Fluxus e le domeniche della vita

In occasione della mostra “Fluxbooks”, l’imprenditore tessile Luigi Bonotto racconta a Domus il suo ménage con gli artisti del gruppo lungo i sentieri della più sfrenata sperimentazione artistica.

Fluxbooks
La formula è quella del pre-socratico e ginnico “tutto scorre”.
Il presupposto invalicabile: che arte e vita debbano necessariamente viaggiare lungo le stesse rotaie, fino a fondersi l’una nell’altra. Più che un movimento o un’etichetta, Fluxus è stato un clima, un’atmosfera, uno spettacolo dal repertorio, più spesso che no, mordace e urticante, la cui eco dalla cadenza ostinata e impudente si può dire oggi perduri, esagerando un pochino, nella collezione del capitano di ventura del tessile Luigi Bonotto.
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In apertura: ritratto Luigi Bonotto. Sopra: Fondazione Bonotto, biblioteca di Poesia Visiva: Sarenco, The Sentimental Journey of the poet: an African dream
Fluxus è la cosa che Bonotto più ha goduto. Nella sua casa di Molvena, un rifugio inselvato nel cuore della campagna vicentina, ha accalappiato e ospitato, a partire dagli anni Ottanta, un ménage inverosimile di artisti Fluxus dal temperamento nomade, per non dire vagabondo, seguendone l’estro e camminando con loro, sempre un passo indietro, lungo i sentieri della più sfrenata sperimentazione artistica. I ricordi accumulati in quegli anni sono in parte raccolti in questa intervista.
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Fluxbooks, Book as object
Ilaria Bombelli: Un cappello di paglia: poche imprese famigliari possono concedersi il lusso di avere un’immagine così bella da annodare alle proprie radici. La sua storia inizia, in un qualche modo, anche da qui…
Luigi Bonotto: È così. Il marchio Bonotto esiste dal 1912, quando i miei nonni decisero di aprire a Marostica una fabbrica di cappelli di paglia. Negli anni Cinquanta la fabbrica raggiunse l’apice della sua produzione (Hemingway era un nostro cliente e ricordo il Cappello del Futurista disegnato da mio padre Giovanni, con molte aguzze guglie di paglia). Ma l’industria stava prendendo il sopravvento, i cappelli di paglia iniziavano a irritare gli automobilisti di fresca data, finché negli anni Settanta l’attività terminò. Io, nel frattempo, ero stato mandato da mio padre dai Marzotto, in Val d’Agno, a imparare la lavorazione della lana (fu grazie al Premio Marzotto che coltivai i primi contatti con l’ambiente artistico dell’epoca, in particolare di area astratta). Nel 1972 convertii l’azienda del nonno in una manifattura tessile fondando il Lanificio Bonotto. Una “casa capannone” che ha ospitato a decine artisti Fluxus e di Poesia Sperimentale provenienti da tutto il mondo, le cui opere sono oggi esposte all’interno della stessa fabbrica. I miei operai, che lavorano su telai e macchine per lavare e tingere d’inizio secolo, o addirittura del Settecento, possono alzare la testa e allungare lo sguardo su un’opera di Nam June Paik, di Giuseppe Chiari o di Joseph Beuys. Molti di loro, negli anni, hanno anche avuto modo di collaborare con diversi artisti Fluxus, in un reciproco scambio di competenze.
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Fluxbooks, Knowles Bean Rolls

Ilaria Bombelli: Quale crede sia l’artista che più ha “fatto colpo” sui suoi lavoratori?

Luigi Bonotto: Credo che Ben Patterson più di ogni altro li abbia accolti nel suo mondo. Era sempre in vena di scherzi, diversamente da Eric Andersen, che al contrario aveva una personalità molto schiva. Philip Corner era un casinista: un giorno, di punto in bianco, era l’estate del 1995, decise di fare una performance all’interno della fabbrica. Ci fece avvinghiare, dirigenti e operai, in una lunga catena umana attorno ai telai, mentre lui li attraversava accendendone uno alla volta: ogni telaio produceva un suono diverso a seconda del prodotto che stava realizzando. Il titolo della performance era “Posso passeggiare ascoltando il mondo come un concerto” [ride].

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Fluxbooks, George Maciunas, Fluxyearbox 1, 1967

Ilaria Bombelli: George Brecht, uno dei più importanti artisti del primo Fluxus, diceva che ognuno ha la propria idea di ciò che Fluxus è stato. Lei come lo definirebbe in una parola?

