La Milano di Blocco 181 non è Milano: se la tv ridisegna la città

La nuova serie Sky è una favola urbana noir che ambisce al ruolo di erede di Gomorra. In Blocco 181, la capitale italiana della moda e del design diventa una ipercittà. Il simbolo della tensione globale tra centro e periferia, con l'ovvio rischio di tradirne l’identità.

Su corso Vittorio Emanuele, la grande strada pedonale dello shopping del centro di Milano, le mostre fotografiche en plein air sono oramai una presenza fissa, un complemento d’arredo urbano con vista sul Duomo. Le foto, in grande formato, vengono montate su grandi telai metallici. L’ultima in ordine di tempo è quella dedicata a Blocco 181, con le immagini di scena della nuova serie Sky nei giorni del debutto. Scattate da Gabriele Micalizzi, sono ipersature e fluo, e raccontano di palazzoni e guerre tra bande e tramonti sui confini della città. Per una serie orgogliosamente “di periferia”, una mostra in centro sembra paradossale. Ma forse non è così. 

  

Milano sta cambiando, con una crescita verticale prepotente, caso unico tra le città italiane. La tv e il cinema colgono la palla al balzo, cercano scorci sulle nuove torri di vetro, alzano i droni che celebrano lo skyline in evoluzione. Negli ultimi mesi è successo per esempio in Monterossi (Amazon Prime) e Fedeltà (Netflix), l’anno scorso nel lungometraggio 3/19 di Silvio Soldini. Anche una delle serie americane più celebrate (e premiate) degli ultimi anni ha fatto tappa a Milano, Succession (HBO), con una puntata cruciale dell’ultima serie ambientata nelle torri di Citylife, emblema locale di un potere economico transnazionale. La periferia, quella dei palazzi, è un’eccezione, come Zero di Dikele (Neflix), con le sequenze al Gallaratese, e appunto Blocco 181

In Blocco 181, Milano è un paesone, diviso con una cesura smaccatamente manichea tra centro e periferia. In centro ci sono i fenicotteri di villa Invernizzi, i supermercati orientali chic, case ovviamente bellissime, i macchinoni, un gran benessere, splende quasi sempre il sole; la periferia invece è il Blocco, un posto tutto cemento e colori virati alla depressione, nonché terreno di battaglia tra la mala italiana e i pandilleros della Misa salvadoregna. A tenere unita la città, a fare da raccordo tra ricchi e poveri, tra centro e periferia, tra benessere e malessere, c’è la coca, che nello stereotipo della Milano da bere e da pippare è ubiqua e invisibile come la radiazione di fondo che permea tutto l’universo – secondo recenti studi, Milano si classifica effettivamente in fondo alla top 20 delle città europee con più consumo di cocaina.

Blocco 181. Courtesy Sky
Blocco 181. Courtesy Sky

“La serie vuole restituire un’idea di periferia contemporanea, assolutamente senza una connotazione geografica vera”, racconta a Domus il location manager Marco Bergamaschi. Quindi, quella che nel racconto viene presentata come una localizzazione unica e coerente, nella realtà dei fatti è sbriciolata lungo tutta la cerchia esterna del capoluogo lombardo. Il Blocco è in realtà costituito dall’agglomerato delle case popolari di quartieri periferici emblematici come Barona e Corvetto, che sembrano vicine nella finzione della serie ma sono a chilometri di distanza nella realtà. Dall’altra parte della città, a Niguarda, sono state ricostruite delle strade “come se una sfilza di negozi, ormai chiusi, fossero ancora aperti”, aggiunge Bergamaschi. Il nome stesso del Blocco viene da un edificio che era al Giambellino, ora demolito, spiega. 

Blocco 181. Courtesy Sky
Blocco 181. Courtesy Sky

I latinos hanno il loro fortino dalle parti di via Lombroso, una zona che presto sarà radicalmente riqualificata. È l’attualità di Milano che Blocco 181 non racconta, quella di una città che rivolta quartieri come calzini, gentrificandoli, spostando l’asse del centro sempre più in là, e ricollocando la periferia in una suburbia indistinta che oramai inizia nell’hinterland. Questo il suo racconto oggi, il suo dramma, più che la guerra di bande.

