La guida sta spiegando in tre parole il lavoro di Andrew Masullo, artista di San Francisco (le linee curve, il sottotesto sulla produttività, l'allusione alla forma del corpo), quando qualcuno nel gruppo comincia a scuotere apertamente la testa: "Ma no", interrompe il tipo in questione, "la forma del corpo non c'entra per niente, l'opera non ha un significato specifico: l'autore sono io". Il bello (e il rischio) delle mostre che sfidano "la diretta" è che, con poche eccezioni, gli artisti sono ancora vivi, ancora molto impegnati nella loro opera e, come prova Masullo, disposti a intervenire. "Valeva la pena di pagare il biglietto", nota un tale vicino a me. La guida, visibilmente scossa, si fa da parte, mentre Masullo continua a parlare in libertà della sua opera e del suo metodo.
"È importante fare un sacco di sbagli", dichiara: "Se sapessi in anticipo dove andrò a finire sarebbe una gran noia. È come una conversazione: cominci da un certo punto e poi stai a vedere dove vai a parare". E in realtà un'analisi più ravvicinata dell'opera dell'artista rivela le prove di parecchie differenti conversazioni e false partenze. Masullo afferma di sentire molto l'influsso delle tele visionarie, introspettive e semiastratte di Forrest Bess, che ha scoperto quando lavorava al Whitney negli anni Ottanta. Non è il solo: al piano di sotto l'artista Robert Gober ha dedicato a Bess un'intera sala, esponendone i dipinti accanto ai personalissimi esperimenti scientifici e alle tesi sull'ermafroditismo. Ha così esaudito il sogno di tutta la vita dell'artista scomparso (1911-1977) gratificando il visitatore con una delle più affascinanti, coinvolgenti e commoventi esperienze della mostra.
Con la pila in mano: la Biennale 2012 del Whitney
I curatori Elisabet Sussman e Jay Sanders hanno trasformato il quarto piano del museo in un grande palcoscenico che comprende performance, manifestazioni, ricerche di artisti in residenza e perfino una sfilata di moda.

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- Kimberlie Birks
- 08 marzo 2012
- New York

Benvenuti alla 76ma Biennale, manifestazione espositiva di punta del Whitney Museum of American Art che si propone di fare il punto sullo stato attuale dell'arte contemporanea in America. L'edizione di quest'anno si avvantaggia di dimensioni più ristrette (51 artisti a paragone dei 100 presentati nel 2006), ma di prospettive più ampie. Nelle capaci mani dei curatori Elisabet Sussman e Jay Sanders, la Biennale tratta sullo stesso piano oggetti e opere che si sviluppano nel tempo, comprese non solo le consuete categorie del video e della performance, ma anche musica, danza, teatro e cinema. Per la prima volta il quarto piano del museo si trasforma in un palcoscenico di oltre 550 metri quadrati destinato a un dinamico programma che comprende performance, manifestazioni, ricerche di artisti in residenza e perfino una sfilata di moda. Sussman e Sanders si sono inoltre rivolti a Thomas Beard e a Ed Halter di Light Industry, spazio di Brooklyn dedicato al cinema e alle arti elettroniche, perché li aiutassero a creare un ambizioso programma di cinema e video. "Come curatori condividevamo l'idea di questo territorio artistico allargato, una delle ragioni che rendevano naturale la nostra collaborazione", osservano Sussman e Sanders.
È proprio questo spirito collettivo che rende così convincente la Biennale. Gli artisti si impegnano sia nella creazione sia nell'esposizione delle loro opere (come dimostra Masullo) e delle opere altrui. È il caso di Robert Gober, di Nick Mauss e di Werner Herzog (il cui intervento nella sua stessa installazione multimediale costituisce un altro punto di interesse della mostra). Anche senza una presenza diretta si vedono anche parecchi altri artisti mettere in rapporto opere altrui con le proprie. The Seasons I-IV di Jutta Koether è un inno al maestro secentesco Poussin, mentre l'arazzo Paint me a Cavernous Waste Shore di Elaine Reichek, realizzato con tecniche digitali, si rifà all'opera di Tiziano, gigante del Rinascimento. E così come s'incrociano i percorsi degli influssi e degli autori, anche i confini tra allestimento e performance si fanno indistinti. Lo spazio della danza, con le prove aperte al pubblico, diventa galleria. All'inverso in This Could Be Something if I Let It, l'artista di Los Angeles Dawn Kasper trasloca la maggior parte dei suoi averi (un letto, degli scaffali di libreria e una quantità di piccoli apparecchi, oggetti d'arredamento e opere d'arte) nel museo, trasformando per la durata della mostra la galleria nel suo studio. Il dialogo abbraccia ogni cosa: gli artisti di impegnano direttamente e indirettamente con i visitatori e tra loro, vivono nelle sale d'esposizione, parlano nelle guide multimediali gratuite, collaborano alle pagine del catalogo della mostra, tengono conferenze, lesioni e prove aperte. La Biennale è in perpetuo ed emozionante divenire e quindi sfugge a ogni tentativo di ridurla a una specifica esperienza o interpretazione. "Il nostro visitatore ideale è destinato a venire qui sette o otto volte", spiega Sanders. "Stiamo agendo come se si trattasse di un centro di performing arts". Come in ogni buona conversazione, si partecipa senza sapere dove porterà. Ci possono essere delle false partenze, ma alla fine ciò che conta il percorso, non la destinazione.
È proprio questo spirito collettivo che rende così convincente la Biennale. Gli artisti si impegnano sia nella creazione sia nell'esposizione delle loro opere e delle opere altrui.
Forse uno dei particolari migliori della Biennale sta, a sorpresa, nell'happening ininterrotto costituito dalle 85 stampe incorniciate di Lutz Bacher che formano il Celestial Handbook. Sparse nel percorso della mostra, spesso nei luoghi più improbabili (all'ingresso dei bagni, sulle scale) queste pagine di libro incorniciate raffigurano immagini in bianco e nero di galassie pubblicate nel 1966 dall'astronomo dilettante Robert Burnham. Proprio come Burnham, ci ritroviamo anche noi a cercare di mettere insieme una qualche nozione della vastità dell'universo tramite l'analisi di soli pochi punti di luce. Dietro ogni oggetto celeste ci sono dei mondi, vasti quanto interiori. Esposti come sono senza alcun ordine gerarchico, sta allo spettatore trarre da essi costellazioni di significati. Descrivendo l'opera dell'artista olandese Hercules Segers (c. 1590-1638), tema di Hearsay of the Soul di Werner Herzog, il regista tedesco forse esprime nel modo migliore il valore del dono che ci viene offerto dalla Biennale: "Sono come pile che teniamo con mano incerta, una timida luce che apre spiragli nei recessi di un luogo che ci appare pressoché sconosciuto: noi stessi".