Luigi Bonotto: Un vento primaverile, frizzante e creativo, che ha soffiato per il mondo per alcuni anni, investendo e travolgendo solo chi da quel vento si è lasciato scuotere.

Ilaria Bombelli: E, nello specifico, cosa è stato per lei Fluxus?

Luigi Bonotto: Dico sempre che per me Fluxus è stato “la domenica della mia vita”.

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L'ingresso degli uffici della Bonotto Spa. Le opere presenti nella foto sono, da sinistra verso destra: Philip Corner, Fluxus = Free Speech; Nam June Paik, The Baseball Player; appese alla parete di fondo, alcune opere di Ben Vautier; a destra di Paik, George Brecht, The Paradox Shirt. Questa foto rappresenta l'ingresso nella Collezione delle nuove generazioni di artisti, che vanno ad unirsi agli storici esponenti – e in molti casi veri e propri fondatori dell'arte Fluxus e Sperimentale (quali sono, appunto, artisti come Brecht, Corner, Paik, Vautier...).

Ilaria Bombelli: Qual è stata la prima opera di cui è venuto in possesso, la “numero uno”?

Luigi Bonotto: È una domanda che sinceramente non mi sono mai posto. Forse un’edizione di Marcel Duchamp, una comunissima piletta da doccia, di quelle che consentono lo scolo dell’acqua di un lavaggio, ma in argento.

Ilaria Bombelli: È un oggetto che si presta a molte allegorie e simbolismi. È per lei oggi solo un ricordo o crede che, come per Paperone, abbia agito in un qualche modo da amuleto portafortuna, vista la ricchezza rappresentata dalla sua collezione oggi?

Luigi Bonotto: Per la verità, l’ho venduto quasi subito.

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Fondazione Bonotto, uffici al primo piano. In primo piano: Emmett Williams, Untitled

Ilaria Bombelli: Perché? In fondo, il papà di Fluxus, George Maciunas, affermava che Fluxus era proprio una “fusione di Spike Jones, di vaudeville, gag, giochi per bambini e di Duchamp”…

Luigi Bonotto: La mia collezione stava prendendo una piega diversa.

Ilaria Bombelli: Ma è vero che ha sfidato Duchamp a una partita a scacchi?

Luigi Bonotto: Sì, nel 1965. I giocatori di scacchi sono personaggi assurdi. Ricordo un individuo che rimaneva seduto immobile davanti alla scacchiera anche dodici ore di fila, alimentandosi solo con un uovo fresco che repentinamente agguantava e beveva senza cambiare la sua posizione di gioco [ride]. Una sera andai al Circolo Scacchistico di Milano, dove il caso volle si trovasse anche Duchamp. Appena lo vidi non persi tempo e lo sfidai. Mi annientò dopo nemmeno quindici mosse. Lo rividi altre volte, ma non gli chiesi mai più di giocare a scacchi.

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Fluxbooks, Brecht Water Yam

Ilaria Bombelli: Però ha giocato a scacchi con Yoko Ono…

Luigi Bonotto: Sì, su una bianca scacchiera di bianche pedine, senza veramente competere però... Era quello il senso del lavoro.

Ilaria Bombelli: Qual è l’opera che avrebbe voluto nella sua collezione e che non è riuscito ad avere?

Luigi Bonotto: Un’opera che, per la verità, apparteneva già alla mia collezione e che sono stato costretto a cedere: quello che viene considerato il primo tableau piège di Daniel Spoerri. Mia madre era molto credente (era stata la segretaria del vescovo di Vicenza) e si lamentava sempre del fatto che in fabbrica non ci fossero opere religiose. Mi convinse a barattare la prima tavola di Spoerri con un’altra sua opera, Il buon pastore: un arazzo con raffigurato un branco di alci e una figura antropomorfa in legno con un lungo pene tortile in bella vista. Feci lo scambio, a malincuore, ma devo dire che mia madre non ne rimase molto entusiasta… E, per la verità, nemmeno il vescovo quando venne in visita alla fabbrica!

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Luigi Bonotto (a sinistra) e Julien Blaine

Ilaria Bombelli: Con quale artista Fluxus si è sentito più umanamente vicino?

