I nuovi luddisti, che si scagliano contro l’uso dell’Intelligenza Artificiale

La tensione culturale fra uomo e macchina nell’era della AI è un dato di fatto. Ma forse c’è una soluzione, attraverso la riscoperta di un’identità critica che ripesca nel passato tra Arts and crafts e Frank Lloyd Wright.

Recentemente, Mit Technology Review, prima delle riviste tecnologiche americane nata al prestigioso ateneno di Cambridge, ha pubblicato una graphic novel sul Luddismo. Intitolata Cosa possono insegnarci i Luddisti sulla resistenza al nostro futuro automatizzato, la storia ripercorre due secoli di innovazione industriale, vista nel lato oscuro dell’impatto sulla diseguaglianza sociale. In primis sulla classe operaia e poi sulle tante minoranze intersezionali che pagano già oggi un costo più alto del normale per l’arrivo dell’intelligenza artificiale. Donne, piccoli gruppi linguistici, persone non eurocentriche e bianche. Il riferimento dell’oggi è chiaro: il mondo dominato dall’Intelligenza Artificiale.

Il Luddismo rappresenta oggi la ricerca di un'identità romantica, alternativa al razionalismo quantitativo tipico dell'ambiente digitale.

Per quanto divulgato con una narrazione spesso favolistica e dolcificata, il cortocircuito culturale provocato dalla AI è diventato pressante e ineludibile. Proviamo a capire perché la più importante rivista al mondo di tecnologia, edita dall'istituzione simbolo per eccellenza della rivoluzione industriale americana, sposa la rivolta romantica e folk dell'eroe bandito Ned Lud.

Cosa possono insegnarci i Luddisti sulla resistenza al nostro futuro automatizzato, Mit Technology Review

Il Rinascimento del Luddismo: una rivisitazione americana

I Luddisti, operai della prima rivoluzione industriale inglese, formavano un’organizzazione clandestina di resistenza all’automazione industriale, spesso con forme di violenza materiale e simbolica contro macchine e padroni. Negli Stati Uniti, si parla di Luddismo contro la rivoluzione digitale fin dal 1984, quando il grande scrittore postmoderno Thomas Pynchon si chiedeva sul New York Times se fosse corretto sposarne la causa, davanti all'esplosione del personal computing. Di recente, se ne parla di nuovo per il volume del giornalista tecnologico Brian Merchant Blood in the Machine, che esplora le origini della ribellione antitecnologica emersa nella coscienza collettiva a cavallo della pandemia. Il Luddismo rappresenta oggi la ricerca di un'identità romantica, alternativa al razionalismo quantitativo tipico dell'ambiente digitale. Ma il termine, in questa nuova accezione, si è caricato di una connotazione dispregiativa e di una polarizzazione tipica delle culture war americane. 

Luddista è chi si permette di criticare il capitalismo ultratecnologico, o viceversa chi ne è orgoglioso e aspira a una vita meno numerica e più autentica. Nel 1829, il filosofo e storico Carlyle aveva già definito questo dualismo fondamentale: “L’uomo sta diventando sempre più meccanico nella testa e nel cuore, così come nella manualità”.

Brian Merchant, Blood in the Machine: The Origins of the Rebellion Against Big Tech

Critiche al capitalismo tecnologico: il Luddismo come controcultura

La ribellione luddista andava di pari passo con la maturazione di una coscienza di classe del nuovo operaio. Anche in questo senso, il ripescaggio dell'idea Luddista è molto attuale negli Stati Uniti di oggi, dove le associazioni sindacali nel digitale sono un fenomeno attuale in grande crescita. Negli anni scorsi lo scrittore americano Richard Conniff, sullo Smithsonian Magazine, si chiedeva: “È ancora possibile un Luddismo oggi?” La titolarità dei mezzi di produzione, obiettivo dei Luddisti, sarà accessibile grazie a sistemi di intelligenza artificiale open source o la concentrazione industriale lo impedirà? 

Foto tamingtheaibeast da Wiki Commons

Come tanti altri aspetti cruciali del cambiamento portato dalla AI, non possiamo indovinarlo con precisione oggi. Instabilità e disordini sociali sono uno dei fenomeni preventivati da chi si occupa di scenari sociopolitici. Altrettanto vero che la resistenza allo strapotere algoritmico potrebbe assumere logiche organizzative più da rave party che da partito. Gli attacchi recenti ai robot da strada somigliano alle forme di sabotaggio mediatico viste sul web nei primi anni 2000. 

Il futuro del lavoro e la resistenza al dominio algoritmico

Assisteremo invece a un quiet quitting diffuso, con forme di astensionismo digitale più passivo e non conflittuale? O ancora a un ritorno all'analogico artigianale? 

