Andrea Branzi: Michele De Lucchi e il design di gatti, Pinocchi e amnesie

Una piccola mostra diventa l’occasione per una intensa conversazione in cui si parla di felini e burattini, dell’assenza di memoria come forma di creatività, e di molto altro.

Andrea Branzi, Michele De Lucchi e il design di Gatti, di Pinocchi e di Amnesie

Design e Gatti. Andrea Branzi at the Circle è il primo di una serie di appuntamenti che Michele De Lucchi e il suo studio, l’AMDL Circle, organizzano dopo un periodo di isolamento forzato, per ritrovare idee e ispirazioni. La mostra si inserisce all’interno delle ricerche che lo studio milanese promuove, sull’evoluzione degli spazi di lavoro, di accoglienza e di ristoro, pensati come ambienti fluidi, per favorire le relazioni umane e le occasioni di scambio. Si parte proprio dall’esposizione di oggetti di Andrea Branzi, collezionati da Michele De Lucchi durante la loro lunga amicizia.

Branzi e De Lucchi insegnano insieme, insieme hanno viaggiato e condiviso ricerche, alchimie, ed esperienze. Sul tavolo di Michele De Lucchi, nello studio di Angera, c’è un cervello in ceramica smaltata, fa parte di una serie di Nature Morte realizzate dall’amico. È un oggetto inquietante e affascinante allo stesso tempo. Ti fa venire voglia di toccarlo. Il cervello sorveglia l’architetto mentre disegna, scrive, è in video chiamata con Milano, o col mondo.
Sul tavolo dello studio di Andrea Branzi, che è anche la sua casa, si lavora, si disegna, si mangia, illuminati dalla lampada Tolomeo. Un cervello smaltato e una lampada da tavolo. Uno scambio di oggetti che è anche uno scambio umano di amicizia, di idee e di ispirazioni.

In occasione della mostra, vado a trovare Andrea Branzi, che con una pacata ironia, parla di oggetti ed elabora, allo stesso tempo, un’acuta indagine della realtà. Come un gatto, prende il suo tempo e racconta quello che davvero gli interessa: burattini, collages, ma anche insegnamento, architettura senza progetto, e tanto altro.

Partirei proprio dal titolo della mostra, che ha voluto chiamare Design e gatti.
(Ride). L’inizio del nostro rapporto nacque molti anni fa, quando Michele mi regalò una gattina, per sdebitarsi perché veniva a dormire da noi, quando ancora non aveva una casa a Milano. Noi allora avevamo un cane, che era un bastardo, un pazzo criminale, ma lei chiarì subito la sua posizione e le due bestie diventarono amanti e amici. La chiamammo Finestrina, fu un gran successo.

La mostra raccoglie alcuni suoi oggetti significativi che Michele ha deciso di collezionare e di esporre perché possano essere di ispirazione per chi verrà a vederli.
Gli architetti di solito non si scambiano opere, quella di Michele è una collezione particolare, scelta con cura. Bisogna coltivare questi rapporti di scambio privati, che danno valore agli oggetti e alla vita al di là dei rapporti professionali. Sono oggetti che amiamo perché hanno un’anima e creano uno spazio magico, sacro, che ha al centro l’amicizia.

Sia lei sia Michele, anche se in maniere differenti, date un forte valore, quasi magico, agli oggetti, che prendono un significato anche al di fuori della loro funzione. In mostra ci sarà anche il “cervello di Branzi” che Michele solitamente ha sul suo tavolo di lavoro.
Il cervello fu fatto qui a Milano da un ceramista, faceva parte di un mio modo di indagare anche l’interiore, le interiora, quello che c’è all’interno. Ho fatto i cervelli e ho usato molto anche le radiografie, ad esempio applicandole a lampade, come paralumi, dalle quali emergono delle mani o delle ossa. Usare i messaggi antropomorfi mi ha sempre interessato. Procedo sempre con un atteggiamento che è quello di fare degli oggetti che sono anche in gran parte dei giocattoli, che sono poi quelli che ha collezionato Michele. Anche lui aveva questa tendenza, mi ricordo che aveva fatto una serie di lampade che sembravano dei burattini. [Ndr. Si riferisce alle lampade Marionette, disegnate per Produzione Privata nel 2001]. Proprio in questi giorni, anch’io ho finito di fare una raccolta illustrata di burattini: sono novantotto collages di Pinocchi, e li ho pensati tutti durante questi mesi in casa.

