Un Baedeker europeo

La Fondazione Mies van der Rohe ha prodotto un’operazione editoriale eccezionale: 800 pagine con gli esiti di tutte le edizioni del premio istituito nel 1988. È un viaggio tra le “migliori” architetture che nella loro diversità hanno contribuito a conformare il territorio europeo.

Celia Marín Vega, Marina Romero (eds), Atlas. Contemporary European Architecture, Fundació Mies van der Rohe, Barcelona 2016, pages 864.

 

In occasione della celebrazione dei trent’anni dalla ricostruzione del padiglione Barcelona di Mies, la fondazione a lui dedicata pubblica in un tomo monumentale di oltre 800 pagine gli esiti di tutte le edizioni del premio istituito nel 1988.

Un’operazione editoriale eccezionale, oggi soprattutto, giustificata dal fatto che dal 2001 l’iniziativa, inizialmente concepita dalla Fundació Mies van der Rohe, è diventata il premio ufficiale dell’architettura nell’Unione Europea e che quindi gode del sostegno del programma Creative Europe. Un premio che fin dagli esordi ha avuto come fondamenti eccellenza, diversità e dimensione urbana, quest’ultima da intendere programmaticamente come contributo alla “sopravvivenza della città europea”. In ogni edizione la giuria, diversa di volta in volta, individua quattro finalisti, un progetto vincitore e, dal 2001, un architetto emergente: negli anni il raggio di indagine è andato allargandosi in parallelo alla crescita dell’Unione Europea, dai 70 progetti segnalati nel 1998 ai 420 dell’ultima edizione 2015.

 

L’imponente lavoro di classificazione restituisce quindi in forma di atlante, cioè di conoscenza sistematizzata, i 2.881 progetti (segnalati, finalisti, vincitori) raggruppati in quattro macro categorie (residenza, società, struttura, produzione e consumo). Mappe e diagrammi forniscono un numero rilevante di informazioni – anche in serie storica –, come la distribuzione per paese e per programma, la localizzazione territoriale e nel contesto urbano, o le indicazioni relative alla dimensione degli interventi. Altrettanto interessanti i dati relativi ai progettisti, che ci ragguagliano, tra altro, su mobilità e dimensione degli studi, titolarità, classificazione per genere ecc. Tutte informazioni che contribuiscono a comporre con un primo, significativo inventario dell’architettura europea, da cui partire per analisi e riflessioni ulteriori, alcune delle quali suggerite dagli stimolanti contributi che accompagnano la lettura dei progetti.

Queste tre decadi hanno visto una trasformazione radicale della città, anche europea, come sottolinea il geografo Francesc Muñoz, e una crisi profonda nelle interpretazioni unitarie che l’architettura ha dato del fenomeno urbano. Pur nell’estrema diversità dei contesti tipologici e topologici entro cui si dispiegano i progetti segnalati, Muñoz riconosce come tratto comune la capacità di incidere sia fisicamente nello spazio urbano che in quello relazionale del contesto sociale. Ma non dobbiamo confondere l’inventario con la mappa attendibile delle trasformazioni urbane in Europa. Se ad esempio potrebbe essere comprensibile il fatto che il programma maggiormente rappresentato nel premio sia costituito dalla cultura in senso lato (assolutamente preponderante se includiamo anche quello educativo), colpisce, come evidenziano Muxì e Montaner, la scarsa attenzione – pure in presenza di realizzazioni significative –  concessa nelle diverse edizioni ai progetti residenziali collettivi, una responsabilità ascrivibile a giudizi ancora eminentemente formali.
Valutazione ancora più complessa è quella della consistenza delle rappresentazioni nazionali: induce a riflettere la scarsa incisività di quella italiana, capace di esprimere in 14 edizioni solo tre finalisti, due dei quali stranieri…  Certo bisogna tenere conto che la storia del premio va di pari passo con l’agenda politica europea, innanzitutto con l’ampliamento della base territoriale di riferimento (e quindi per ragioni solo squisitamente politiche esclude l’imprescindibile elaborazione degli architetti svizzeri). Ma l’influenza si dispiega ovviamente anche nel complesso e delicatissimo meccanismo di giudizio e, ancor più, di selezione, che include oggi gli ordini professionali nazionali accanto ai musei di architettura e a liste di “esperti”, difficili da definire in un momento in cui pare dissolto l’orizzonte culturale comune evocato da Dietmar Steiner.
Steiner abbozza sotto forma di narrazione personale una mappa ormai storica della cultura architettonica europea, ricordando i legami costruiti sulla base di rapporti di stima personali che hanno unito tanti protagonisti del progetto, teorici e progettisti, storici e critici, dall’Italia alla Spagna, dalla Svizzera all’Austria alla Germania al Portogallo: un fermento culturale unico, che negli anni Ottanta fece di Barcellona – metropoli colta, cosmopolita, partecipativa e aperta – il paradigma della città europea per eccellenza e che coagulò nel premio dedicato a Mies van der Rohe. Quel premio che ancora oggi si ripromette di incoraggiare la qualità dell’architettura e di contribuire allo sviluppo dell’identità europea contemporanea, con un invito al viaggio tra le “migliori” architetture che nella loro diversità hanno contribuito a conformarne il territorio.
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