Il metodo di 51N4E non è dogmatico e non si basa su una teoria architettonica prestabilita. Ciascun progetto, ciascun incarico ha le proprie regole. Ciò dà al lavoro degli architetti una caratteristica interessante e piuttosto fuori moda, chiaramente sintetizzata in un aforisma di Diderot: "Ogni atteggiamento è falso e meschino, ogni azione è bella e vera".
Christophe Van Gerrewey: Per Double or Nothing avete scelto di usare due sale ai lati della sala Horta del Bozar, di solito non utilizzate per le mostre. Perché?
Freek Persyn: Avevamo pensato di usare solo lo spazio normalmente occupato dalle mostre. Ma l'edificio è in ristrutturazione e il percorso che conduce all'ingresso posteriore è interrotto. Per questo motivo lo spazio espositivo 'normale' diventa un vicolo cieco. Non ci piaceva. Cercavamo spazi dall'atmosfera forte, che permettessero esperienze intense. Usare gli spazi intorno alla sala centrale ci ha consentito di rendere attivo questo spazio pubblico come parte della mostra. Consideriamo Double or Nothing come uno dei nostri progetti d'architettura di Bruxelles.
Spesso non siamo soddisfatti di quel che troviamo, è vero. L'insoddisfazione non è automatica, all'inizio, ma ci prendiamo la libertà di discutere quel che ci viene offerto, perché il senso del progetto dipende da dove si parte. Il che vale non solo per il sito, ma per l'intero incarico.
Rispondere criticamente a ogni requisito del brief: è l'unica regola teorica di 51N4E?
È così, ma forse sta iniziando a cambiare. Dopo la laurea abbiamo cominciato a lavorare senza molta esperienza, per cui fare in modo che ogni progetto dettasse le proprie condizioni era una necessità. Oggi abbiamo ricerche nostre e capita più spesso che le idee si travasino da un progetto all'altro. Non ci limitiamo più solo a 'reagire' all'esistente. Comunque: abbiamo pochissimi pregiudizi, non decidiamo nulla a priori, restiamo aperti. Di recente ho tenuto una lezione in Olanda, e ci hanno definiti "radical-flessibili". Non suona bene, ed è buffo che avere la mente aperta diventi improvvisamente un atteggiamento.
Di titoli provvisori ne abbiamo avuti molti, ma credo che questo sia quello buono. Fa pensare a che cosa significhi. Basta da solo a innescare un processo, come l'affermazione di qualcosa. Cerchiamo sempre di raddoppiare le ambizioni, di rispondere alla domanda oltre il progetto stesso. Lavoriamo in modo sperimentale, certo, nemmeno noi sappiamo come sarà la nostra architettura.
Il gesto che tiene insieme tutto quanto è indispensabile. I progetti non possono farne senza. Ma noi vogliamo anche che i nostri progetti funzionino nella realtà. Vogliamo che le nostre idee sopravvivano quando la gente usa lo spazio.
Dipende da come la si guarda. Da un lato è una casa molto speciale, tutto è davvero unico, è vero. Ma d'altra parte è una costruzione, uno spazio che permette di dimenticare l'architettura. L'architettura è un catalizzatore, non un fine a se stessa. E credo sia importante che l'architettura qualche volta sia solo una cornice. Pensi al progetto di piazza Skanderbeg: è molto limitato, non c'è molto da vedere, in fin dei conti… Ma è pensato per scatenare un sacco di cose.
Il gesto che tiene insieme tutto quanto è indispensabile. I progetti non possono farne senza. Ma noi vogliamo anche che i nostri progetti funzionino nella realtà. Vogliamo che le nostre idee sopravvivano quando la gente usa lo spazio. Ecco perché è importante andare oltre il semplice gesto. È un'aspirazione comune tra gli architetti: fare una cosa sola, perché è l'essenza' del progetto. Molto spesso è controproducente. Entrano in gioco molti altri fattori. Spesso ci accusano di non essere abbastanza "radicali", oppure definiscono "impuri" i nostri progetti. Ma noi vogliamo solo mettere le idee al centro della realtà.
In studio abbiamo una grande biblioteca e ci serviamo regolarmente di esempi di altri architetti. Ma non funziona in maniera astratta: l'idea di una tipologia fissa, per esempio, è una cosa che non ci piace usare.
Voi non fate 'riferimento' esplicito ad altre architetture: è molto difficile rintracciare influssi. Si spiega con la vostra apertura a ogni tipo di influsso? Se ricordo bene il progetto del palazzo TID di Tirana è basato su un flacone di profumo…
Avevamo visto la pubblicità di un flacone di profumo, l'esterno era quadrato, l'interno arrotondato. È una forma, e anche un palazzo è una forma. La forma del palazzo è scaturita dallo stravolgimento della lettura di una pagina pubblicitaria. L'aspetto finale del divano letto che abbiamo progettato insieme con il committente e con Chevalier-Masson per la casa Arteconomy era influenzato da un prototipo che trovammo nello studio del designer. E poi ogni possibile riferimento viene adattato all'atmosfera e alla qualità estetica che vogliamo nel progetto.
Certamente.
Si ha l'impressione che l'architettura sia una cosa che chiunque può semplicemente 'fare'.
Credo che sia così. Parte del divertimento di andare in Albania sta nello scoprire come la gente inventa e usa gli spazi. D'altra parte negli ultimi 13 anni abbiamo cercato di 'disimparare' quello cha abbiamo imparato a scuola sull'architettura… E poi abbiamo disimparato quello che avevamo imparato da soli. È assolutamente necessario per non farsi sopraffare dalle abitudini e dalle idee precostituite. Impariamo dai committenti, dagli incidenti, da chi passa per strada… La base del nostro lavoro è che siamo molti curiosi. Christophe Van Gerrewey
51N4E: Double or Nothing
Centre for fine Arts Bozar
Rue Ravenstein 23, Bruxelles