A proposito di Pinocchio, in mostra ci sarà anche il Pinocchio ballerino che Michele custodisce nel suo studio di Milano, accanto alla sua scrivania. Ci tiene molto e nessuno si avvicina per paura di farlo cadere. Da dove nasce quel burattino?
Da un pezzo di legno! (Suggerisce Nicoletta) [Ndr. Nicoletta Morozzi, moglie di Andrea Branzi, responsabile del dipartimento moda della Naba]. Pinocchio è una metafora, è una metamorfosi continua. È un personaggio che mi è caro e che ritorna nelle mie ricerche. Collodi ha costruito un romanzo di una crudeltà feroce, è un racconto appenninico, di buio, freddo, miseria, violenza. Darlo in mano a un bambino è quasi impensabile: Pinocchio viene impiccato, l’asinello affogato, e ci sono vecchi che si picchiano… Però il romanzo ha una struttura di una modernità impensabile, si inizia a pagina 1 con un protagonista, si gira la pagina e il protagonista è un altro, e poi un altro ancora.

Andrea Branzi, Michele De Lucchi e il design di Gatti, di Pinocchi e di Amnesie
Diretta Instragram dell'inaugurazione a porte chiuse: Andrea Branzi (nello schermo del telefono) e Michele De Lucchi dialogano accanto al Pinocchio in legno in mostra

Leggevo che le piace Pinocchio proprio perché è toscano, e ha “un’irriducibile tendenza a mentire”…
Si, infatti! Anni fa, mi è capitato di tradurlo in scenografia. Karole Armitage, una coreografa e ballerina americana, mi aveva chiesto che rapporto potesse esserci tra Pinocchio e Machiavelli. La trovai un’intuizione geniale. Machiavelli coltivava questa teoria di inventare balle, di creare delle visioni false. Nascondeva il vero tra tante bugie. Stimolato dalla domanda, improvvisai questa proposta di fare un Pinocchio più machiavellico. Collodi, alla fine, conclude con Pinocchio che diventa un bambino, ma noi sappiamo che le cose poi sono andate in maniera diversa, cioè che gli uomini sono diventati burattini.

Nel senso che l’uomo è tornato in balìa degli eventi e, anche nelle espressioni artistiche, come nella Metafisica, l’uomo ritorna a essere burattino nelle piazze?
Certo. Se pensiamo che vent’anni dopo Pinocchio, nella letteratura, nell’arte italiana, con i futuristi, con De Chirico, l’uomo diventa macchina e burattino, assiste al tempo inerme. Con Collodi, un burattino diventa uomo, ma nella storia, poi, è l’uomo a tornare burattino, è una parabola inversa. Pinocchio non molla, ispira riflessioni, è sempre attuale.

I mesi di lock-down sono stati produttivi per lei, artisticamente parlando. In mostra ci saranno anche i Disegni di facce che ha realizzato, tra cui Faccia di catrame e Faccia di Coronavirus.
Sì. E poi sono di nuovo passato ai miei Pinocchi. Parto da dei ritagli di immagini che trovo su internet e aggiungo qualcosa di tridimensionale, un piccolo amuleto che ne cambia il senso, e poi disegno il naso. Così Giotto, Masaccio, Giacometti, Ottone Rosai, Picasso, Bacon, diventano Pinocchi. C’è sempre un processo di trasformazione, sono metamorfosi continue.

Questi riferimenti all’arte del passato, al ready made duchampiano, al collage dadaista, ci sono anche nei suoi Dolmen in mostra, installazioni che sono come delle architetture che mischiano il moderno al primitivo.
Sono compresenza di modernità e passato, interscambiabili. Nell’epoca attuale, riemergono comportamenti “animali”. Anche le avanguardie storiche indagavano questo, e pensavano alla legge di Darwin come reversibile. Se l’uomo deriva dalle scimmie, l’uomo può tornare alla sua condizione animale, intesa come massima libertà. “L’uomo gorilla” di Bacon, come i Merzbau di Kurt Schwitters, sono l’origine di questa tendenza. L’uomo è angosciato dal suo ambiente.

