Vergara, da lungo tempo cittadino newyorchese, ha fotografato il World Trade Center dai tempi della costruzione, alla fine degli anni Sessanta, per tutto l'arco della sua esistenza – dismissione compresa – e nella lunga fase di ricostruzione del sito. Da punti di vista distanti, come il Bronx e Newark o il New Jersey, le torri occupano un posto particolare nel profilo della città, di solito una presenza istantaneamente riconoscibile contro l'orizzonte lontano, che fa da sfondo agli edifici in primo piano e al movimento locale nelle strade sottostanti. Questa quarantennale cronaca dell'ascesa, della caduta e della rinascita del sito del World Trade Center è ora il tema di una retrospettiva aperta fino a dicembre al Museum of the City of New York.
Camilo José Vergara: Quando ho iniziato a fotografare la costruzione del World Trade Center nel 1970 ero appena arrivato da Rengo, una città di provincia del Cile la cui modesta popolazione avrebbe facilmente trovato posto in una sola delle torri. Fui immediatamente attratto dalle torri perché erano così enormi e così americane. Dato che venivano su con l'intenzione di diventare gli edifici più alti del mondo, anche se la guerra del Vietnam stava ancora infuriando, le consideravo un'espressione sfrenata di hybris, di arroganza e di priorità malintese, cosa che sottolineai fotografandole sullo sfondo di senzatetto in primo piano oppure alla cruda luce del sole, che le trasformava in lame d'acciaio scintillante. Avevano una forma così razionale. Osservarle nel contesto più prossimo, mentre salivano per raggiungere l'intera altezza, rendeva violentissimo il contrasto con tutto il resto.
Fotografare l'ambiente urbano è il mio lavoro, ma anche gli altri hanno da raccontare la storia del luogo. Ogni nuova generazione vuole conoscere il senso del luogo e le immagini hanno una parte molto importante nel raccontarne la storia. La domanda allora diventa: quali immagini si devono creare per rendere comprensibile un luogo alle generazioni che verranno e che vorranno conoscerlo? Alte trenta piani le torri sarebbero state delle curiosità: sarebbero scomparse nel paesaggio urbano. Ma erano gli edifici più alti di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Oggi succede in tutto il mondo, ognuno degli edifici più alti del mondo presto viene superato. A mano a mano che mi allontanavo da questi mastodonti per fotografarli da quartieri distanti, sembravano perdere solidità e diventare forme misteriose, affascinanti e fantastiche, incombenti all'orizzonte su un contesto altrimenti normale. Ho metodicamente fotografato le Torri gemelle da luoghi come la riserva naturalistica di Jamaica Bay, nel Queens, e le zone turbolente del Bronx. Mi piaceva vederle sullo sfondo delle mie fotografie, alte sugli specchi d'acqua, sulla vegetazione, sui depositi dei rifiuti, sulle autostrade, sui sottopassaggi e sulle normali case che stavano in primo piano ed erano il mio interesse principale.
È vero che la maggior parte della gente ammette questa ambivalenza. Le torri non gli piacevano, ma le riconoscevano istantaneamente: grazie a loro si sapeva sempre dove si era.
Le torri cambiavano aspetto secondo la distanza, le condizioni meteorologiche, il tipo di luce e quel che c'era in primo piano. Il primo piano è sempre stato un fattore importante del mio modo di guardare queste foto: con le case e altre superfici solide che non incidono sul profilo lontano dell'orizzonte. C'era in esse qualcosa di burocratico. Ma a distanza sembravano luoghi di fantasia, immaginari. In primo piano c'era la vecchia storia della città, quartieri e appartamenti pacchiani, e in distanza le scintillanti torri del commercio.
Le torri venivano di fatto messe in ombra a mano a mano che davanti a esse sorgeva un numero crescente di edifici. In primo piano si raccontava un'altra storia; e, quando le torri crollarono, l'orizzonte della città venne ancora una volta ridefinito. Quindi il cambiamento avvenne a entrambi i livelli: in lontananza e in primo piano. Perciò la città diventa un dialogo tra i quartieri in primo piano e l'orizzonte in distanza. Da fotografo abituato alle critiche per i miei intenti sociali sono lieto di poter dire che nessuno ha trovato da ridire né su questo lavoro né sulla mostra. Queste fotografie hanno arricchito la memoria del pubblico. La distanza viene apprezzata. È una cosa senza precedenti a New York: una mostra che riguarda 41 anni di storia cittadina, non solo l'arco di qualche mese intorno alla distruzione. E quindi sono stato molto contento di vedere che gli spettatori apprezzavano la lunga distanza e non la consideravano una pedanteria. Il pubblico vuole vivere l'estensione del tempo.
È vero che la maggior parte della gente ammette questa ambivalenza. Le torri non gli piacevano, ma le riconoscevano istantaneamente: grazie a loro si sapeva sempre dove si era. Le si poteva vedere di là del ponte; nel 2001, dopo il crollo, si vede la gente che guarda regolarmente il vuoto. Io di certo ho iniziato a vederle dopo tutte le immagini che ne ho scattato. Quando la notte chiudevo gli occhi vedevo le torri. Nostalgia o no, se si vive abbastanza a lungo accanto a qualcosa e poi questa cosa scompare, fa un certo effetto. L'evento stesso del 9 settembre ha dettato il futuro del luogo. Il modo in cui oggi viene ricostruito – l'ambizione, la scala – è determinato dall'evento.
Personalmente trovo i nuovi edifici sconvolgenti. Forse come complesso di cinque edifici li apprezzerei di più ma mi pare difficile immaginare che entrino nel regno della fantasia come il World Trade Center. Per il momento mi sembra una struttura estremamente ostile. Mettiamola a confronto con il palazzo di Gehry (Spruce Street 80), dove la luce gioca facendolo brillare: un'opera d'architettura che ti fa sorridere. Questa stronzata no!
fino al 4 dicembre 2011
Museum of the City of New York
1220 Fifth Avenue, New York