Fulvio Irace: “Non esistono soluzioni immediate, ma la cura dell’ordinario”

Per l’editoriale del numero di Domus 1052 lo storico d’architettura rintraccia un percorso di ripensamento inevitabile, economico e sociale, da affrontare con consapevolezza della sua complessità.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1052, dicembre 2020.

Si intitolava Milano Italia il numero 1041 di Domus che raccontava Milano come emblema di un’Italia ad alta velocità, avanguardia di un Paese fiducioso nella sua capacità di reagire alle crisi degli ultimi decenni, tornato a riprogettare se stesso, a ripensarsi secondo modelli di sviluppo innovativi. Era solo il dicembre del 2019, ma in realtà sembra passato molto più di un anno, con la pandemia che ha stravolto ogni ragionevole certezza sulle possibili direzioni di marcia. Per tutto il 2020, Domus ha riflettuto molto sulle conseguenze di una crisi che non si esita a definire epocale: per vastità e drammaticità, essa ha messo in luce i limiti di uno sviluppo in cui le ragioni delle dinamiche finanziarie si sono sovrapposte a quelle del rispetto per l’ambiente e a un’efficace politica di attenuazione dei pesanti regimi di diseguaglianza registrati su tutte le mappe della geografia planetaria. Dietro l’euforia dei mercati si è rivelata la realtà del “re nudo”: dalle profezie di David Quammen sull’insensatezza della nostra visione dell’ambiente alle analisi di Thomas Piketty sul capitalismo ideologico, siamo stati messi di fronte, brutalmente, alle carenze di modi di vita ampiamente denunciati, ma altrettanto ampiamente disattesi. Di conseguenza, la pandemia che sta distruggendo il nostro tessuto economico, sociale e psicologico ci sembra più una calamità avversa che il risultato di dissennate scelte individuali e collettive.

Gli scienziati ci avvertono che il virus potrà essere contenuto e sorvegliato, ma forse mai veramente debellato: sarà, insomma, sempre tra di noi con il deterrente di un pericolo. Questo dovrà indurci a mantenere uno stato di allarme permanente, ma anche ad aumentare la speranza progettuale, l’unica arma con cui l’umanità è riuscita nella sua storia a fronteggiare ogni catastrofe, adattandosi sempre all’ambiente e stabilendo nuovi equilibri.

Se la scienza rimane lo strumento più efficace per padroneggiare un’isteria da fine del mondo, la coscienza del nostro essere nel mondo dev’essere la guida di una serie di azioni dettate dalla razionalità e da una rinnovata percezione dell’appartenenza a un sistema globale i cui parametri necessitano di un radicale reset. Per esempio, sostituendo al paradigma industriale quel paradigma ecologico additato dagli studiosi delle neurobiologie vegetali quando richiamano la nostra attenzione sull’usura di un antropocentrismo che giudica tutto ciò che è diverso da noi come improprio, difettoso se non, addirittura, di ostacolo. Eppure, come ci insegnano le ricerche più attendibili, proprio il mondo vegetale ci ricorda la necessità di pensare non più in termini di individuo, ma di comunità. L’Internet delle piante (il Wood Wide Web di cui parla Suzanne Simard) non è solo una brillante metafora giornalistica: è un richiamo alla riscoperta della lunga durata quando si è abituati a conoscere solo lo stress della velocità.

L’Italia interna, quella collana di borghi che costituisce le vertebre di un sistema territoriale che ha nell’orografia la sua spina dorsale, ci indica la strada di un ripensamento inevitabile e da affrontare con consapevolezza della sua complessità, come spiega con rassicurante realismo Franco Arminio. Non esistono, infatti, soluzioni immediate, ma la cura dell’ordinario. Gli architetti dovrebbero guardarsi dalla tentazione (spesso spacciata per utopia) di scorciatoie che sono solo un riflesso pavloviano davanti alla paura dell’ignoto. Abbiamo bisogno di utopie dei comportamenti e delle pratiche quotidiane, non di gesti eclatanti che si risolvono in immagini o facili slogan. Crediamo che si debba partire dalla constatazione che – come insegna la storia – continueremo ad abitare come sempre ma, si spera, meglio. La pandemia ci ha portato a rivalutare quello che davamo per scontate, gettandoci nella depressione di un’involontaria estetica della quarantena: una parodia crudele dei fondamentali dell’architettura come arte degli spazi e disegno della convivenza. Dovunque guardiamo, ci confrontiamo con devastanti segni di cancellazione: dal distanziamento sociale per terra alle mascherine che negano l’identità dei volti. Può l’architettura, da sempre fondata sulla costruzione di socialità e di condivisione, inseguire chimere di habitat pensati sull’onda della paura e del sospetto? Sentiamo più che mai, invece, la necessità di rivolgerci al futuro puntando sulla moltiplicazione dello spazio e non sulla sua mortificazione: i movimenti spontanei nelle nostre città – sui balconi e sulle terrazze, nei parchi e sulle acque – durante i mesi terribili del lockdown testimoniano un bisogno di socialità che può avvenire solo sotto forma di una ritrovata comunità. Ringraziamo quindi Ugo La Pietra per averlo saputo rappresentare con sintetica poesia nella sua immagine di copertina. Perché questo numero di Domus vuole proporre una riflessione sulle carenze della struttura urbana e territoriale del nostro Paese che l’emergenza ha solo fatto risaltare con drammatica evidenza. Molte delle esperienze di cui parliamo ai nostri lettori sono precedenti all’esplosione pandemica e le loro storie di successo sono in realtà il risultato di scelte preveggenti. La lezione che viene da queste pratiche virtuose – costruite lentamente in conseguenza di atti razionali e visionari al tempo stesso – indica nel progetto l’unica uscita di sicurezza: cambiare, invertire rotte fallimentari e innovare sono i passi fondamentali per fronteggiare il rischio del futuro. Poi, certo, anche nell’arte, che da sempre costituisce il bene più prezioso dell’Italia, quello che ha sorretto la tradizione di un umanesimo integrale riversato a piene mani nei territori, nel patrimonio ambientale e nei musei con la presenza diffusa di un’idea di bellezza come necessaria forma di riscatto.

“Siamo in guerra, parliamo d’arte”, scrisse Gio Ponti negli anni più bui del conflitto bellico da cui uscì l’Italia repubblicana. Utopia di un poeta a fronte delle macerie di un’immane devastazione? No, una forma, ancora, di realismo: la convinzione che sulla paura non si può costruire nulla. Sull’arte, invece, sì.

Immagine di apertura: Ugo La Pietra, Al balcone, schizzo tratto dal libro Storie di virus. Pubblicato da Corraini nell’agosto 2020, il volume è una sorta di diario scritto e illustrato che raccoglie riflessioni e disegni elaborati da La Pietra durante il lockdown della scorsa primavera. © Ugo La Pietra

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