Camilo José Vergara: le Twin Towers e la città

Un cronista dello spazio urbano ha documentato la vita del World Trade Center per decenni: dal cantiere alla sua esistenza, dalla distruzione alla rinascita.

Per più di quarant'anni il fotografo Camilo José Vergara ha documentato l'ambiente della città dedicando la sua attenzione alle situazioni urbane più difficili e al modo in cui le città cambiano nel tempo. Per sua stessa definizione "archivista del declino, fotografo di muri, edifici e isolati urbani", Vergara è stato il testimone delle aree delle principali città americane più duramente colpite da fenomeni urbanistici come la deindustrializzazione, la migrazione della borghesia bianca verso i quartieri residenziali suburbani e la miseria dei centri cittadini. Ma, con visite ripetute (talvolta a distanza di decenni) ai medesimi siti, Vergara ha fornito anche un panorama più sfumato di come i luoghi urbani si evolvano non solo per reazione a fattori esterni ma anche per una graduale ristrutturazione resa in parte possibile dalla capacità d'adattamento degli abitanti. Tra i suoi numerosi libri fotografici American Ruins, The New American Ghetto, How the Other Half Worships e la retrospettiva del World Trade Center: Twin Towers Remembered.

Vergara, da lungo tempo cittadino newyorchese, ha fotografato il World Trade Center dai tempi della costruzione, alla fine degli anni Sessanta, per tutto l'arco della sua esistenza – dismissione compresa – e nella lunga fase di ricostruzione del sito. Da punti di vista distanti, come il Bronx e Newark o il New Jersey, le torri occupano un posto particolare nel profilo della città, di solito una presenza istantaneamente riconoscibile contro l'orizzonte lontano, che fa da sfondo agli edifici in primo piano e al movimento locale nelle strade sottostanti. Questa quarantennale cronaca dell'ascesa, della caduta e della rinascita del sito del World Trade Center è ora il tema di una retrospettiva aperta fino a dicembre al Museum of the City of New York.
Qui sopra: vista di Lower Manhattan da Exchange Place, Jersey. Foto di apertura: vista dalla base del Manhattan Bridge, Brooklyn, 1986.
Qui sopra: vista di Lower Manhattan da Exchange Place, Jersey. Foto di apertura: vista dalla base del Manhattan Bridge, Brooklyn, 1986.
Alan Rapp: Perché hai iniziato a fotografare il World Trade Center fin dalle prime fasi di costruzione? Che cosa cercavi, che cosa ti interessava, come fotografo, in questo arco di tempo?
Camilo José Vergara: Quando ho iniziato a fotografare la costruzione del World Trade Center nel 1970 ero appena arrivato da Rengo, una città di provincia del Cile la cui modesta popolazione avrebbe facilmente trovato posto in una sola delle torri. Fui immediatamente attratto dalle torri perché erano così enormi e così americane. Dato che venivano su con l'intenzione di diventare gli edifici più alti del mondo, anche se la guerra del Vietnam stava ancora infuriando, le consideravo un'espressione sfrenata di hybris, di arroganza e di priorità malintese, cosa che sottolineai fotografandole sullo sfondo di senzatetto in primo piano oppure alla cruda luce del sole, che le trasformava in lame d'acciaio scintillante. Avevano una forma così razionale. Osservarle nel contesto più prossimo, mentre salivano per raggiungere l'intera altezza, rendeva violentissimo il contrasto con tutto il resto.
Vista da Simpson Ave., S. Bronx, 1989.
Vista da Simpson Ave., S. Bronx, 1989.
Quali tecniche hai elaborato per documentare le condizioni sociali dell'ambiente urbano? Che effetto avevano sulla composizione – per non dire sull'interpretazione – delle tue fotografie newyorchesi le caratteristiche di forte visibilità delle torri?
Fotografare l'ambiente urbano è il mio lavoro, ma anche gli altri hanno da raccontare la storia del luogo. Ogni nuova generazione vuole conoscere il senso del luogo e le immagini hanno una parte molto importante nel raccontarne la storia. La domanda allora diventa: quali immagini si devono creare per rendere comprensibile un luogo alle generazioni che verranno e che vorranno conoscerlo? Alte trenta piani le torri sarebbero state delle curiosità: sarebbero scomparse nel paesaggio urbano. Ma erano gli edifici più alti di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Oggi succede in tutto il mondo, ognuno degli edifici più alti del mondo presto viene superato. A mano a mano che mi allontanavo da questi mastodonti per fotografarli da quartieri distanti, sembravano perdere solidità e diventare forme misteriose, affascinanti e fantastiche, incombenti all'orizzonte su un contesto altrimenti normale. Ho metodicamente fotografato le Torri gemelle da luoghi come la riserva naturalistica di Jamaica Bay, nel Queens, e le zone turbolente del Bronx. Mi piaceva vederle sullo sfondo delle mie fotografie, alte sugli specchi d'acqua, sulla vegetazione, sui depositi dei rifiuti, sulle autostrade, sui sottopassaggi e sulle normali case che stavano in primo piano ed erano il mio interesse principale.
È vero che la maggior parte della gente ammette questa ambivalenza. Le torri non gli piacevano, ma le riconoscevano istantaneamente: grazie a loro si sapeva sempre dove si era.
