Cento case popolari

Fabio Mantovani rilegge la figura retorica dell’edilizia popolare attraverso un viaggio in Italia tra 10 grandi agglomerati di edilizia pubblica e i loro abitanti. #fridayreads

Fabio Mantovani, Cento case popolari, Quodlibet Studio, Città e paesaggio, Macerata 2017, 152 pp.
Fabio Mantovani, Cento case popolari, Quodlibet, Macerata 2017, 152 pp.

 

Cielo Alto a Cervinia, Rozzol Melara a Trieste, Gallaratese a Milano, Forte Quezzi a Genova, Barca a Bologna, Villaggio Matteotti a Terni, Nuovo Corviale a Roma, Le Vele a Scampia, Spine Bianche a Matera, ZEN a Palermo: un nugolo di progetti che tratteggia un immaginario diffuso, solitamente in bilico tra utopie e politiche, tutele e abbandoni, grandi numeri e unità minime.

Il saggio fotografico di Fabio Mantovani scompagina il primo sapore che suscitano i nomi di questi grandi sistemi abitativi illustrandone gli spazi semplicemente per quello che sono, al di là delle visioni che li hanno concepiti o del tempo che li ha trasfigurati.
Il fotografo si addentra con uno sguardo scevro da pregiudizi nei meandri di queste architetture della fiducia, ritagliando nelle proprie inquadrature quei luoghi dove parte della grande teoria architettonica del secolo scorso viene vissuta ogni giorno. Così si entra nel mosaico di Cento case popolari, che forse in fondo sono tutte la stessa casa, teso a raccontare l’impatto del progetto una volta immerso nella realtà e la straordinaria normalità che rende oggi questi luoghi ancora capaci di produrre un pensiero critico.

 

Le fotografie di Fabio Mantovani si collocano come delle sonde precise nel tempo e nello spazio: ogni immagine è contraddistinta da una coordinata che la posiziona con esattezza in un dato luogo di un dato giorno a un dato minuto. Come afferma Nicholas Mirzoeff nel suo Visual Culture “Il ‘click’ dello scatto cattura un istante del tempo che diventa immediatamente passato, ma che è, tuttavia, la cosa più vicina alla conoscenza del presente”. La sequenza quindi non ha un andamento narrativo, ma si allarga in una serie di vedute simultanee, orizzontali, che godono di quella nitidezza che la sospensione di giudizio nella composizione di un quadro generale sul tema sa conferire. Senza nostalgia, senza denuncia, ma con tutta la potenza che hanno i documenti, queste immagini parlano di quel momento in cui architetti e urbanisti hanno desiderato dare indicazioni su come abitare, come camminare, come condividere gli spazi, e sulle modalità con le quali poi le persone hanno sovrapposto a questi disegni, modificandoli, le proprie storie, abitudini, necessità.

L’uomo tanto spesso censurato nelle fotografie di architettura, ci spia da dietro le tende di una delle finestre tonde del complesso Cielo Alto di Cervinia, definendo il gioco di triangolazione necessaria alla vita di queste immagini: architettura, abitante, osservatore. Nella grande dimensione dove ci si aspetterebbe di vedere sfumare il dato individuale, appare la singolarità dell’eccezione, poiché è proprio nella ripetizione geometrica del tutto uguale che spicca la diversità. Così a popolare gli scatti non sono solo presenze schive, ma soprattutto abitanti radicati in quegli spazi pensati per accogliere il popolo brulicante immaginato dal Movimento Moderno e oggi invece rifugio di una somma silenziosa di individualità. A fronte di un ritrovato interesse generale, forse più culturale che progettuale, per i destini delle periferie italiane, Mantovani ci conduce lucidamente nella dignità di questi spazi collettivi oggi dimorati da solitudini. Dalle immagini traspare in filigrana la storia di una serie di esperimenti sul progetto dell’autonomia. Come nota Sara Marini nel testo introduttivo, in questi manufatti l’architettura si sarebbe dovuta fare città replicandone le macro-dinamiche naturali in micro-cosmi direzionati.
I dieci casi fotografati riportano al centro la domanda su quali presupposti ed elementi determinino uno spazio come collettivo, sottolineando le molteplici risposte che questi esperimenti architettonici hanno delineato. Accumunate dalla tensione di voler coniugare il dato teorico e la città, le realizzazioni del progetto si sono poi evolute in storie difformi dalle idee dalle quali erano partite. Riprodurre a priori la complessità del vivere urbano si è spesso tradotto in una sperimentazione tronca. I luoghi della collettività, che notoriamente dovevano essere designati a ospitare servizi e a generare qualità spaziale, non sono stati realizzati o sono caduti inesorabilmente in disuso, talvolta riassorbiti come nuove cellule da occupare e abitare, portando questi luoghi a costituire delle vere e proprie isole manchevoli di un’infrastruttura sociale in grado di renderle realmente autosufficienti e atte a mantenere le promesse di un’architettura che aveva buone intenzioni (Colin Rowe, The architecture of Good Intentions, Academy Edition, London 1994).

Dai primi progetti ottocenteschi di Charles Fourier e Jean Baptiste Godin, fino alle citazioni del mito lecorbusieriano, suggestioni dalla cultura architettonica sul tema e da letture parallele come l’High-Rise di James G. Ballard o La vie mode d’emploi di George Perec, si affastellano nelle profondità delle immagini, ma quello che poi ne riemergere sono fotografie che dialogano con il presente, il cui spirito descrittivo non è da intendersi come una volontà di distanziarsi asetticamente dal tema, ma testimone di quanto la sola scelta di inquadrarne l’argomento, comporti di per sé una presa di posizione.

In Cento case popolari riemergono l’antico ruolo dell’architettura come unità di misura del territorio e dell’uomo come unità di misura dell’architettura. Entrambi sono spesso ripresi da un punto di vista più alto del consueto, che porta lo sguardo a volare sugli oggetti, evidenziandone le logiche che li sostengono. Ampie vedute si alternano tra le pagine a inquadrature ravvicinate, rapite da un dettaglio che la fotografia raccoglie come l’indizio di una storia più lunga e articolata. Le linee delle architetture sono convogliate nelle fotografie di Mantovani su prospettive inusuali, che riescono a interpretare paesaggi di scale diverse senza lasciarsi coinvolgere da dimensioni e situazioni spaziali difficili da addomesticare, ma lasciandone trasparire una lettura architettonica pulita e senza distorsioni.

Fig.9 Fabio Mantovani, Cento case popolari, Quodlibet Studio, Città e paesaggio, Macerata 2017, 152 pp.
Fig.9 Fabio Mantovani, Cento case popolari, Quodlibet Studio, Città e paesaggio, Macerata 2017, 152 pp.
Come riporta Piero Orlandi nella postfazione, a sua volta un ulteriore ed esauriente viaggio nel Viaggio in Italia, Fabio Mantovani si trova ripercorrere le tracce di itinerari celebri che rimbalzano tra fotografia e letteratura, con l’aggiunta di nuove mete e direzioni, ma soprattutto con la capacità di mettere a punto uno strumento attraverso il quale interrogare queste porzioni di città. Afferma Piero Orlandi: “Il fotografo vuole dare a chi guarda i suoi scatti la possibilità di capire. È questo stile di indagine che ha fatto dire che è grazie alla fotografia che conosciamo la gran parte delle architetture di cui parliamo, e che in realtà non abbiamo mai visto”.
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