Ma gli androidi sognano un'estetica elettrica?

Introdotta da James Bridle quasi in punta di piedi poco più di un anno fa, la New Aesthetic, o l'esplosione del digitale nel mondo reale, è un raffinatissimo prodotto del nostro tempo. Molto più "umano" di quanto non sembri a prima vista.

Anti-manifesto
La New Aesthetic è stata introdotta [1] da James Bridle quasi in punta di piedi poco più di un anno fa, ed è oggi uno dei temi più dirompenti nel dibattito sulla cultura visuale contemporanea. La diffusione internazionale di questo interesse critico nei confronti della zona di transizione tra reale e digitale, tra fisico e virtuale, tra uomo e macchina ha subìto una decisa accelerazione lo scorso marzo, con l'epico saggio di Bruce Sterling su Wired, che ha scatenato una serie di interessantissime reazioni a catena [2] nel mondo della cultura e delle arti visive tra difensori e ridimensionatori di questa "cosa". Bridle non è partito con un manifesto o con una perentoria dichiarazione d'intenti. Al contrario: ha semplicemente posto la questione, creando una piattaforma di approfondimento per link e immagini col medium più opportuno, Tumblr. Un'impostazione volutamente più da "curatore" che da "teorico": l'azione di micro-blogging è stata d'immensa utilità nel descrivere in progress qualcosa di cui Bridle, per sua stessa ammissione, il 6 maggio 2011, aveva solo una vaga idea. Infatti la New Aesthetic – o, in termini new-estetici: #NA – non è e non è mai stata qualcosa di completamente definito né, tantomeno, un movimento [3]. Bridle è perfettamente consapevole che la materia di cui ha, quasi involontariamente [4], coniato il nome è stata, fin dall'inizio, un'ipotesi di lavoro, una felice intuizione che si sta arricchendo di contenuti man mano che viene condivisa e rilanciata attraverso la rete. Questa è la prima vera novità della New Aesthetic: il fatto che sia un embrione di teoria in crowdsourcing, tutt'ora in corso di articolazione. È straordinario osservare gli effetti del suo "farsi" in tempo reale, attraverso la rete, in un dibattito live a scala planetaria a cui tutti possono assistere e, almeno potenzialmente, dare un contributo. È la prima volta che una cosa del genere accade a livello globale e questo per la #NA è già di per sé un risultato di grande rilievo. Il problema a questo punto è che – come Bridle ha spesso osservato – forse la stessa definizione "The New Aesthetic" è un poco imprecisa. E lo è sia dal punto di vista semantico sia da quello concettuale.
Kraftwerk, copertina del disco <i>Electric Cafè</i>
Kraftwerk, copertina del disco Electric Cafè
Le parole sono importanti
Chiamare questa novel thing col termine "The New Aesthetic" può condurre a fraintendimenti di principio, di cui si può discutere per ore se accettabili – ormai il termine è inesorabilmente lanciato – oppure no. Il limite – o se vogliamo anche il vantaggio – della New Aesthetic, come estetica, allo stadio di work in progress in cui oggi si trova, è la sua mancanza di struttura teorica. Si tratta di un embrione di teoria che sta prendendo forma per accumulo e reiterazione d'informazioni, attraverso una sorta di attacco di forza bruta da cui si presume possa scaturire una chiave di lettura. Una sommatoria di esempi concreti, una collezione di "ciò che potrebbe essere #NA", potenzialmente ampliabile all'infinito. In questo sono perfettamente d'accordo con quanto osserva Bruce Sterling:

"The New Aesthetic is a genuine aesthetic movement with a weak ae-sthetic metaphysics." [5]

Non so quanto volutamente, la #NA pare intendere "estetica" come una sorta di mood, di gusto: forse più vicina ad uno stile – all'insieme dei tratti formali che caratterizza un linguaggio nella sua epoca storica – che non a un'estetica vera e propria, allo studio del rapporto tra soggetto critico e oggetto con lo scopo di trarne giudizi di valore. E, proprio per questa mancanza di struttura, a ben guardare, assistiamo a ulteriori effetti collaterali. Infatti, qualche bel problema ce l'ha anche l'aggettivo "nuova": anche ammesso che il termine "estetica" sia opportuno, definire compiutamente questa "cosa" come nuova non è così scontato.

