I maker e la tradizione italiana del design

La seconda edizione della Maker Faire, che apre domani a Roma, offre l’opportunità per riflettere sulle responsabilità e opportunità del movimento dei maker in relazione alla cultura del progetto in Italia.

Da come la mettono giù, a volte, suona più o meno così: “O stai con noi a cambiare il mondo oppure stai fermo lì a subire il cambiamento”. Poi accendi la televisione, un sabato sera qualunque sui Raitre, e alla celeberrima trasmissione “Che tempo che fa”, reginetta del mainstream del week-end, trovi Massimo Banzi, “il maker più famoso d’Italia” che ti spiega come col suo mitico processore Arduino, per esempio, puoi far dire a una pianta dopo averla debitamente annaffiata, “Thank you for watering me” e mandarti il suo riconoscimento via Twitter; oppure che con una stampante 3D, anche tua mamma può provvedere in casa da sé a stamparsi quel pezzo della lavastoviglie che si è rotto, anziché andarlo a comprare o farselo spedire a casa dal fornitore.
Ora, proprio pensando a mia madre, già non è così immediato farle capire che cosa sia un maker (tantomeno un microprocessore), figuriamoci dirle che c’è in atto un cambiamento epocale dei consumi, dell’economia e della manifattura e che dipende, ma su scala globale, dallo stesso meccanismo che nel piccolo regola una piantina che dice “grazie” o un tostapane che ti avvisa sullo smartphone quando la tua fetta sia sufficientemente abbrustolita. Come potrebbe reagire una come mia madre, se non con scetticismo e chiusura, a prima vista invitata a militare in questo progresso all’insegna della democratizzazione dei mezzi, ma in definitiva estromessa dalla salvezza che è nelle mani dei “geni” dell’informatica o dell’elettronica? E ancora: è solo un problema generazionale?
Non credo. Lo slogan “chiunque può” – diretto consanguineo del “yes you can” di Obama che non a caso è tra i maggiori sostenitori della comunità dei maker come soluzione per far ripartire l’economia in America, e contemporaneamente genitore del “chiunque è designer”/ “chiunque è produttore” che fa tanto imbestialire quelli che hanno pensato di dovere imparare e praticare un mestiere prima di dichiararsi tali – è infatti esattamente quel tipo di retorica che fa sentire esclusi, occlusi e anche un po’ ottusi quelli da questa parte, che non hanno tutta questa confidenza, o simpatia, o consuetudine con le nuove tecnologie.
Risposta: “Sarà meglio che vi svegliate se non volete rimanere indietro”. Reazione: “Sì, ma come? E per andare dove?”. E, intanto, l’impressione è che il treno del progresso sia passato e tu, tonta, sia rimasta lì, aumentando il divario tra una e l’altra sponda e alimentando l’idea che di qui siamo vecchi conservatori e di lì una nicchia fatta da nerd smanettoni che un tempo erano quelli che aprivano il cofano della macchina e ci davano dentro con le mani e, ora che è tutto digitalizzato, fanno la stessa cosa, ma governandola dal computer.
Io non sto necessariamente con quelli che, per restare nella metafora della meccanica, scelgono di andare a piedi, ma non penso proprio che riuscirò a considerare un problema il fatto di non saper fare andare una bicicletta elettrica usando una scheda Arduino. E non voglio considerarlo un problema o sentirmi come se stessi ostruendo una rivoluzione in atto. D’altronde non saprei neanche fare un’operazione a cuore aperto, cosa che, se possibile, probabilisticamente potrebbe incidere sul mio futuro in maniera anche più determinante.
Però mi piace pensare che le rivoluzioni, come questa dei maker a cui una parte di mondo sta affidando il rilancio dell’economia e del settore manifatturiero, aiutino anche le persone come me, si sostituiscano anche alle persone come me, proprio come d’altronde vale per la medicina, che non è per fortuna solo alla portata di chi la sa praticare e, prosaicizzando molto il livello del contenuto, proprio come il design, la cui fortuna e senso non sono certo stati quelli di rispondere esclusivamente al “bisogno” (vedi “mi si rompe la lavastoviglie” o “mi serve un bicchiere” o “devo scaldare una fetta di pane”…).
Certo, penso anche che sarebbe bello se fossi stata educata a pensare di poterlo fare io, con le mie mani, anziché stare da questa parte solo a guardare, tante volte con gli occhi e le mandibole spalancati come se si trattasse di cose dell’altro mondo. Ma probabilmente, anche se avessi imparato a farmele da me, avrei continuato a desiderare o almeno a provare piacere nel trovare anche delle cose già fatte, e fatte già come mi sarebbe piaciuto farle io (come trovo piacere nel leggere romanzi che avrei voluto scrivere io, o nel trovare un paio di scarpe disegnate proprio come me le sarei fatte, se avessi avuto quella speciale immaginazione tridimensionale).

Questo va da sé: le rivoluzioni o gli aggiornamenti tecnologici non scalzano tout-court quello che c’è stato prima. Non l’ha fatto la fotografia con la pittura, non l’ha fatto il cinema con il teatro, non l’ha fatto il forno a microonde con quello tradizionale. Ma quello che, tra le altre cose, sicuramente le trasformazioni impongono, è che il mezzo precedente per sopravvivere debba trovare una sua specificità, una peculiarità forte e non sostituibile.

