Bob Dylan in 10 opere e oggetti di design

Con l’uscita di A Complete Unknown, scoppia la Bob Dylan-mania: vi raccontiamo il menestrello di Duluth, l’ultima grande figura mitologica della musica americana, attraverso dieci cose. Compresa quella che ha dato nome a Memphis. 

di Lorenzo Ottone

Cantante e musicista leggendario, poeta e premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan è un caposaldo del pantheon iconografico statunitense, insieme ai vari James Dean, Elvis, Marilyn Monroe, Andy Warhol e a tutte quelle icone generazionali e universali appartenenti a un mondo non ancora frammentato in una moltitudine di nicchie e bolle culturali. 

I suoi testi e le sue musiche hanno animato i sogni e le battaglie di intere stagioni culturali, in modo particolare quelle contro la segregazione razziale, l’atomica e la guerra del Vietnam. Ma quella di Dylan è anche una figura che ha saputo reinventarsi nel corso di tutta la sua carriera, tradendo se stesso più volte e interpretando sempre a modo suo lo spirito dei tempi. Nel 2020 ha scalato le classifiche con Rough and Rowdy Ways, anche grazie al chiacchieratissimo pezzo Murder Most Foul, che dura oltre 16 minuti


L’influenza di Dylan ha permeato così tanto la cultura del tempo da avere ispirato, più o meno direttamente, una moltitudine di artisti e designer. Analogamente, l’icona-Dylan ha reso alcuni degli oggetti utilizzati e capi indossati dei totem della cultura popolare.

Ne scriviamo in concomitanza con l’uscita nelle sale di A Complete Unknown, l’atteso biopic diretto da James Mangold (Logan, Walk the Line, Ragazze Interrotte) e con Timothée Chalamet nel ruolo del menestrello di Duluth, che si concentra sull’arco temporale che va dagli esordi nel 1961 fino alla divisiva “svolta elettrica”, avvenuta al Newport Folk Festival nell’estate 1965.


01

Il poster Milton Glaser

Durante gli anni ‘60, Dylan ha trasceso la sola figura di idolo pop, assurgendo a icona totemica, al pari di certi divi monolitici hollywoodiani e dei grandi attivisti politici del tempo, come Luther King e Malcolm X. Il suo volto si fa così iconografia generazionale e, di conseguenza, opera di design. Come accade con il grafico americano Milton Glaser, fondatore del New York Magazine, autore del celebre logo I Love New York e anche al lavoro per Olivetti

Il suo Dylan, rappresentato di profilo, si sviluppa attorno a due cardini fisiognomici del cantautore: il naso arcuato e i capelli ricci e folti, arruffati verso il cielo, e restituiti da un groviglio di colori. Essi sembrano alludere all’esplosione creativa in circolo nella mente di Dylan, facendosi altresì manifesto della stagione flower-pop alle porte. 

Milton Glaser, Dylan

Un’illustrazione che ha saputo superare i soli confini della musica di Dylan, per parlare a una generazione intera, proprio come le liriche del menestrello di Duluth.


02

Gli occhiali.Ray-Ban Caribbean

Gli occhiali da sole, dalla montatura spessa e affusolata, vengono introdotti nell’etiquette Dylaniana nel 1965. Coincidono con la svolta elettrica dell’artista e servono a comunicare un’immagine fattasi ora più ruvida ed elusiva, spesso associata ad outfit total black di matrice esistenzialista, ma anche in parte influenzati dall’appeal delle Black Panthers sull’intelligentsia statunitense dell’epoca. 

Sebbene Dylan venga spesso associato ai Ray-Ban Wayfarer, la sua montatura è riconducibile al modello Caribbean, prodotto dalla newyorkese Bausch & Lomb per lo stesso celebre brand di eyewear.

Bob Dylan con i suoi Ray-Ban Caribbean

Gli occhiali da sole da allora hanno spesso fatto capolino nelle rappresentazioni di Dylan, come quella celebre e caleidoscopica realizzata nel 1967 per la rivista underground Oz dall’illustratore australiano Martin Sharp, le cui riproduzioni – stampate all’epoca da Big O Posters – vengono regolarmente battute all’asta per svariate migliaia di Dollari.