Poster della conferenza <i>The New Aesthetic: Seeing Like Digital Devices</i>, tenutasi il 12 marzo 2012 al Driskill Hotel di Austin
Poster della conferenza The New Aesthetic: Seeing Like Digital Devices, tenutasi il 12 marzo 2012 al Driskill Hotel di Austin
Il problema del "nuovo"
Ho già avuto modo di dire altrove che nulla si crea dal nulla. In evoluzione natura non facit saltus. Anche la natura umana obbedisce alle stesse regole: si va avanti per prove ed errori e si procede per piccoli o grandi passi, con una certa continuità. Accade così anche con le idee. Che però hanno un vantaggio: si muovono ed evolvono molto più velocemente rispetto al mondo biologico. Subiscono mutazioni e salti di paradigma anche nel corso di una stessa generazione. A volte, qualcuno è capace di guardare più avanti degli altri: reinterpretando, remixando ciò che ha a disposizione con risultati inediti. È per questo che, in campo artistico, molte produzioni o movimenti di avanguardia sono stati definiti con l'aggettivo "nuovo": il Dolce Stilnovo, l'Art Nouveau, la Neue Sachlichkeit, il Neorealismo, per citarne qualcuno. Si tratta di particolari, felici momenti storico-culturali in cui le cose cominciano a essere viste in modo diverso, da altre angolazioni. Spesso, queste nuove sensibilità sono nate interpretando o anticipando profondi cambiamenti nella società e nella tecnologia. Due esempi: è indubbio il rapporto strettissimo tra le avanguardie del primo Novecento e le innovazioni industriali e sociali dell'epoca della macchina; o quello tra la Pop-Art e i progressi epocali nel mondo della comunicazione e del marketing del secondo dopoguerra. Più ci avviciniamo ai nostri giorni, più il rapporto della sensibilità artistica nuova con il suo tempo diventa indissolubile: per assurdo, se mostrassimo un prodotto artistico d'avanguardia a un pubblico – anche colto – di cinquant'anni prima, probabilmente tale pubblico non avrebbe a disposizione gli strumenti critici e culturali per decifrare l'opera. Domanda: possiamo affermare, quindi, che in una prospettiva storica la New Aesthetic sia l'ultima delle tante New Aesthetics che si sono susseguite nel corso dei secoli, l'ultimo balzo in avanti di una fortunata serie? Non proprio: direi che stavolta le cose sono un po' più complicate. Prima di tutto abbiamo un problema serio: è davvero "new"? Si tratta davvero di avanguardia? Se ci guardiamo un po' indietro, infatti, la fascinazione delle arti e della cultura visuale per la sovrapposizione tra digitale e reale è tra noi ormai da almeno quattro decenni: chi conosce i Kraftwerk sa a cosa mi riferisco. Da allora, molte cose sono cambiate. Il digitale è diventato, col tempo, parte integrante delle nostre vite in modi sempre più naturali, tanto meno visibili quanto più decisivi. Non lo percepiamo più come qualcosa di estraneo, di altro da noi: è uno strumento come un altro, un tool come tanti di cui ci siamo sempre serviti nel corso della storia.
Bridle ha colto nel segno, nel senso che ai nostri giorni c'è una tendenza, una fascinazione per la sovrapposizione tra digitale e reale. Verissimo. Ma nella #NA questa fascinazione non è per come le macchine ci vedono, ma piuttosto per come noi ci siamo guardati attraverso le macchine fino a qualche tempo fa.
Un frame del film <i>2001: Odissea nello spazio</i> di Stanley Kubrik, 1968
Un frame del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrik, 1968
Enlarge your abilities
Cosa sono le macchine? Nostri strumenti, prolungamenti del nostro corpo, protesi tecnologiche. A differenza di gran parte degli altri esseri viventi, l'uomo ha coscientemente inventato e utilizzato strumenti e add-ons sempre più evoluti e raffinati per aumentare e moltiplicare le sue capacità. Tutti prolungamenti, implementazioni del nostro essere limitato, che utilizziamo a nostro vantaggio e in base alle nostre esigenze. Alla sopravvivenza e al sostentamento, alla supremazia sull'ambiente e sull'altro (soddisfacimento dei bisogni primari) si sono affiancate via via esigenze più raffinate (socialità, comunicazione, crescita culturale, autocompiacimento) che hanno comportato ulteriori passi avanti nella creazione di strumenti artificiali al nostro servizio, per aumentare ulteriormente le nostre capacità o per crearne di inedite. È un fatto che tutte queste cose sono un nostro prodotto e il loro output – sia esso in forma comprensibile da chiunque o in forma di codice – è stato pensato dall'uomo in modo che possa essere letto/decodificato dai nostri sensi o da altri strumenti/macchine al nostro servizio, comunque dalla nostra mente.
Futura applicazione per IOS di Maps, che sfrutta la tecnologia C3 di renderizzazione degli edifici in alta definizione
Futura applicazione per IOS di Maps, che sfrutta la tecnologia C3 di renderizzazione degli edifici in alta definizione
Umano, troppo umano
Spero sia chiaro a tutti che le macchine, per ora, sono progettate e prodotte dall'uomo per l'uomo. Gli affascinanti droni non si muovono per volontà propria: non sarebbero capaci nemmeno di decollare se gli uomini non li guidassero a distanza o non programmassero un piano di volo. Le telecamere dei droni (così come qualsiasi sistema di controllo remoto) guardano ciò che noi vogliamo guardare. I droni militari armati colpiscono i nostri obiettivi. I fantastici drone swarms di Gramazio & Kohler costruiscono edifici di polistirene in base a umanissimi, elvetici, algoritmi. Qualche altro esempio. Non avrebbe alcun senso che un visore X-ray avesse come output un'ulteriore immagine a raggi X, visibile non si sa da chi: il risultato della scansione è sempre visualizzato in un display che trasmette immagini nel range di visibilità dell'occhio umano.