Andrea Branzi, Michele De Lucchi e il design di Gatti, di Pinocchi e di Amnesie
Andrea Branzi, Visore rupestre, 2015. Collezione di Michele De Lucchi

Anche i Grandi Legni, Lei li percepisce come installazioni, non come opere d’arte. Hanno un significato al di là dell’architettura e del design, anche se sono loro stessi progetto?
Nei miei lavori non c’è una funzione, se non letteraria, se non un riferimento a immagini di arte, antiche o contemporanee. Sono realizzati con contaminazioni di tecniche diverse, ma tutto il mio lavoro, non ha precisa destinazione, è come una narrazione. Anche nella serie su Pinocchio, Pinocchio c’entra poco, è dedicata a lui ma non lo spiega. Semmai è legata a questa idea di una sorta di metempsicosi e di trasformazione: l’esistenza, anche spontanea, di animali molto vicini a Pinocchio come condizione umana.

In effetti, mi piaceva una sua frase in cui diceva che anche le Nature morte, come il Cervello in ceramica, dovevano fare riflettere su pensieri elevati, come le vita e la morte, ma anche sulla mediocrità della verdura.
E questo l’ho detto io? Ah ah, interessante, molto interessante!

Ha anche detto che è più interessato a quello che dimentichiamo che a quello che ricordiamo.
Giusto. Ho fatto delle mostre proprio intitolate Amnesie, anche dei vasi. Uno è in mostra. Ripensandoci, si impara sempre qualcosa. Dalle amnesie viene fuori il cervello, e a volte mi sono chiesto a cosa servisse. Con i vasi Amnesie, polemizzavo con la tendenza alla cultura della memoria, all’architettura della memoria, alla riproposizione degli stili. Non mi ritrovavo con queste idee e mi piaceva l’idea di lavorare sull’amnesia. Ognuno ha la sua memoria, però, a volte, è anche importante non avere memoria. Io per esempio non ho memoria, come tante persone. Non è una cosa patologica, è che la memoria mi peserebbe credo molto.

Gli oggetti, fuori dalla loro funzione, possono però riportare le cose alla mente, no?
Ecco, io faccio proprio l’inverso. È una forma di liberazione. Infatti sto già pensando di come liberarmi di tuti questi Pinocchi! È anche un modo per creare. Anche in Fellini c’è l’assenza di memoria come una forma di creatività. Otto e 1/2 è tutto basato sul fatto che nessuno ha idea di cosa fare, e questo crea una condizione di grande libertà e creatività. Ma c’è anche chi invece elabora molto nella memoria, e ha grandi intuizioni. Sono tecniche diverse, non è che siano poi così diverse sostanzialmente, ma l’amnesia non lascia traccia. Certo poi ho bisogno di assistenti che mi dicono cosa devo ricordare!

Da anni insegna al Politecnico di Milano con Michele De Lucchi. Come vede oggi l’insegnamento?
Sono anni che io e Michele facciamo i corsi insieme. Si arrivava le prime lezioni e non si sapeva assolutamente che cosa fare. Poi, per esempio, decidevamo di lavorare sulla penombra. E da lì partiva il corso. Però il procedimento non è mai stato quello di insegnare agli studenti, ma di imparare da loro, cioè di formare degli auto didatti. Noi lavoriamo sull’idea di ribaltare il ruolo, di stimolare. Il docente deve sempre incoraggiare, anche se arriva un asino, o uno suonato, devi dirgli, vai avanti, è interessante… finché a un certo punto si produce un cortocircuito e questo riesce ad elaborare uno scenario. È un procedimento pedagogico che si impara dai bambini. I bambini sono tutti degli artisti, poi solo una bassissima percentuale diventano artisti professionisti, ma sono tutti artisti. I bambini dimostrano che tutti possono imparare a essere creativi. Il mondo accademico invece, si porta dietro una visione del mondo sbagliata, basata sulle certezze.

Andrea Branzi e Michele De Lucchi insegnano insieme al Politecnico di Milano. La loro idea di insegnamento è quella di creare degli auto didatti. Photo Courtesy Fabio Bortot

Quindi le piace insegnare, quando l’insegnamento significa avere un dialogo?
Si molto. Mi fanno incazzare però gli studenti che scimmiottano il mio lavoro, ed è difficile che ci sia qualcuno che non cada in questa trappola. È grave, si rovinano intere generazioni. Io ho sempre detto agli studenti che loro devono insegnare a me, io non ho niente da dire. All’inizio dicono “Questo è pazzo, ci porta alla rovina”, invece poi escono cose molto belle. Ci divertiamo a metterli in competizione: metà li segue Michele e metà li seguo io e devono cercare di essere migliori! Nei lavori si vedono i diversi approcci, della cultura orientale e di quella occidentale. E si nota la grandissima sensibilità che hanno le studentesse e la creatività dell’intelligenza femminile, mentre la storia del progetto, che ha delle grandi carenze, è una storia generalmente molto maschile. Invece, la predominanza di nuove progettiste sarà uno dei fatti più importanti della cultura del progetto.