03

La copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan

Quando nel maggio 1963 esce The Freewheelin’ Bob Dylan, Dylan ha alle spalle un solo album che ha venduto appena 5000 copie. The Freewheelin’ diventa in poco tempo disco di platino, trascinato dall’inno pacifista “Blowin’ in the Wind”, ma anche dalla sua copertina. 

Uno scatto, realizzato dal fotografo della CBS Don Hunstein, che fa della sua spontaneità la sua forza, in netta contrapposizione con l’art direction modernista e affilata delle etichette jazz del tempo, come Blue Note e Prestige. L’artwork di Freewheelin’ può essere considerato una forma di anti-design rispetto ai canoni delle copertine dell’epoca, e proprio in virtù di questa ragione è diventato atemporale, quasi più delle sue canzoni.

Bob Dylan, The Freewheelin, 1963

Lo sottolineano le citazioni nel corso degli anni, come quella della band new wave italiana Diaframma per l’album Anni Luce, scattata a Firenze a differenza di quasi trent’anni dall’originale. Ma anche il trend Tik Tok “Bob Dylan core”, ovvero il camminare ricurvi e avvolti in giacche troppo corte e leggere per i climi rigidi. Proprio come Dylan, con la sua giacca in velluto scamosciato, a spasso con la fidanzata Suze Rotolo a pochi isolati dal loro appartamento newyorkese su una strada completamente innevata.

Come la stessa Rotolo ha raccontato nel 2008 al New York Times:  “Lui indossava una giacca molto leggera, perché l’immagine era tutto. Il nostro appartamento era freddo, e dunque avevo un maglione, in più avevo preso in prestito uno dei suoi maglioni grandi e voluminosi. Sopra avevo indossato anche un cappotto. Mi sentivo come una salsiccia. Ogni volta che riguardo quella foto, penso di apparire grassa.”


04

Il letto Arcobaleno di Archizoom

“Stuck Inside a Mobile with the Memphis Blues Again”, recita il titolo di uno dei più celebri brani di Dylan. La canzone è del 1966 ed è inclusa in Blonde on Blonde, uno degli album di riferimento dell’epoca per i giovani contestatori, artisti e i bohemien, da Berkley all’Europa. Tra questi c’è anche Ettore Sottsass Jr., che rimarrà così legato al brano (ed egualmente affascinato dal suo titolo prolisso, quasi uno scioglilingua) da farsi influenzare nel 1980 nella scelta del nome del suo gruppo, simbolo del design postmoderno: Memphis.

Domus 455, ottobre 1967

Diversi anni prima, e molto più a ridosso dell'uscita della canzone, nell’ottobre 1967 lo stesso Sottsass introduce gli Archizoom ai lettori di Domus 455. Lo fa presentando quattro letti, manifesto del linguaggio e della filosofia degli architetti radicali fiorentini. Uno di questi, Arcobaleno, è sormontato da un arco iridato poggiante su due comodini in marmo scuro e presenta una grande immagine di Bob Dylan sul copriletto. L’effige del cantautore ritorna più volte nelle illustrazioni di Archizoom, sottolineando la centralità della poetica dell’artista per la comunità architettonica radicale italiana. 


05

Il quadro Self-Portrait

Il coronamento della carriera di Bob Dylan, si potrebbe sostenere, è stato il Premio Nobel alla Letteratura conferitogli nel 2016 . Un’altra cosa di cui il troubador può andare senz’altro altrettanto fiero è la presenza nella collezione del MoMA di un suo quadro. La tela, che misura appena 30,5x30,5cm (12”x12”), è un autoritratto, piuttosto astratto. Non a caso l’opera è celebre per essere stata utilizzata per l’artwork del doppio album Self-Portrait del 1970, uno dei dischi maggiormente legati alla tradizione country del repertorio dylaniano.

