Fenomenologia del design

Interessato soprattutto a indagare i processi dall’interno, Giovanni Innella svela il meccanismo di un oggetto osservandolo attentamente, come un entomologo al suo microscopio.  

Giovanni Innella
Giovanni Innella sfugge. Negli ultimi due anni, ogni volta che abbiamo parlato via Skype, era in un luogo diverso del pianeta: Inghilterra, Thailandia, Giappone. Segue i suoi progetti di ricerca e, quindi, si trasferisce dove trova istituzioni che lo accolgano per sviluppare le sue idee. Ma il nomadismo fisico non è il reale indice del suo essere fuggevole: Innella rifugge da qualunque definizione univoca si voglia utilizzare per imbrigliare il suo pensiero. Il motivo risiede, probabilmente, nel fatto che la cosa che lo interessa più di ogni altra è indagare i processi dall’interno.
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Giovanni Innella: GeoMerce (project with Gionata Gatto), 2015. Photo Matteo Cremonini

È come un osservatore silenzioso che registra ogni minima mossa; un aiuto regista che carpisce il segreto del maestro e del suo protagonista scattando un’istantanea che rivela ogni paradosso o incertezza, ogni assurda liturgia del making of.

Le tipologie sono quindi l’ultimo dei suoi problemi: dell’oggetto svela il processo osservandolo come un entomologo al suo microscopio. E il processo non è solo quello che va dall’idea al prodotto, ma soprattutto quello che dal pezzo fisico arriva alla sua percezione.

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Giovanni Innella: GeoMerce (project with Gionata Gatto), 2015. Photo Matteo Cremonini

Domitilla Dardi: Partiamo dalla tua formazione. Hai frequentato due delle scuole più sperimentali degli ultimi vent’anni, Ivrea ed Eindhoven. Com’è andata?

Giovanni Innella: A Ivrea, in realtà, ci ho lavorato e non studiato. Ero all’interno di un’unità che si chiamava E1 dove si faceva ricerca per clienti esterni. Lì, mentre alcune persone inventavano Arduino, altri si occupavano di design concettuale. C’erano entrambi gli aspetti: chi lavorava sul lato ingegneristico e chi non aveva paura di essere chiamato artista.

Domitilla Dardi: E di Arduino parlavate? Eravate consapevoli della rivoluzione che stava avvenendo?

Giovanni Innella: Ovviamente non lo capivo all’inizio. Però con Arduino, nel 2005, ho inventato l’Rf Id Mon Amour. Era un kit che permetteva a chiunque di fare piccole mostre interattive. Qualsiasi designer, senza alcuna competenza tecnica, poteva fare dare vita a mostre interattive, senza dover chiedere niente a nessuno.

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Giovanni Innella: RollingStones, 2015. Photo: Guido Fassio

Domitilla Dardi: Un kit per diventare curatore di mostre multimediali. Nel tuo lavoro l’idea della mostra e della curatela tornano spesso. Come mai?

Giovanni Innella: Io vivo due vite progettuali: la prima che progetta oggetti; l’altra che cerca di articolare una critica al design in maniera visiva e materiale e prende il nome di “Design e il suo doppio”. Si tratta di un corpo di lavori che ho sviluppato dal 2008 in poi per riflettere sul design e criticarlo. Questa ricerca è iniziata a Eindhoven, dove ho avuto la fortuna di avere tra i miei mentori Barbara Visser, una delle principali artiste contemporanee in Olanda. Lei mi ha fatto un grande regalo dicendomi: “Questa è l’arte, usala come vuoi”. E io l’ho usata sempre come strumento, ben consapevole di non essere un artista. Ma le tecniche e i processi dell’arte mi sono serviti per capire, osservare e criticare il design. Per cui, se tu guardi la “Skin of a Universale Chair” è in realtà l’uso di uno strumento critico per analizzare un’icona.

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Giovanni Innella: RollingStones, 2015. Photo: Guido Fassio

Domitilla Dardi: Hai immaginato di “scuoiare” una Universale.

Giovanni Innella: Esatto. Prendo oggetti, li ricopro di silicone e poi apro e dispiego la pelle che ne deriva. Il motivo per cui lo faccio è riflettere sul modo in cui rappresentiamo il design, sull’estetica della sua rappresentazione. Ho sempre pensato che la fotografia, che è il mezzo principale con cui rappresentiamo gli oggetti di design, fosse una grande truffa. La realtà è che, quando guardiamo la foto di un oggetto di design, più che guadare il progetto, guardiamo le decisioni che ha preso il fotografo per rappresentarlo. Io invece cercavo un modo per documentare gli oggetti, per archiviarli in maniera impersonale e oggettiva senza dare nessuna interpretazione soggettiva. Così il silicone fa per me quello che la pellicola fotografica fa per un fotografo.

