini architettonici alle diverse occasioni di progettazione vi mantengono infatti un'unitarietà di fondo che va oltre l'inconsueta occasione di configurare un progetto complessivo, quasi un ciclo completo delle funzioni biologiche di un intero paese, dall'infanzia alla morte.
Il rischio più immediato, in una condizione di assoluta mancanza di riferimenti architettonici colti, avrebbe potuto essere quello di inventare un campionario di architetture che, sotto false spoglie di adesione al luogo, evocasse un'atmosfera locale assolutamente inesistente. Anselmi ha invece radicato le sue architetture a un luogo che altro non è che quello della sua storia personale, della sua formazione culturale, del suo apprendistato romano dei primi anni sessanta. Certo non ha trapiantato in Calabria variazioni romane della propria idea di architettura, ma ha tratto lezione della migliore tradizione architettonica romana per progettare in questa nuova situazione.
Così nel mattatoio vengono semplicemente accostati, per pura contiguità, due elementi, quello circolare della mattazione e quello quadrato per la sosta degli animali: eppure i due corpi, cosi estranei tra loro, si scambiano con continui rimandi non poche valenze. Bloccati nell'austerità della loro chiusura – nonostante la vocazione all'en-plein-air del primordiale e archetipico elemento circolare – sembrano voler racchiudere, fasciandolo nella loro intimità, un elemento estraneo, reso mitico dalla storia e ridotto ormai a una funzione puramente domestica: ecco quindi le due segrete e appena accennate citazioni a Stonehenge da una parte e alla forma del tempietto italico dall'altra.
La povertà dell'esecuzione, mantenuta nell'artigianalità di un mestiere locale, viene fatta scontrare con la ricchezza dell'elaborazione progettuale: allo stesso modo, la semplicità dell'immagine viene resa complessa da un gioco d'incastri e di compenetrazioni; mentre la solidità del manufatto architettonico appare intaccata dallo svuotamento e dalla leggerezza aerea dell'ottagono portatore di luce e dalla lanterna cubica che chiude in alto la costnlzione. Elementi che sottolineano anche il passaggio tra un prevalente andamento orizzontale del progetto e una sua lievitazione in verticale.
Un'architettura d'attesa, in sospensione; un'architettura di frontiera, tra l'isolamento degli elementi archetipici e una loro aspirazione alla coralità