Bob Dylan, Self-portrait

06

Il paper dress di Harry Gordon

Nella collezione del MoMa c’è un’altra opera legata a Bob Dylan. Si tratta di un paper dress realizzato dal designer Harry Gordon nel 1967. Nonostante il suo nome, il vestito non è interamente fatto di carta ma contiene anche delle fibre di rayon, pur presentando il volto di Dylan serigrafato su una superficie cartacea che occupa l’intera estensione del capo. 

Metà indumento, metà oggetto di design, il paper dress di Harry Gordon è una testimonianza della dimensione Pop e febbrile che permeava la società occidentale di metà ‘60, ossessionata dal continuo rinnovamento del guardaroba e dagli idoli musicali, totem laici della nuova generazione, arrabbiata ma consumista.

Harry Gordon, Paper Dress, 1967

Non a caso, un altro esempio celebre di paper dress dell’epoca – sebbene non realizzato da Gordon – è quello recante i barattoli di zuppa Campbell's che Andy Warhol aveva tramutato in icone Pop Art.


07

La Fender Stratocaster

Bob Dylan è un punto di riferimento della musica folk americana, ma secondo alcuni il menestrello di Duluth ha profanato il genere. Per la precisione, è accaduto domenica 25 luglio 1965. Al Newport Folk Festival, tempio della tradizione folk statunitense, Dylan decide di esibirsi dal vivo per la prima volta nella sua carriera con una band (l’ossatura della Paul Butterfield Blues Band e Al Korman, già all’organo in “Like a Rolling Stone”) e, soprattutto, scambiando la sua convenzionale chitarra acustica con una elettrica. Gli aneddoti e le leggende popolari su quel concerto sono innumerevoli, come quella che vede Pete Seger, leggenda folk, brandire un’ascia nel backstage per recidere il cavo che amplifica la chitarra di Dylan.
 

Nel pubblico i fischi si spartiscono con gli applausi, c’è chi rimane elettrificato e chi "electrocuted", ovvero si prende la scossa, come commentò metaforicamente John Gilliland nel suo storico programma radio The Pop Chronicles.


La prima chitarra elettrica con cui Dylan si esibisce dal vivo è una Fender Stratocaster Three-Tone Sunburst del 1964, che nel tempo di soli tre brani segna la storia della musica ed entra nel pantheon iconografico del cantautore. 

Dimenticata sul velivolo che trasportava gli artisti dopo il festival, la chitarra, mai più recuperata dall’entourage del cantante, è stata per decenni nella soffitta del pilota Victor Quinton. Nel 2002, in seguito alla scomparsa dell’uomo, è stata trovata dalla figlia e dopo una lunga controversia con i legali di Dylan battuta all’asta nel 2013 per quasi 1 milione di Dollari, all’epoca cifra record per una chitarra.


08

La motocicletta Triumph T100

Le motociclette Triumph sono tra i pezzi di design industriale maggiormente associati alla (contro)cultura giovanile. Rombanti e vigorose, sono da sempre sinonimo del ribelle bello e dannato del dopoguerra, personificato da Marlon Brando ne Il Selvaggio, in cui inforca il manubrio del modello Thunderbird 6T. 

Nate in Regno Unito, le Triumph godono di un ottimo successo oltreoceano, dove incarnano uno status symbol della cultura alternativa, in cui machismo e dandysmo si sposano tra bulloni e odore acre di benzina.

Anche lo schivo e insospettabile Dylan ne possiede una, una Triumph T100 del 1964 in cui T sta per Tiger. La motocicletta è la sorella a 500cc dell’altrettanto celebre e più performante Bonneville T120/T120R a 650cc.

Bob Dylan, Highway 61 Revisited, 1965

È proprio intorno alla motocicletta che si consuma uno dei miti più nebulosi riguardanti il cantautore. Il 19 luglio 1966, nella zona che ospiterà pochi anni più tardi il festival di Woodstock, Dylan perde il controllo della sua Triumph e fa un incidente che – a quanto da lui stesso raccontato – lo lascia con il volto significativamente lacerato, perdita di conoscenza e addirittura delle vertebre incrinate. A causa di questo incidente, Dylan che si trova all’apice della sua carriera reduce dall’uscita del suo settimo album Blonde on Blonde, smetterà di suonare dal vivo per sette anni. 