I primi scanner tridimensionali (ma anche le versioni precoci dei programmi di modellazione 3D per workstation grandi come armadi) avevano limiti computazionali che comportavano una discretizzazione degli oggetti complessi, semplificati per punti in sistemi di mesh poligonali. Il primo rendering tridimensionale animato della storia è l'animazione del modello poligonale di una mano, realizzato da Ed Catmull e dalla sua neonata Pixar nel 1972. Oggi queste visualizzazioni poligonali lo-res nel mondo della grafica 3D sono soltanto un ricordo: la tendenza, anche grazie a processori e tecnologie sempre più sofisticate, è quella di una restituzione tridimensionale di tipo seamless sempre più accurata. Vogliamo che le nostre macchine restituiscano qualcosa di realistico, vogliamo poter disporre di rappresentazioni della realtà al massimo della definizione disponibile: parlare di bassa risoluzione nell'era dei retina display e del seamless 3D, della fibra ottica e dei 200FPS rischia di apparire come un vezzo vagamente retrò. Direi quindi che sì, le macchine ci vedono; ma nei modi in cui noi le abbiamo programmate per vederci, al meglio delle possibilità tecnologiche del momento. Ci vedono nelle maniere più opportune e più vantaggiose in base alla loro funzione e alla tecnologia a disposizione. Modi che, col passare del tempo e con lo sviluppo tecnologico, saranno sempre più "naturali" e meno artefatti. Modi che noi – umani – abbiamo scelto e fatto evolvere al nostro servizio o per il nostro piacere. Così è, almeno per ora: in fin dei conti le macchine ci guardano con i nostri occhi. Quindi: Bridle ha colto nel segno, nel senso che ai nostri giorni c'è una tendenza, una fascinazione per la sovrapposizione tra digitale e reale. Verissimo. Ma nella #NA questa fascinazione non è per come le macchine ci vedono, ma piuttosto per come noi ci siamo guardati attraverso le macchine fino a qualche tempo fa. Quindi, come i filtri retrò-glam di Instagram, potremmo dire che anche la #NA utilizza dei filtri concettuali con cui seleziona e altera il presunto oggetto d'interesse. E raramente un'estetica, o il giudizio di valore estetico, si servono di filtri.