Vista da un magazzino in disuso, Jersey City, 1970.
Vista da un magazzino in disuso, Jersey City, 1970.
Come funzionavano le torri dal punto di vista fotografico, in termini di scala, di geometria, di riflessi? Il loro dematerializzarsi nel cielo nonostante la loro massa non era paradossale?
Le torri cambiavano aspetto secondo la distanza, le condizioni meteorologiche, il tipo di luce e quel che c'era in primo piano. Il primo piano è sempre stato un fattore importante del mio modo di guardare queste foto: con le case e altre superfici solide che non incidono sul profilo lontano dell'orizzonte. C'era in esse qualcosa di burocratico. Ma a distanza sembravano luoghi di fantasia, immaginari. In primo piano c'era la vecchia storia della città, quartieri e appartamenti pacchiani, e in distanza le scintillanti torri del commercio.
Vista da Exchange Place, Jersey City, New Jersey, 1978
Vista da Exchange Place, Jersey City, New Jersey, 1978
In quale modo il fatto essere stato testimone di significativi cambiamenti del profilo cittadino, come la costruzione della Lower Manhattan (la parte più meridionale dell'isola) nel corso degli anni Settanta e Ottanta, condiziona il tuo modo di considerare un'identità urbana in relazione a una fotografia contemporaneamente urbanistica e architettonica? Le fotografie a scala urbanistica favoriscono in te e in chi le guarda la comprensione di concetti astratti come la politica spaziale e il senso del luogo?
Le torri venivano di fatto messe in ombra a mano a mano che davanti a esse sorgeva un numero crescente di edifici. In primo piano si raccontava un'altra storia; e, quando le torri crollarono, l'orizzonte della città venne ancora una volta ridefinito. Quindi il cambiamento avvenne a entrambi i livelli: in lontananza e in primo piano. Perciò la città diventa un dialogo tra i quartieri in primo piano e l'orizzonte in distanza. Da fotografo abituato alle critiche per i miei intenti sociali sono lieto di poter dire che nessuno ha trovato da ridire né su questo lavoro né sulla mostra. Queste fotografie hanno arricchito la memoria del pubblico. La distanza viene apprezzata. È una cosa senza precedenti a New York: una mostra che riguarda 41 anni di storia cittadina, non solo l'arco di qualche mese intorno alla distruzione. E quindi sono stato molto contento di vedere che gli spettatori apprezzavano la lunga distanza e non la consideravano una pedanteria. Il pubblico vuole vivere l'estensione del tempo.
Vista da Exchange Place, Jersey City, New Jersey, 2011
Vista da Exchange Place, Jersey City, New Jersey, 2011
Nonostante l'ambivalenza dei newyorchesi nei riguardi dell'espressività formale e della scala delle torri nell'arco della loro vita, la radicale violenza della loro assenza pare disorientarli ancor di più. Pensi che in certo qual modo una permanenza psicologica, quasi concretamente ottica, dell'immagine del WTC continuasse ad aleggiare dopo la distruzione? C'è in questo un collegamento con la potenza delle percezioni visive che oggi normalmente introiettiamo attraverso i linguaggi visivi?
È vero che la maggior parte della gente ammette questa ambivalenza. Le torri non gli piacevano, ma le riconoscevano istantaneamente: grazie a loro si sapeva sempre dove si era. Le si poteva vedere di là del ponte; nel 2001, dopo il crollo, si vede la gente che guarda regolarmente il vuoto. Io di certo ho iniziato a vederle dopo tutte le immagini che ne ho scattato. Quando la notte chiudevo gli occhi vedevo le torri. Nostalgia o no, se si vive abbastanza a lungo accanto a qualcosa e poi questa cosa scompare, fa un certo effetto. L'evento stesso del 9 settembre ha dettato il futuro del luogo. Il modo in cui oggi viene ricostruito – l'ambizione, la scala – è determinato dall'evento.
Sede di un ex rigattiere, oggi diventato una meta rituale per le coppie appena sposate che vengono qui a farsi fotografare, alla base del Manhattan Bridge, Brooklyn, 2010.
Sede di un ex rigattiere, oggi diventato una meta rituale per le coppie appena sposate che vengono qui a farsi fotografare, alla base del Manhattan Bridge, Brooklyn, 2010.
Come vedi il contesto sociopolitico dell'America urbana di oggi, mentre il nuovo WTC è in costruzione? Quali indicazioni fornisce al modo di guardare le città americane di oggi l'incombente realtà delle nuove, massicce costruzioni della Lower Manhattan?
Personalmente trovo i nuovi edifici sconvolgenti. Forse come complesso di cinque edifici li apprezzerei di più ma mi pare difficile immaginare che entrino nel regno della fantasia come il World Trade Center. Per il momento mi sembra una struttura estremamente ostile. Mettiamola a confronto con il palazzo di Gehry (Spruce Street 80), dove la luce gioca facendolo brillare: un'opera d'architettura che ti fa sorridere. Questa stronzata no!
Vista Sud dal Manhattan Bridge da East Broadway, 1970.
Vista Sud dal Manhattan Bridge da East Broadway, 1970.
The Twin Towers and the City: Photographs by Camilo José Vergara
fino al 4 dicembre 2011
Museum of the City of New York
1220 Fifth Avenue, New York

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