Mentre il movimento Occupy prende la sua strada senza la base retorica di un manifesto e le tensioni sociopolitiche si diffondono in tutto il mondo senza il sostegno apparente di un unico slogan prescrittivo, il problema della forma manifesto nella società contemporanea diventa oggetto di disamina. Appare perciò il momento opportuno per la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University per tenere un convegno dal titolo veementemente interrogativo – What Happened to the Architectural Manifesto? ("Che cosa ne è del manifesto d'architettura?", 18 novembre 2011) – con interventi tra cui quelli (in ordine di presentazione) di Craig Buckley, Anthony Vidler, Enrique Walker, Felicity Scott, Jeffrey Schnapp, Beatriz Colomina, Peter Eisenman, Carlos Labarta, Bernard Tschumi e Mark Wigley.
Il postulato del convegno era che il manifesto si trova in un vicolo cieco ideologico in quanto gesto in via di estinzione. Le definizioni di 'manifesto' spaziavano dall'espressione della sua forma più pura – con il Manifesto del Partito comunista del 1848 di Karl Marx e Friedrich Engels come citazione di primo piano – alla transizione contemporanea al manifesto come forma costruita e/o affermazione reazionaria.
Anthony Vidler ha aperto i lavori con una definizione assoluta di manifesto come appello all'azione attraverso il potere della retorica in periodi di profonda incertezza politica ed economica e, a mano a mano che il convegno prendeva forma, sono venute in evidenza varie forme di trasmutazione e di dissoluzione del manifesto. Alcuni punti di fondo sono sembrati distillarsi; in particolare attraverso il concetto di uso storicamente "trasformativo" del manifesto, culminato nell'ipotesi che nella sua forma più pura esso non sia più né significativo né importante. La dismissione o la dissoluzione del manifesto può forse aver influito sulla professione contemporanea, dato il corollario accettato dagli intervenuti che la rivoluzione, insieme con il manifesto, di solito fallisce?
A quanto pare gli intervenuti erano più interessati alle prese di posizione pragmatiche dei manifesti d'architettura, concernenti le convenzioni e sottilmente contestative, che ai roboanti manifesti di Filippo Tommaso Marinetti e al Manifesto del Futurismo, contraddittoriamente tra gli scritti più citati in tutti gli interventi. Forse con l'unica eccezione di Felicity Scott le posizioni più comunemente diffuse hanno sostenuto che il manifesto è morto o dissolto, prima di tutto con l'argomentazione che esso non è più necessario in una professione che non fa più riferimento al 'genio solitario' ma, al contrario, a un insieme di gesti antieroici.
Enrique Walker ha per altro sottolineato che il manifesto nella forma marxiana più pura si è dissolto sotto l'urto del manifesto "dolce" Imparare da Las Vegas di Robert Venturi e del manifesto "retroattivo" Delirious New York di Rem Koolhaas. Walker ha affermato che in precedenza il manifesto si preoccupava di sottolineare nella sua formulazione il valore probatorio della storia, mentre questi testi riposizionano la prova come elemento cruciale della forza del manifesto, che fa la storia. E ha proseguito sostenendo che la posizione critica che si ritrova in Venturi e in Koolhaas è tutt'altro che scomparsa, producendo libri colmi di "materiali sulla città per gli architetti fatta dagli architetti" contrapposta alla fondamentale attività dell'analisi dei rapporti della città con la sua architettura. Il manifesto si è addomesticato, perdendo in inventiva, in capacità d'indagine e di interpretazione.
Ma la stessa ridefinizione del manifesto come retroattivo non ne dissolve già di per sé l'incisività rispetto al suo intento originale in quanto presa di posizione? Forse la stessa definizione di Mark Wigley del manifesto come "appello al cambiamento" è in realtà la controparte di questa affermazione. Wigley si è chiesto se "i manifesti non fossero una forma di affettazione modernista". Secondo lui la stesura di un manifesto e l'ideologia modernista hanno una natura analoga, dato che entrambe sono specificamente orientate al futuro. Non sono oggetti e neppure testi individuali, sono una forma d'arte che trova realizzazione indipendentemente dai gesti che ne conseguono. Perciò l'atto di un manifesto e le sue azioni hanno modalità di comportamento non lineari, dove "è possibile scrivere la propria storia tanto quanto la proiezione della propria storia". E tuttavia, secondo quella che si potrebbe considerare una posizione simile a quella di Walker, i manifesti in quanto azioni sono stati significativamente depotenziati dalla necessità della molteplicità delle azioni. Nell'esaltazione dell'Ego attraverso il "mini-manifesto" Wigley delinea una affascinante analogia con il modo di ordinare un caffè negli Stati Uniti: l'avventore si sente rassicurato quando ordina un "moca ristretto doppio decaffeinato macchiato", un'azione semplice cui si sovrappone una molteplicità di azioni.