La vera storia è che gli uomini tendono a cercare o a proiettare un senso anche laddove non ce n'è. Siamo fatti così: c'è un baco nella nostra mente che, da sempre, ci fa trovare significati o cercare un'anima anche nelle cose inanimate. La riflessione dell'uomo intorno al concetto di "cosa" ha impegnato senza sosta i più grandi filosofi di tutti i tempi. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla progressiva "reificazione" dell'uomo e a una presunta "sensibilizzazione" dell'inorganico, del non-umano: pensiamo alla cultura Cyberpunk (di cui uno dei padri teorici è lo stesso Sterling) o alle speculazioni della Object Oriented Ontology ("OOO"). Come uomini siamo intellettualmente, filosoficamente, letterariamente affascinati dalla cosa. E questo fascino per l'inorganico, questo proiettare vita e senso laddove – se ce ne sono – sono la nostra vita e il senso che noi infondiamo, in filosofia e in letteratura ha prodotto esiti interessantissimi. Esiti che però, alla fine dei giochi, rappresentano sempre l'uomo che si guarda allo specchio. E la #NA, per ora, ne è l'estrema incarnazione in campo visuale.
HAL 9000, il computer di bordo della nave spaziale nel film <i>2001: Odissea nello spazio</i> di Stanley Kubrick
HAL 9000, il computer di bordo della nave spaziale nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick
Epilogo: Do androids dream of an electric aesthetic?
Ho un'ammirazione estrema per Sterling e concordo con il 95% del suo saggio di Wired. Ma mi azzardo – che dio mi perdoni – a non essere completamente d'accordo con lui quando, nella parte in cui elenca dal suo punto di vista i limiti della #NA, parla del fallimento dell'Intelligenza Artificiale (AI) negli scorsi decenni:

"Artificial Intelligence [...] is a failed twentieth-century research campaign, reduced to a sci-fi conceit."