Eppure, non esistono dati relativi all'ospedalizzazione del cantante, e nemmeno di ambulanze chiamate sul luogo dello schianto. 

Che Dylan, ottima penna, abbia ordito un racconto per poter fuggire dall’occhio del ciclone e ritrovare a una dimensione di vita privata, analogamente allo stop dai concerti live voluto dai Beatles?!  La storia è tuttora oggetto di speculazioni, ma quel che è certo è l’amore del menestrello di Duluth per le Triumph, come racconta anche la t-shirt dell’azienda di motociclette britanniche indossata sotto una camicia di seta a fantasia psichedelica sulla copertina del suo album del 1965 Highway 61 Revisited. La Triumph, si potrebbe sostenere, è uno dei mezzi con cui Dylan compie il suo personale viaggio on the road per raccontare l’America della contestazione giovanile.


09

Il face painting di Rolling Thunder Review

“Se qualcuno indossa una maschera, allora ti dirà la verità”. Così afferma Bob Dylan in Rolling Thunder Revue, documentario del 2019 diretto da Martin Scorsese che racconta l’omonimo tour del cantautore svoltosi tra 1975 e 1976.

Il Rolling Thunder Revue è stato il grande ritorno sulle scene di Dylan. Un tour attraverso New England e Canada che, come suggerito dallo stesso nome ma anche dal progetto grafico delle locandine dei concerti, si rifà alla spontaneità e al nomadismo dei circhi e degli show itineranti dell’America dell’epopea del Far West. Sul palco, insieme a Dylan, un manipolo di amici di lunga data e figure di spicco della scena Beat e folk dei caffè del Greenwich Village: Allen Ginsberg, Joan Baez, Ramblin’ Jack Elliott e Joni Mitchell, tra gli altri.

Bob Dylan truccato con la "white face" durante una data del tour Rolling Thunder Revue

Dylan fa visita a domicilio a un’America sospesa tra la ritirata dal Vietnam e lo scandalo Watergate. La verità dev’essere raccontata, e se non da un menestrello in maschera, da chi?! Il tour risente di un’atmosfera performativa in linea con il tempo, e che affonda le radici tanto nel teatro popolare quanto nella scena degli happening newyorkesi. Inizialmente la maschera di Dylan è di PVC trasparente, decisamente laboriosa e poco pratica. Presto diventa un cerone bianco, una maschera da mimo o da commedia dell’arte, che ricongiunge Dylan con una cultura popolare e arcaica che lo muove. Nel film di Scorsese viene fatto maliziosamente credere che l’ispirazione sia stato un concerto dei Kiss, ma molto più probabilmente è il film francese del 1945 Children of Paradise ad avere spinto Dylan a quella che sarebbe nel tempo diventata una sua celebre iconografia: la Whiteface.


10

Lo Screen Test di Andy Warhol

Il rapporto tra Dylan e Andy Warhol, si racconta, era tutto fuorché ottimale. Eppure, ciò non ha impedito al cantante di sfuggire dalla telecamera dell’artista, finendo tra i soggetti dei suoi celebri Screen Tests. Si tratta della serie di cortometraggi sperimentali (se ne contano 472 per la precisione, ma altri risultano perduti) realizzati tra il 1964 e il 1965 i cui soggetti sono figure del jet-set e dell’underground newyorkese dell’epoca, di cui Warhol riprendeva dei primi piani poi proiettati al rallentatore, così da esasperarne i movimenti del volto e i mutamenti espressivi. 

Frame da Screen Test di Andy Warhol, 1966

Gli Screen Test, ispirati dalle foto segnaletiche e più precisamente dall’opuscolo della polizia di New York The Thirteen Most Wanted del 1962, si collocano tra i film sperimentali incentrati sull’idea di tempo e immobilità, come Empire (1965), e la fascinazione nei confronti delle celebrità, poi espletata attraverso la pittura e la fotografia.

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