Quest'ultima possibilità ci porterebbe ad ampliare i riferimenti con il movimento inglese dello Arts and Crafts di William Morris. Di questo è interessante rielaborare l'integrazione di estetica, tecnica produttiva e riforma sociale: Arts and Crafts significava anche recuperare un'organizzazione sostanzialmente più umana. 

William Morris

Identità nuove ci serviranno tanto in questi prossimi anni di cambiamento, per poter contestualizzare la AI ed evitare di ripetere approcci che la storia ha già dimostrato limitati o fallimentari. Così come una maggiore consapevolezza dell'aspetto sociotecnico della AI: quando cambia il lavoro, come cambia il prodotto e cosa cambia per chi esegue materialmente il lavoro? E quali sono gli effetti collaterali sul sistema sociale allargato, oggi normati dal recente AI Act europeo?

Dal Werkbund al design moderno: tra innovazione e umanesimo

È proprio da una chiave di lettura europea ci sembra di poter allargare il dibattito americano sul Luddismo, per elaborare scenari e analisi critiche necessari ad affrontare il profondo cambiamento di oggi. Basti pensare alle identità della disconnessione, del Luddismo come rifiuto dell’intermediazione algoritmica, del fatto a mano come valore di autenticità. Tutto molto coerente con la filosofia del movimento inglese Arts and Crafts di fine Ottocento, con una rivalutazione idealizzata dell’artigianato che arrivava fino ai riferimenti medievali. 

Wright vedeva nella tecnologia un vero fattore abilitante della democrazia, in una luce che oggi definiremmo tecno-utopistica perché priva di qualsiasi giudizio sulla diseguaglianza.

Negli Stati Uniti, Frank Lloyd Wright riprendeva dallo Arts and Crafts l'etica della riforma sociale, che il design stesso contribuiva a rendere concreta. Ma il superamento degli inglesi stava, da un lato, nel rappresentare la Natura come una forza vitale primigenia, capace di dare stabilità all'uomo in un mondo sempre più complesso e tecnologico. Dall’altro, nell’idea che solo la fusione di Arte e Scienza avrebbe permesso all'umanità di raccogliere gli immensi frutti del progresso industriale. La sua celebre conferenza “The Art and Craft of the Machine”, tenuta proprio alla Arts and Crafts Society di Chicago nel 1901, conteneva un passaggio spietato nella sua sintesi: “L'eco è sempre un fenomeno decadente.” Il puro e semplice ritorno all'artigianato non poteva che essere qualcosa di retrogrado e sterile, finendo per avere addirittura un effetto elitario sui consumi.

Frank Lloyd Wright, Robie House, 1909

Wright vedeva nella tecnologia un vero fattore abilitante della democrazia, in una luce che oggi definiremmo tecno-utopistica perché priva di qualsiasi giudizio sulla diseguaglianza insita nell’automazione e sui tanti lati oscuri che una divulgazione giornalistica un po’ superficiale tende a non tenere come temi chiavi per l’intervento pubblico di sistema.

Se Frank Lloyd Wright superava così il dogma Arts and Crafts, nel suo tentativo di far lavorare insieme artisti e industriali, allora forse possiamo riportare la sua esperienza in Europa con un riferimento al Deutscher Werkbund. Nato come associazione tra designer e produttori, il movimento fu il tentativo della Germania di inizio secolo di creare un sistema di pensiero capace di fare arte con il prodotto industriale, per competere con le realtà industriali dei paesi di lingua inglese. Se il creatore, come oggi, rischiava l’esclusione dal sistema produttivo, allora la risposta non stava in un movimento di protesta ma nel reintegrare una connessione forte tra umanista e tecnologo, riportando il pensiero creativo dentro all’impresa e ai suoi nuovi processi produttivi.

Una risposta più integrata e funzionale all'industrializzazione è davvero utile, se la tecnologia ci richiede di ripensare la direzione creativa del progetto, cogliendo gli aspetti positivi della macchina senza perdere quelli necessari dell'essere umano. Qui era nata in sostanza la figura dell’industrial designer come la conosciamo oggi, ovvero come rafforzamento della cultura del design capace di dare evidenza ai nuovi problemi del progetto mantenendo allo stesso tempo un senso di unità rispetto alle forti contraddizioni del Ventesimo Secolo. Un'identità pragmatica e creativa, priva dei tratti di pessimismo, fuga rètro, disimpegno e proiezione che rischiano di portarci a subire passivamente il prossimo passaggio al capitalismo esponenziale. 

Immagine di apertura: The Leader of the Luddites, incisione che ritrae Ned Ludd, 1812

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