Io la vedo diversamente: secondo me con l'AI non è andata – o almeno non ancora – come la Sci-Fi si sarebbe aspettata. Se osserviamo bene, non è fallita. C'è in giro molta più AI di quanto non sembri in apparenza: il suo ruolo si è affinato nella soluzione di singoli problemi specifici di estrema complessità, e la sua presenza è, come si dice tecnicamente, in background, dissimulata da fluide, rassicuranti interfacce-utente. C'è AI sofisticatissima nell'ESP e nell'ABS delle nostre automobili, così come nel processo degli algoritmi di riconoscimento vocale o nei programmi OCR di digitalizzazione della scrittura o nei sistemi di previsione meteorologica. È lì dietro che sta lavorando e non serve che noi ce ne accorgiamo. Potremmo dire che si tratta d'intelligenza artificiale "di servizio", sofisticatissima ma priva di volontà autonoma. Incapace di esprimere nuovo senso o capace di farlo soltanto parzialmente, oltretutto perché programmata a tale scopo dall'uomo. Per ora. Certo, non sarà sempre così. Se alla crescente capacità dei processori affianchiamo il miglioramento progressivo – anch'esso inesorabile – dei sistemi operativi, possiamo essere certi che arriverà un tempo in cui le macchine avranno più sinapsi/neuroni equivalenti dei nostri: diventeranno via via più intelligenti, più raffinate, forse anche più colte di noi. Arriverà il giorno in cui verrà prodotto l'ultimo processore o l'ultimo sistema operativo o l'ultima macchina da parte dell'uomo. Poi ci sarà il sorpasso. Impareranno magari a essere autonome, a decidere di riprodursi, a implementare le proprie capacità e i propri criteri di giudizio, a evolvere secondo percorsi propri, prescindendo dalla nostra esperienza millenaria: non è detto che trovino utili le nostre informazioni, la nostra cultura, i nostri memi. Impareranno a guardarci – allora sì – con i loro nuovi occhi. A produrre rappresentazioni in codici per noi sconosciuti, funzionali a criteri cui noi non parteciperemo, prodotti da processi logici o creativi per noi ormai insondabili, fuori dalla nostra portata. Sinceramente, non so quanto troveremo interessante questa cosa, o se queste macchine vorranno condividerla con noi. Ma sarà, quella sì davvero, una Nuova Estetica
Urban Cursor, oggetto dotato di GPS disegnato dal designer danese Sebastian Campion per facilitare l'interazione sociale nello spazio pubblico Figueres, Spagna nel 2009
Urban Cursor, oggetto dotato di GPS disegnato dal designer danese Sebastian Campion per facilitare l'interazione sociale nello spazio pubblico Figueres, Spagna nel 2009
Quindi, per rispondere alla domanda del titolo: "Do androids dream of an electric aesthetic?" Almeno per ora direi proprio no. Non corriamo ancora il rischio di stupirci in questo modo. Per molti anni, nessuna macchina ci racconterà di raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser: ancora innumerevoli Blue Screen Of Death ci attendono lungo la strada. Intanto la New Aesthetic è un raffinatissimo prodotto del nostro tempo, con i limiti delle cose ancora acerbe, in corso di definizione. Seppur programmaticamente intenda indagare la vita interiore delle macchine, per ora ne coglie frammenti "rassicuranti", quasi familiari (pixel e poligoni anni '80, artefatti, fails e BSODs, metodi per ingannare gli algoritmi di face-detection). Insomma, coglie proprio quello che, in fondo, dalle macchine noi uomini ci aspettiamo: la loro visibilità, la loro riconoscibilità, se vogliamo anche la loro fallacità. Il modo in cui la tecnologia oggi pervade le nostre vite, s'insinua invisibile in ogni aspetto del quotidiano – forse molto meno Tumblr-genico, forse molto più inquietante – per ora pare non interessare. È sempre difficilissimo osservare la big picture dal suo interno. Ma, secondo me, le potenzialità di questa nuova sensibilità sono immense e molte di esse ancora inespresse: sono certo che se uscirà dalla fase di mood-board (o di Bridlebot, con parole di Sterling), se riuscirà ad acquisire maggiore struttura, se spalancherà gli occhi e tenderà le orecchie, la New Aesthetic – oggi allo stato grezzo – potrebbe essere la prima, vera avanguardia del millennio, su scala globale. Un collettore di esperienze e di visioni critiche avanzate, finalmente proiettato in avanti, oltre questo eterno presente con la memoria corta. Capace di raccogliere, e speriamo anche di generare, inediti approcci teorici e formali. Luca Silenzi (@spacelab_it)

PS: Nel frattempo, noto che innumerevoli spambot stanno automaticamente rilanciando tutti i tweet con hashtag #NewAesthetic. C'è da preoccuparsi?
Note
1. La data di nascita ufficiale del topic della #NA è il 6 maggio 2011: dapprima con un post di Bridle sul blog di RIG; poi con la creazione, sempre da parte di Bridle, di un Tumblr ad-hoc, intitolato, appunto, The New Aesthetic.
2. Hanno "risposto" alle provocazioni di Sterling, tra gli altri: The Creators Project, Warren Ellis, Dan Catt, Rahel Aima, Greg Borenstein, Ian Bogost.
3. Anche se in molti pensano che questo sia un peccato e denunciano una sorta di eccessiva modestia.
4. Bridle ha affermato in un'intervista per il Design Observer che il termine "The New Aesthetic" era uscito un po' di getto: col senno di poi, non è proprio il massimo, ma pare che comunque "funzioni".
5. Bruce Sterling, An Essay on the New Aesthetic, cit.

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