Anche Massimo Vignelli si era impegnato per affermare il ruolo della moglie Lella, che era una parte complementare al suo lavoro, e che invece inizialmente veniva poco riconosciuta. Vignelli diceva che la sensibilità di Lella era molto importante nel progetto.
Ci sono della carenze nella cultura occidentale molto evidenti. Una è che si da poco spazio alla presenza femminile, questo avviene nell’arte e anche nel mondo del progetto. L’altra è costituita dall’assenza, tra i docenti, di persone di etnie diverse, come gli afroamericani, che portino nel mondo del progetto la loro forte identità, l’intelligenza, la vitalità e una sensibilità diversa da quella occidentale.

In un numero di domus del 1982, parlava del sistema di arredi per ufficio disegnati da Sottsass e da De Lucchi e dell’evoluzione degli spazi di lavoro. Scriveva che sognava di vivere la vita con un concetto del tempo simile a quello di un gatto, senza fretta di fare e muovendosi sempre con una grande saggezza, godendosi le cose senza la tensione di scadenze o appuntamenti. Anche qui, saltava fuori un gatto!
Scrivevo che se si potesse stare accucciati o semisdraiati come gli animali, si vivrebbe meglio, si lavorerebbe meglio. Erano le prime riflessioni sull’idea dell’ufficio pensato come spazio confortevole, non come ordinamento ma come complessità di attività. Questa ricerca era poi confluita nel progetto Citizen Office, che si fece con Michele, James Irvine ed Ettore, per la Vitra. Pensavamo al luogo di lavoro fatto di intervalli, dove si può stare sdraiati, come uno stato apparentemente poco ordinato, nel senso razionalista, ma aperto alle relazioni, perché il lavoro di ufficio è un lavoro di flussi, consulenti esterni, visitatori, clienti. Proponevamo modelli di spazi molto poco tradizionali e sperimentali, non facilmente definibili. Sono riflessioni che derivano da una filosofia poco funzionalista.

Andrea Branzi, Michele De Lucchi e il design di Gatti, di Pinocchi e di Amnesie
Interpretazione dello spazio di lavoro fluido in un disegno di James Irvine del 1993, pubblicato sul volume Citizen Office, la ricerca condotta da Branzi, Sottsass, Irvie e De Lucchi per la Vitra

È un testo del 1982, ma Michele De Lucchi e il Circle ancora oggi indirizzano le loro ricerche sullo spazio di lavoro come luogo fluido. Ed è il motivo per cui incoraggiano questi momenti di incontro in studio, per avere stimoli continui, di scambio umano, dove le macchine possono fare le cose da macchina e gli uomini si possono dedicare a uno scambio intellettuale più fecondo…
Infatti Anche noi, nel Citizen Office, immaginavamo più sedute, divani e luoghi di sosta, ma queste sperimentazioni non furono molto recepite ai tempi, anche perché il catalogo e la documentazione furono fatti da Vitra traducendo in tedesco, e quindi non ebbero eco.

In una recensione di Sottsass del suo libro “La casa Calda”, dove proponeva la progettazione di una civiltà in cerca di un valore emozionale con gli oggetti domestici, Sottsass scriveva che era un libro complicato ma che era ammirato perché, dalle sue parole, lui appariva anche intelligente e sensato.
(Ride). Era un bel rapporto, si, molto particolare.

Lei dichiara di non leggere mai testi di architettura e design, citava invece tra i suoi libri preferiti Pinocchio, naturalmente, Le ceneri di Gramsci di Pasolini, Le Anime morte di Gogol, Viaggio al termine della notte di Celine, le poesie di Saba e Le Goergiche di Virgilio. Si riconosce?
Si, assolutamente.

Ne aggiungerebbe uno?
Ferdydurke, di Witold Gombrowicz, un polacco. [Ndr. È un racconto sul malessere sociale, sul conflitto dell'uomo con il suo ambiente e con la sua propria immaturità].

