L’esposizione vuole aprire una riflessione sull’oggetto “sedia” nell’arte, ponendo attenzione ai suoi aspetti storici, relazionali e sociali. Introdotta a metà del Quattrocento in seno agli ambienti ecclesiastici e aristocratici, per distinguere il valore del singolo rispetto alla collettività, la sedia si fa espressione di un sé sociale individualista.
La posizione assunta inoltre manifesta una percezione del sé e dell’altro in termini di rapporto e potere. Mai come ora la sedia è oggetto che occupa e contraddistingue la nostra quotidianità. Di fronte ai nostri schermi, non c’è altra via. Nell’epoca del Web 2.0, il 3.0 del titolo traccia la proiezione verso un modo di sedere 3.0, per un recupero del dialogo, dello scambio, per la costruzione di nuovi obiettivi, seduti insieme.
La mostra presenta il lavoro di altri due artisti Naoya Takahara (Ehime, Giappone, 1954) e Subodh Kerkar (Goa, India, 1965) espandendo la riflessione sull’oggetto “sedia” a livello geografico, offrendo spunti di analisi originali, frutto di due preziose eredità culturali di provenienza asiatica.
Con Doppia Naoya Takahara ragiona sul concetto di dualità e lo fa partendo da una sedia per crearne una seconda, grande il doppio, la cui seduta diventa il tavolo della prima. Sulla sedia-tavolo l’artista pone una macchina da scrivere e su di essa un foglio che riporta poche criptiche frasi: “Ho fatto una sedia.
L’ho ingrandita fino a diventare il mio tavolo ideale. Era alta, quasi doppia.” Takahara ci pone di fronte lo spiazzamento di un oggetto sovradimensionato che sembra rispondere a una lucidissima logica dell’assurdo, allo stesso modo di Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie, autore che secondo le parole di Gilles Deleuze in La logique du sense, “compie la prima grande messinscena dei paradossi del senso”. L’artista produce uno sdoppiamento della visione creando un oggetto che è effetto e conseguenza dell’altro.
You’re a better man than I am Gunga Din, titolo della serie di lavori di Subodh Kerkar, artista indiano che si interessa da sempre a tematiche legate alla storia di Goa, è il noto verso conclusivo di un poema dello scrittore britannico di origini indiane Rudyard Kipling, il cui protagonista, un umile portatore d’acqua, diventa un eroe dopo aver sacrificato la vita per salvare dei soldati britannici. Nel lavoro di Kerkar, l’oggetto “sedia” – introdotto in India dai coloni europei – si trasforma in un meccanismo di capovolgimento di ruoli.
Sono esposti i disegni preparatori di sedute composte da cinghie rotanti o da meccanismi, che impediscono una fruizione dell’oggetto e quest’impossibilità di sedersi si traduce in una mancata assunzione di un ruolo o addirittura in un ribaltamento di posizione e in qualche modo in una forma di uguaglianza.
fino al 6 dicembre 2014
Caterina Pecchioli con Subodh Kerkar e Naoya Takahara
Sedeo ergo sum
a cura di Abbiatici_Levy
direzione e organizzazione di Manuela Tognoli
con il sostegno di Associazione Culturale Dello Scompiglio
Label201
via Portuense 201, Roma