Art Experience Venice

 

The work of art as a space for relationships and the problem of visually representing sound as seen in the two Venetian workshops with Rirkrit Tiravanija and Christian Marclay.

The articles on the following pages describe the subjects addressed in the first two workshops curated by Domus Academy: “No Vitrines, No Museums, No Artists. Just A Lot of People” (May 18-23 2004), organised by Maurizio Bortolotti with the participation of the artists Rirkrit Tiravanija, Pierre Huyghe, Maurizio Nannucci and Philippe Parreno, the critic and curator Daniel Birnbaum and the philosopher Richard Shusterman; “The Listening Eye” (June 17-20 2004), organised by Antonio Somaini with the participation of the artist Christian Marclay, the art historian Marcella Lista and the musicologist Peter Szendy. The “Art Experience” workshops aim to create opportunities for reflection and exchange during a discussion on a subject of great importance to today’s visual culture prompted by the work of the artist asked to hold the workshop, which is open to a limited number of participants. The interdisciplinary contribution of lecturers invited to flank the artist, and the latter’s willingness to create a new form of interaction each time with the participants, creates an experience that can take us beyond the passive contemplation to which we, as spectators, are often relegated.

“No Vitrines, No Museums, No Artists: Just A Lot of People” Workshop with Rirkrit Tiravanija
Text by Maurizio Bortolotti

Il seminario di Rirkrit Tiravanija è stato centrato sulla creazione di un’esperienza artistica, coadiuvata dagli altri artisti invitati – Pierre Huyghe, Maurizio Nannucci e Philippe Parreno – ma anche dal filosofo Richard Shusterman, che ha proposto una sua interpretazione dell’idea di ‘esperienza’, approfondendo il concetto di Somaesthetics, un’area di studi che si colloca all’incrocio tra il ‘somatico’ e l’’estetico’: “Esplorando e raffinando la nostra esperienza corporea possiamo ottenere nel comportamento (...) un miglior controllo della concreta applicazione della volontà”. Tiravanija ha creato una sequenza di situazioni, mettendo i partecipanti nelle condizioni di compiere un’esperienza. La riflessione che ne è emersa è che l’’esperienza’ non può passare o essere determinata dalle istituzioni dell’arte, ma può avvenire solo a partire dai rapporti che si producono spontaneamente tra le persone: rapporti ‘liberi’ che si costituiscono in un tempo ‘libero’. Le condizioni a contorno sono date anche dalla scelta del luogo del seminario – Venezia, con la sua immagine ridondante di città turistica – mentre nel lavoro di Tiravanija l’esperienza artistica nasce come spazio di normalità rispetto a ogni forma di spettacolarizzazione. Perciò compiere un percorso a piedi dentro la città è un primo modo per produrre rapporti, vivendone i sestrieri meno conosciuti, senza incrociare quelli frequentati dal turismo. Una seconda situazione è stata determinata dal viaggio nella laguna a bordo di un battello, che ha attraccato alle isole di Sant’Erasmo e di Sant’Andrea. Fino all’approdo finale al Lido, dove sulla spiaggia si è assistito all’incendio della scritta situazionista Ne Travaillez Jamais, che costituisce il punto di arrivo dell’intero seminario. Il consumarsi della scritta fornisce la chiara consapevolezza della condizione di “tempo libero”, condizione che si è andata realizzando nelle situazioni precedenti, e la sua relazione significativa con l’arte. L’ultima situazione si è prodotta a casa di Tiravanija, dove ognuno ha cucinato un piatto di suo gradimento, intersecando l’arte con i piaceri conviviali. In questa prospettiva l’arte diviene una forma di azione che si pone al di fuori dei suoi stessi confini: in una posizione liminare, nella quale la nozione stessa di esperienza artistica è messa in gioco. Non a caso, il critico Daniel Birnbaum ha dato una lettura del lavoro di Tiravanija, paragonandolo “al tentativo operato da Ludwig Wittgenstein di ritornare da un livello di astrazione metafisica al livello del linguaggio ordinario e della prassi concreta” e sostenendo che, in modo analogo, l’artista produce situazioni ordinarie all’interno degli spazi ufficiali della galleria e del museo.