Luigi Bonotto: Sicuramente Ben Patterson. Lo ospitai per mesi interi. Ricordo che un giorno perse l’equilibrio, ruzzolò giù per le scale e cadendo si aggrappò alla cassetta della posta in bronzo di Nam June Paik (Voyeur’s Mail Box, 1990) trascinandosela addosso e procurandosi anche qualche taglio. Un altro giorno lo trovai mentre armeggiava nel vano che conduce alla mia camera da letto. “Cosa fai?”, gli chiesi. “Devo proteggerti”, mi rispose serissimo, e fu così che lentamente iniziò a trasformare questo vano di pochi metri quadrati in una “stanza magica” (Magic Room, 1994-1996), tappezzando le pareti con immagini di ogni sorta e collegando a ogni porta un circuito elettrico che solo la giusta combinazione di immagini poteva azionare, consentendo lo sblocco della serratura. Ha trafitto il soffitto di coltelli incidendo la sua biografia. Solo il pavimento è rimasto spoglio, ma avrebbe voluto distruggere anche quello per farne una vasca da bagno! Fu l’unica cosa che gli proibii.

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Fondazione Bonotto, corridoio: (a sinistra) Achille Cavellini Cassa N°303, (a destra) Sarenco, No reproduction, please, Lamberto Pignotti Non vi piace forse?

Ilaria Bombelli: C’è una fotografia in cui fa braccio di ferro con Dick Higgins. Entrambi ridete a crepapelle. Che ricordo ha di Higgins?

Luigi Bonotto: Era un grande oratore, poteva parlare per giornate intere. Per molti anni è stato il mio consigliere, è lui che mi ha aiutato a mettere insieme la grande collezione di libri Fluxus (e di Poesia Sperimentale) che, fino al 26 aprile, è esposta alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia nella mostra “Fluxbooks”.

Ilaria Bombelli: Come la definirebbe?

Luigi Bonotto: Usando le stesse parole che usò La Monte Young per descrivere quella che è considerata la pubblicazione Fluxus più importante: “An Anthology of Chance Operations, Concept Art, Anti-Art, Indeterminacy, Improvisation, Meaningless Work, Natural Disaster, Plans of Actions, Stories, Diagrams, Music, Dance Constructions, Compositions, Mathematics, Poetry, Essays”. È una mostra divisa in cinque sezioni: Book as Book (libri dalle grafiche sperimentali), Book as Memento (libri come testimonianza di una performance, un evento), Book as Plot (libri come canovacci di un’azione o un gioco), Book as Box (libri contenitori di sorprese), Book as Object (libri che diventano oggetti). Una raccolta che va dal manuale di micro rivoluzioni di Yoko Ono (”Grapefruit”, 1964), ai “Flux Reliquary” (1973) contenenti “cimeli pseudo-religiosi” di Geoffrey Hendricks, agli “Optimistic Box”, con all’interno sassi, foto erotiche e un porcellino salvadanaio in ceramica rosa, di Robert Filliou (1968-1981).

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Bonotto Spa, ingresso della Fondazione Bonotto: (opere da sx) Emmett Williams, Labyrinth, Pierre Garnier, Navigation, Pierre Garnier, Sonnet sur la mer, Emmett Williams, Untitled

Ilaria Bombelli: Questi libri (o anti-libri), imbottiti d’istruzioni per l’autodistruzione, pillole analgesiche o sacchette di sangue, sono esposti all’interno di spesse vetrine sigillate, anche se questo pare disattendere lo spirito Fluxus e la natura direi quasi autolesionista di questi oggetti...

Luigi Bonotto: Hai ragione, ma devi considerare il loro valore quasi inestimabile.

Ilaria Bombelli: Oggi la sua collezione galleggia nel cyberspazio: è completamente visitabile online dal sito della Fondazione Bonotto, oltre che essere spalmata in ogni angolo della sua casa e della sua azienda. L’artista Fluxus Robert Filliou nascondeva le proprie opere in un cappello di carta. Quando tirerà fuori la sua collezione dal cappello, dove s’immagina o sogna di vederla?

Luigi Bonotto: Anni fa comprai uno spazio a Bassano per farne un centro museale, ma poi non riuscimmo a ottenere le autorizzazioni. Oggi non m’immagino più un luogo fisico, ma un grande video interattivo dove le persone possono far fluttuare davanti ai loro occhi tutte le opere che desiderano.

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