Domitilla Dardi: Crei una pellicola fisica invece che di luce.

Giovanni Innella: Sì. Questo mi permette anche di fare un’altra cosa: decostruire l’oggetto, aprendolo e vedendolo tutto in una volta, senza più un fronte o un retro, un sopra o un sotto. È un’operazione “oscena”, nel senso che mostra più di quello che avresti potuto vedere. Queste pelli sono poi molto brutte, al contrario degli oggetti che loro documentano, che sono bellissimi. Quindi è una critica anche alla percezione estetica. E al consumo perché in realtà consumiamo molta più rappresentazione di design, che design vero e proprio.

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Giovanni Innella: Representation of a Design Magazine, 2008

Domitilla Dardi: Spesso hai lavorato sull’immagine e la percezione. In “Exhibition of Exhibitions” fai quasi una critica alla fenomenologia dell’esporre il design.

Giovanni Innella: Intorno al 2008, in Olanda, diversi musei mostravano il design: i vasi di Hella Jongerius erano esposti al Vanabbe, Studio Job alla Design House. Quindi quello che m’interessava era guardare al museo come luogo di produzione. Se è vero che il design viene consumato attraverso la rappresentazione, e se è vero che la mostra di design è una rappresentazione, allora il museo è un luogo di produzione dove questi oggetti di consumo vengono creati. Per questo mi sentivo autorizzato a coprire di silicone gli oggetti messi in mostra in questi musei ottenendo pelli che poi etichettavo con una didascalia.

Domitilla Dardi: Quindi includendo anche il plinto, la base, come fosse un tutt’uno.

Giovanni Innella: Sì, il plinto e anche parte del pavimento, oltre all’oggetto, venivano tutti ricoperti. Il risultato era che non c’era più contesto e oggetto, ma una cosa sola, che è quello che in realtà consumiamo. Non c’è più l’opera di un designer in un museo, ma “il-vaso-di-Hella-Jongerius-al-Van-Abbe-su-un piedistallo”.

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Giovanni Innella: Corredo, 2015. Photo Guido Fassio

Domitilla Dardi: Ma il designer è un critico?

Giovanni Innella: Secondo me sì, il designer è un critico prima di tutto dell'industria in cui opera. La mia laurea primaria era in disegno industriale, una disciplina interessante, perché prima di poter fare disegno industriale devi definire l'industria. Quando mi sono trasferito a Eindhoven, mi sono reso conto che l’industria del design non è necessariamente la fabbrica, che non mi ha mai chiesto di progettare nulla. L’industria può essere il museo o la rivista specializzata. La mia “industria” era quella e il motivo del “Design e il suo doppio” era capire questo interlocutore.

Domitilla Dardi: E dopo tanti anni l’hai capito?

Giovanni Innella: No, in tal caso farei più mostre e riuscirei a essere pubblicato di più!

Domitilla Dardi: Cos’è che ti sfugge?

Giovanni Innella: I ruoli. Ti faccio un esempio: il mio ultimo progetto, “Dowry”, il corredo, è una serie di stoviglie realizzate con la ceramica di Deruta. L’ho pensato, progettato e ho trovato chi lo realizzasse. Poi però mi è stato chiesto di organizzare il photoshooting, mandare il press kit, trovare un museo che mi facesse fare l’opening. Tutta questa parte, ho sempre pensato che non rientrasse nel mio ruolo e nessuno me l’ha mai insegnata. A me a scuola è stato insegnato a fare il disegno al CAD.

Giovanni Innella

Domitilla Dardi: E allora hai fatto progetti che mettono in mostra i ruoli di chi per mestiere mette in mostra? Mi riferisco alla sezione Design Critique del tuo sito, dove i progetti “Queens”, “Tunes”, “Graphs”, “Words” sono tutti una tua osservazione critica al sistema, a un micro mondo spesso autoreferenziale.

Giovanni Innella: È quello che chiamo il “Design Suprematism”. Il design, infatti, è quella cosa che salverà il mondo ma è anche il cocktail party dove si parla di cose leggere. In questo spettro c’è tutta quella retorica e quel linguaggio che vorrei cercare di dipingere. “Design Tunes”, per esempio, è un anti-manifesto in forma di album musicale. La parola design infatti è per noi designer un po’ come la parola amore per i cantanti: una cosa struggente e profondissima, ma anche una rima, una retorica.