“The Listening Eye” Workshop con/with Christian Marclay Testo di/Text by Antonio Somaini “The Listening Eye”, l’occhio in ascolto. Un occhio alla ricerca di suoni là dove c’è solo silenzio e assenza, o dove il suono è soltanto virtuale in quanto imbalsamato, sepolto, e può essere riscattato soltanto attraverso l’immaginazione: nei solchi di un disco in vinile, nella custodia vuota di uno strumento musicale, nel disperato gesticolare di un attore sordomuto che cerca di raccontarci un concerto che non ha mai sentito. Il problema di una possibile rappresentazione visiva del suono è da sempre al centro della ricerca di Christian Marclay, la cui opera ci mette di fronte a una vera e propria ricognizione a 360 gradi dell’universo sonoro: concerti, performance, ma anche fotografie, sculture, video, dispositivi di varia natura elaborati nel tentativo di registrare e rappresentare le molteplici intersezioni, intenzionali o aleatorie, del visivo e dell’acustico. Lungo questo percorso, protagonista assoluto è il disco in vinile, un tempo onnipresente, oggi ridotto quasi a oggetto di antiquariato. Un oggetto che Marclay descrive con parole che richiamano quelle che, dopo Bazin e Barthes, siamo soliti associare all’immagine fotografica: “Io associo i dischi con la morte. Una registrazione è sempre qualcosa che appartiene al passato. Il tempo vi è come imbalsamato” (“I associate records with death. A recording is always of the past. Time is embalmed in it”). L’incisione del suono nei solchi del disco in vinile, nei quali esso resta sepolto senza l’intervento del giradischi, diventa così l’emblema dell’intrinseco fallimento al quale va incontro ogni tentativo di visualizzare il suono. E, al tempo stesso, del fascino di questo fallimento, che ci invita a sfidare il fatto che ogni rappresentazione del suono è in fondo la rappresentazione di un’assenza, come ci dice sempre Marclay. Il suono visto è destinato a rimanere un suono ‘segreto’, indecifrabile. Eppure, come sottolinea Peter Szendy, la dimensione del segreto non sembra potersi conciliare con la natura diffusa, pervasiva, ‘indiscreta’ del suono. Nel suono siamo immersi, irretiti, senza via d’uscita. Di qui il continuo tentativo di individuarlo, localizzarlo, visualizzarlo, armonizzarlo in qualche modo con i contenuti della nostra esperienza visiva. Un tentativo che riaffiora costantemente nella storia dell’arte e della musica del Novecento. Dal sistema sinestetico di corrispondenze tra suoni e colori proposto dal clavier à lumières di Skrjabin alle speculazioni sulla musicalità della forma in Kandinskÿ, dalle ricerche sulla visualizzazione del suono di Oskar Fischinger alle collaborazioni tra Merce Cunningham e John Cage, la storia non fa che riproporci diversi tentativi di superare quell’intrinseca ‘asincronia’ che – come afferma ancora Peter Szendy – caratterizza il rapporto tra suono e immagine. Ma è proprio negli intervalli prodotti da questa asincronia che si situano le ricerche più interessanti, quelle in grado di farci ripensare ogni rigida opposizione tra ascolto e visione in direzione di un vedere, che non è più sinonimo di distanza e istantaneità, ma che cerca di far propria la dimensione passiva, immersiva e sequenziale dell’ascolto.

“The Listening Eye” Workshop with Christian Marclay
Text by Antonio Somaini

“The Listening Eye”. An eye in search of sounds where only silence or absence exists, or where the sound is only virtual because it is embalmed and buried, and can only be redeemed via the imagination: in the grooves of a vinyl record, in the empty case of a musical instrument, in the desperate gesticulations of a deaf-and-dumb actor trying to describe a concert he has never heard. The problem of the possible visual representation of sound has always been central to Christian Marclay’s research and his work offers us a 360° reconnaissance of the sound universe. Concerts, performances, as well as photographs, sculptures, videos and other devices are developed in an attempt to record and represent the many crossing points – intentional and uncertain – of the visual and the acoustic. The protagonist along the way is the vinyl record, once omnipresent but now almost reduced to an antique. Marclay describes this object to us with words that recall those that, after Bazin and Barthes, we are accustomed to associating with photographs: “I associate records with death. A recording is always of the past. Time is embalmed in it.” Recording the sound in the grooves of a vinyl record, where without the intervention of a record player it remains buried, becomes symbolic of the intrinsic failure encountered by all attempts to visualise sound. At the same time, there is a fascination with this failure inviting us to challenge the fact that every representation of sound is, in essence, the representation of an absence, as Marclay is always telling us. The sound seen is destined to remain a ‘secret’, indecipherable sound. Yet, as stressed by Peter Szendy, the secret dimension does not seem reconcilable with the diffuse, pervasive, ‘indiscreet’ nature of sound. We are immersed in sound, trapped, with no means of escape. Hence the constant attempts to identify it, locate it, visualise it and somehow blend it with the contents of our visual experience. These attempts were always resurfacing in the history of 20th-century art and music. From the synaesthesic system of corresponding colours and sounds proposed by Skrjabin’s clavier à lumières to Kandinskÿ’s speculation on the musicality of form, from Oskar Fischinger’s research into the visualisation of sound to the collaboration between Merce Cunningham and John Cage - history has done nothing but propose various attempts to overcome that intrinsic “asynchronism”, as again asserted by Peter Szendy who characterises the sound-image relationship. It is, however, in the very intervals produced by this asynchronism that the most interesting research lies. That which is capable of making us rethink all the rigid differences between listening and vision and move towards a seeing that is no longer synonymous with distance and immediacy but seeks to make the passive, immersing and sequential dimension of listening its own. Antonio Somaini

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