Alla Biennale di Architettura del 2014 aveva notato una costante espressiva, il ritorno alla neo-organicità, forse perché nello sconforto totale i progettisti cercavano nella natura conforto ed equilibrio… E nel 2020, riconosce una costante?
Oggi non citerei più l’organicità. Diciamo che l’architettura come tale, quindi come urbanistica, come organizzazione funzionale, di fatto è scomparsa. L’unica cosa che produce, come tattica progettuale, sono delle eccezioni visive, non tanto degli spazi. Per esempio, la zona di Milano intorno a Piazza Gae Aulenti, è fatta di eccezioni visive, cioè di cesure dello spazio urbano che devono stupire. Quelle di oggi sono città senza architettura, che in qualche modo è uno slogan radical. Oggi ci si muove in uno spazio a cui si è indifferenti. Oggi è più importante un vetrinista che non un urbanista.

Cioè oggi è più importante l’apparenza, la facciata?
Rido perché questa è una tesi che cominciai nel ‘66, quando mi sono laureato, all’Università di Firenze. Era piano di studenti, sostenevo questo tipo di tesi, e loro andavano via di testa. La ricerca di Kevin Lynch, The Image of the City, ha avuto una grande influenza sul mio lavoro quando ero studente. Parlava della percezione dello spazio urbano attraverso tunnel memoriali, e spiegava che la città, o l’idea di città, è quella costituita da bar, dall’edicola, dalla panchina e dal telefono pubblico, cioè da un universo oggettuale che costituisce lo scenario urbano; il resto invece, le facciate, non si memorizzano. Una volta feci un esperimento, alla domus Academy: non c’era uno studente che si ricordasse quanti piani e quante finestre avesse l’edificio in cui abitava.

L’architettura ormai non si guarda, lo spazio è interamente occupato dalle automobili, dalle informazioni oggettuali, c’è tutta questa miriade di messaggi. Questo è tipico dell’attuale condizione del progetto, che si muove in un contesto totalmente disinteressato. In Via Monte Napoleone, oggi, nessuno guarda le belle facciate storiche, perché non si alza lo sguardo, si guardano le vetrine. Quello di alzare lo sguardo è una questione importante. L’architettura è diventata un processo progettuale e costruttivo che riguarda solo le questioni immobiliari, gli spazi interni non sono più oggetto del progetto.

Negli ultimi decenni, abbiamo assistito al processo di de funzionalizzazione dell’architettura, e quello che un tempo era un ufficio, diventa una banca, poi diventa un museo, che diventa un ristorante. È un contino spostamento delle funzioni interne all’architettura, e anche questo crea una contaminazione, una profanazione continua dell’ordinamento funzionale della città. L’architettura attuale mi interessa molto, ma mi interessa con queste trasformazioni, cioè senza senso, in una maniera fluida, senza progetto, in qualche modo. Senza architettura ecco, mi interessa il progetto senza architettura. (Si ferma a pensare, divertito).

E per quanto riguarda il design, l’oggetto? Diceva che mentre tanti anni fa c’erano venti designer in tutta Milano e le industrie li cercavano per lavorare, oggi ci sono mille voci, e nessuno si ricorda le canzoni.
Canzoni se ne sentono poche. Sono tante voci. E quelle poche non sono più così importanti. Però è interessante anche questo aspetto qui. Vedremo.

Sfogliamo ancora insieme i novantotto collages di Pinocchi, ci sono proprio tutti, Bacon, Chagall, Matisse, ma anche Michael Jackson, Machiavelli e Tutankhamon. Saluto Andrea Branzi che sorride gentile, e torna a raggomitolarsi nei suoi disegni, in un tempo che trascorre omogeneo, come quello di un gatto. Chissà cosa dirà il Pinocchio ballerino in legno, a chi visiterà la piccola mostra.

Immagine d'apertura: Andrea Branzi, Design e Gatti, 2020, collage su stampa; opera realizzata a partire da una fotografia di Fabio Bortot

Mostra:
Design e Gatti. Andrea Branzi at the Circle
Luogo:
Milano
Indirizzo:
Studio Michele De Lucchi e AMDL Circle, Via Varese 15
Apertura:
28 settembre - 9 ottobre 2020
Orario:
15.00 - 18.00

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