Domitilla Dardi: Quanto di queste riflessioni critiche entrano poi nell'oggetto? Oppure si tratta di due mondi che hanno regole diverse e imparagonabili? Per esempio nel corredo non vuoi fare una critica alla condizione femminile della tradizione meridionale, no?

Giovanni Innella: No per niente. Il corredo parla di una tradizione che ancora esiste nel Sud Italia e del mio desiderio di farne un nuovo uso. Prima la dote del corredo era fatta di oggetti belli da chiudere in una vetrina; la mia soluzione invece mantiene l’impatto visivo e simbolico, ma, attraverso un aspetto formale diverso, può uscire allo scoperto e stare sempre in tavola. Anche il tavolo di marmo “Rolling Stones” si riferisce al passato, ai mobili in marmo ottocenteschi. Mi sono chiesto: se oggi dovessi fare un mobile di marmo, come lo farei? Lo farei che si sposta facilmente. Così, quando si crea un problema, cerco di trovare una soluzione.

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Giovanni Innella: Burkina Chair, 2011

Domitilla Dardi: Quindi hai un atteggiamento progettuale totalmente diverso tra Design critique e Design practice.

Giovanni Innella: Il design del prodotto è un po’ un rebus al contrario: i rebus ti danno delle immagini e devi arrivare alla parola, mentre qui dalla parola devo arrivare all’immagine.

Domitilla Dardi: Quando progetti, lo fai pensando a una persona in particolare?

Giovanni Innella: Sì, cerco sempre un interlocutore. Per esempio, “Design-a-fortune” era progettato per un signore che gestiva un ristorante cinese a Newcastle e aveva quattro problemi: le mance basse, le poche recensioni su Tripadvisor, gli avventori che non ordinavano il dolce della casa e, l’ultimo, che non succedeva mai nulla d’inaspettato. Così decisi di progettargli dei fortune cookies che in qualche modo cercavano di risolverli. Per esempio uno conteneva la frase: “Una generosa mancia al nostro cameriere Jason è un investimento per la tua felicità”.

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Giovanni Innella: Design Queens, 2014. Li Edelkoort

Domitilla Dardi: Alla fine, arriviamo alla conclusione che l’interazione di base è più umana che tecnologica.

Giovanni Innella: Sì, assolutamente. Squisitamente umana. Il design per me è un modo per comunicare e infatti sono andato alla Design Academy perché volevo avere una mia voce; poi mi sono accorto che in realtà desideravo qualcuno con cui dialogare.

Domitilla Dardi: In Geomerce hai collaborato, infatti, con Gionata Gatto e ne è nato un lavoro molto complesso. Avete analizzato la produzione agricola di piante capaci di estrarre dal terreno metalli pesanti, in modo da purificarlo, e in più ottenere reddito dal commercio di questi materiali.

Giovanni Innella: GeoMerce ha in sé un meta-significato basato su un’analisi di cos’è il valore, cos’è il capitale. Ci interessava entrare nel merito del processo, ma analizzandolo dall’interno. Non volevamo una critica asettica ed estranea, ma utilizzare un metodo di analisi per proporre una soluzione. Per questo è un progetto che unisce Design critique e Design practice.

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Giovanni Innella: Design Queens, 2014. Rossana Orlandi

Domitilla Dardi: Un progetto tecnologico e visionario al tempo stesso. Secondo te la tecnologia genera immaginazione o l’immaginazione produce tecnologia?

Giovanni Innella: Nel mio caso la tecnologia genera immaginazione, perché non ho la capacità di svilupparla autonomamente. Credo che la nostra società produca molta tecnologia, che noi però sotto-utilizziamo. Per esempio con la radio a valvole potevamo fare ancora tantissime cose, ma non abbiamo avuto il tempo di svilupparle perché qualcuno ci ha prontamente dato “tecnologia nuova”. Per attivare l’immaginazione ci vuole il tempo di entrare nei processi. Anche per comprenderli e criticarli. Forse è per questo che l’industria, in cerca di risultati rapidi, non ha bisogno di chi fa questo tipo di lavoro. E quindi io vivo con le valige pronte, sempre disposto ad andare dove un ente di ricerca mi consenta di fare domande e immaginare risposte. Come sta facendo l’Advanced Institute of Industrial Technology in questo momento.

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