Due testi teorici relativamente contemporanei si muovono all'avanguardia della teoria del manifesto in architettura: Programs and Manifestoes on 20th-Century Architecture (1975) di Ulrich Conrads; e Theories and Manifestoes of Contemporary Architecture (2006) di Charles Jencks e Karl Kropf. Entrambi comprendono una raccolta di manifesti di professionisti contemporanei di primo piano. Entrambi i testi si rivolgono alla posterità, registrando le idee in quanto idee che hanno raggiunto un punto risolutivo, di successo o fallimentare che sia. Analogamente all'idea dei mini-manifesti di Wigley i testi in realtà indicano che la professione non produce più manifesti, ma riproduce raccolte di manifesti in modo da delineare una prospettiva orientata al futuro. E tuttavia questo orientamento è deviato dal fatto che questi manifesti sono stati scritti in un'epoca i cui problemi erano decisamente diversi da quelli di oggi. Per questo la loro importanza in una certa misura svanisce. Inoltre il fatto indica un problema più vasto: non c'è nessuno nell'ambito professionale contemporaneo che voglia prendere posizione, salire su un podio e proclamare un concetto polemico, se non – forse – in forma costruita.
Nel corso del convegno un sotterraneo conservatorismo è parso serpeggiare nell'atteggiamento degli interventi nei confronti delle formazioni costruite che si esprimono come manifesti. Forse l'esempio portato da Beatriz Colomina (il manifesto miesiano in forma costruita – che ha il suo culmine nell'installazione di SANAA – del padiglione di Barcellona) suggerisce che la professione debba operare in un quadro predefinito, e assumere la "prova" preesistente come motivazione alla base di manifesti e prese di posizione, come sostiene Enrique Walker? Davvero per la professione la produzione di manifesti più incisivi comporta la necessità di affrontare innanzi tutto la sua stessa carenza in fatto di negazione delle regole e di atteggiamenti convenzionali? La professione oscilla in direzione di una posizione apolitica, aculturale, ateorica: una posizione che Walker considera già presente nel periodo successivo al manifesto retroattivo.
Ciò che il convegno ha svelato è che l'apparente purezza dei documenti di maggiore peso storico, come il Manifesto del Futurismo, è irrecuperabile. A quanto pare, se il manifesto come revisione della storia è oggi più discusso che realizzato, il manifesto contemporaneo sta attraversando una revisione di se stesso sotto forma di manifesti alternativi oppure reazionari, anti-manifesti o manifesti costruiti. Ma questa deriva si allontana veramente dall'intento originario di un manifesto? E di conseguenza questo convegno assume forza polemica in quanto pone la domanda se la forma attuale del manifesto abbia o meno soggiaciuto alla revisione storicista?
In generale è parsa trionfare la convinzione dell'inesistenza di una crisi specifica dell'evoluzione del manifesto e della nostalgia sentimentale per il ritorno alla magniloquenza dei manifesti precedenti. Ma il concetto di manifesto è effettivamente in crisi, e si tratta di una crisi che si estende ben al di là della professione. L'importanza della scrittura, del giornalismo e della costruzione teoretica è stata polverizzata dalle impostazioni pragmatiche. Il potere dei media, della tecnologia e del marketing – solitamente così fondato sulla retorica – non fa più conto della parola scritta. Il manifesto non è morto, ma agonizza nell'obsolescenza. Non è morto nella formula, ma forse il fatto sta nell'aver semplicemente perso di vista la sua importanza.
Michael Holt e Marissa Looby sono architetti a New York. La loro collaborazione ha avuto inizio mentre seguivano il corso di Advanced Architectural Design alla Graduate School of Architecture, Planning and Preservation della Columbia University nel 2009
Che cosa ne è del manifesto d'architettura
Sulla scorta di un simposio sullo stato del manifesto d'architettura, gli autori si chiedono se questa forma retorica possa sopravvivere in un'epoca di gesti antieroici.
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- Michael Holt,Marissa Looby
- 01 dicembre 2011
- New York