La Milano di Blocco 181 non è Milano; eppure è al tempo stesso Milano, una Milano che assurge al ruolo assoluto, di città globale, dove i caratteri della metropoli si elevano ad apparati simbolici facilmente riconoscibili ovunque. “L’iperrealismo è diverso dal neorealismo”, commenta Bergamaschi, che chiosa: “senza dubbio Blocco 181 è più un fumetto iperrealista che un documentario”. 

Blocco 181. Courtesy Sky
Blocco 181. Courtesy Sky

I protagonisti di questo West Side Story meneghino sono dei Romeo e Giulietta aggiornati ai nostri giorni, un threesome di ragazzi dalla smaccata fluidità culturale, sessuale e affettiva, tre cani sciolti in fuga dalle famiglie e dalle ideologie dentro cui sono cresciuti costretti. Trovano il loro porto sicuro nella casa borghesissima di quello ricco tra i tre, tutta saloni e cabine armadio e pezzi di design nel pienissimo centro città, a due passi dai mitici fenicotteri, la Milano dell’1% che da generazioni ha casa intorno a Villa Necchi Campiglio. Si adattano così a un design della vita in fondo un po’ scontato, come se la periferia fosse un male da cui non c’è scampo, da cui ci si salva solo affidandosi a correnti centripete che portano il ragazzetto di Rozzano in salvo sulla sommità delle residenze Liebesking di Cityife.

Per com’è ritratta la nella serie, un luogo di paura e violenza, dove la povertà corrisponde sempre al malessere, difficile dargli torto: una periferia, quella di Blocco 181, che sembra immaginata da chi l’ha vista dall’alto delle torri di vetro, o nelle foto di una mostra in centro. Ed è un peccato, perché le periferie di Milano sono molto più di questo. 

  

In un ruolo che all’inizio pare solo marginale, ma è poi destinato a evolversi, compare Salmo, il celebre rapper di Olbia (ma milanese di adozione) che ha tra l’altro curato la colonna sonora della serie. Più di ogni forma d’arte, è soprattutto il rap che ha dato la voce alle periferie in questo millennio,  nuove e vecchie. In tutto il mondo e anche a Milano, mentre la città cresceva e cresceva, la mitologia della periferia rimbombando sui mezzi pubblici e dai booster, a pieno volume nelle JBL dei ragazzini, arrivava negli Airpods e su Spotify, diventava il nostro nuovo pop. Nel nostro orizzonte entravano nuovi luoghi, com'era successo con Brooklyn o Compton, ma questa volta a una manciata di chilometri da casa, dalla Barona di Marracash a Calvairate (Rkomi) a Cinisello cantata da Sfera Ebbasta, fino alla Rozzi di Paky.

Quest’ultimo, poco più che ventenne, con il suo disco e soprattutto con il concerto abusivo alle case popolari di Rozzano ha costruito da zero una immagine densissima e artaudianamente crudele del sobborgo milanese, iperreale eppure sinceramente veritiera, insomma quella che Blocco 181 sembra inseguire senza riuscire a raggiungere mai per almeno le prime sei puntate (su otto, quelle che erano nel pacchetto dell’anteprima stampa). Perché forse solo nella sua più scatenata sincerità, e non nell’astrazione costruita a tavolino, la periferia si svela completamente, e diventa – per citare Bergamaschi – iperreale.

Blocco 181. Courtesy Sky
Blocco 181. Courtesy Sky

La serie di Sky resta una deliziosa favola d’amore e crimine con Milano sullo sfondo (e un po’ delle lavatrici di Genova), con un tono alle volte da cabaret meneghino che la fa avvicina più alla dark comedy di formazione che a Gomorra o Suburra, e che quasi per contrappasso confina il suo momento più altamente immaginifico alla sigla, in cui la Misa si prende Piazza Affari e la Madonnina finisce in periferia, il centro città viene arrostito da un pendelleros incappucciato in una scena simil-Attacco dei Giganti, e un rider (o un cavallino della coca?) ruba il posto in cima al piedistallo della celebre statua a Vittorio Emanuele II che fronteggia il Duomo.

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