Perciò mi pare che il movimento dei maker che sta arrivando in Italia, per il fatto che arriva proprio su questa tradizione italiana, ha delle responsabilità da una parte e delle buone opportunità dall’altra, a patto di conoscere e valorizzare il terreno su cui va a germinare. L’Italia ha una storia diversa, diversi inventori, un modello d’impresa e di crescita a sé, un’industria creativa peculiare e un immaginario duro su cui testare la resistenza di un fenomeno spontaneo e diffuso come quello dei maker. Lo stesso, viceversa, vale e fa bene anche ai nuovi artigiani (siano analogici o digitali, lavorino al tornio, con le mani o seduti a un pc) che non possono permettersi di perdere o ignorare la potenza della rete, qualunque siano le loro ambizioni.

In questo senso – vorrei tranquillizzare persone come mia madre – i maker sono portatori di buone notizie.

La prima è che, oltre al bisogno e alla bellezza del ritorno al “saper fare” (e come vogliamo utilizzare se no tutto questo tempo libero che ci è dato dalla disoccupazione e che un tempo era appannaggio solo dei pensionati?) in molti casi i maker producono delle cose davvero intelligenti, alternative, sostenibili, economiche, innovative che tengono alta la bandiera del nostro made in Italy. Arduino stessa ne è l’esempio più emblematico e lo è, al di là delle battute, il lavoro importantissimo che Massimo Banzi sta facendo in giro per il mondo esportando queste conoscenze, compreso arrivare a parlarne su Raitre, e provare a spiegarlo a persone come Obama ma anche come mia madre, compreso portare a Roma 40.000 persone in un solo week-end di fiera…

La seconda buona notizia, direttamente legata alla precedente, risiede proprio nell’ufficializzazione che così tanti visitatori, curiosi, appassionati, anche in Italia trovano finalmente celebrata in una fiera solo al suo secondo anno di vita ma già strutturata come una superpotenza, con importanti sponsor e media partner e un nome – per quanto ancora un po’ ostico ai nostrani – finalmente sotto la cui bandiera raccoglierli tutti, e connetterli a quello che con maggior consuetudine altrove è già fenomeno trans-generazionale da tempo.
La terza notizia è che per chiunque nutrisse un po’ di diffidenza verso la tecno élite e l’abuso di parole come “genio” o fosse scettico a pensare che solo i geni ci salveranno e salveranno “le cose” – escludendo quindi, alla faccia della rivoluzione democratica, tutti quelli che geni non si sentono – i maker non solo sono persone normalissime, ma hanno anche costruito il loro modello etico e politico sull’apertura, la condivisione, l’idea di lasciare a chiunque la possibilità di accedere ai propri progetti implementandone la qualità, migliorandoli, aggiustando le imperfezioni; tanto che se un genio c’è, a quel punto è un ingegno collettivo con ricadute molto più vaste del raggio del suo cervello. E questo davvero, se indirizzato in un modo intelligente, personale e seriamente democratico – ma anche onestamente meritocratico – può essere una reazione al supermonopolio dei nuovi capitalisti della “rete padrona”.
La quarta e ultima è: proprio come accade per tutte le trasformazioni, non importa che ce ne siamo accorti, che l’abbiamo cavalcata o che l’abbiamo snobbata, che abbiamo imparato a gestire direttamente i software o gli hardware della digital fabrication, oppure che non sappiamo che cosa sia Arduino, questa rivoluzione è già in corso da tempo e – come spiega bene Chris Anderson, autore tra le altre cose, del fortunato Makers (edito in Italia da Rizzoli) – è in pratica una somma delle due precedenti rivoluzioni industriali: quella delle macchine e quella di Internet, con l’applicazione del sapere software a tutto il mondo dell’hardware. E tutti noi ne stiamo già sperimentando gli effetti, risentendo (in certi casi beneficiando) anche dei cambiamenti che la crisi dei paradigmi storici della produzione e del consumo hanno innescato sull’economia. Non è vero che o la partecipiamo o la subiamo: per esempio possiamo trovare un modo utile e intelligente di raccontarla e provare a far capire o rendere accessibile questa trasformazione a chi la vuole agire, o chi la va a trovare solo questo week-end.

Evviva la Maker Faire allora. Ma, soprattutto, evviva se persone come Massimo Banzi o il co-curatore Riccardo Luna (da poco nominato Digital Champion del governo Renzi), come Enrico Bassi, il fondatore del primo Fablab italiano che sta aiutando altri studi laboratori ad aprirsi in vario modo a questo modello (ultimo in ordine di tempo Opendot, inugurato lo scorso 25 settembre a Milano), come Zoe Romano e Costantino Bongiorno di Wemake (che recentemente hanno presentato in anteprima italiana e sottotitolato il bellissimo documentario sul movimento dei maker), e come tanti altri che hanno appunto “aperto” le proprie competenze a noialtri restii e un po’ sospesi nei nostri piccoli mondi antichi.

Evviva se riusciranno davvero a trasferire anche ai nostri figli quegli strumenti che, non solo la generazione di mia madre, ma pure metà della nostra, si è un po’ persa, dialogando insieme per insegnare loro a costruirsi – se non hanno voglia di cercarle, non le trovano come vorrebbero o non hanno i mezzi per acquisirle da fuori – soluzioni da sé, valorizzando anche la differenza (di massa) del loro sé, pur senza essere geni o rivoluzionari.

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