What design can do 2015

L’eclettico programma della quinta edizione del festival olandese ha riunito architetti impegnati da decenni nello sviluppare soluzioni abitative in contesti di emergenza come Cameron Sinclair ed eccentrici creatori sopra le righe come Bompas & Parr.

What design can do 2015
La quinta edizione di “What Design Can Do” (21–22 maggio 2015) inizia con un coro gospel. Si tratta di un vero e proprio appello ai designer: siamo in guerra, bisogna prendere posizione, ritrovare il significato, fare come le ONG, niente più sfumature di grigio. Dopo due giorni di festival, però, la sensazione è che sia molto difficile definire il ruolo del design in termini di bianco o nero, buono o cattivo.
What design can do 2015
In apertura: Steve Rura – Google Creative Lab. Photo © Leo Veger. Sopra: Cameron Sinclair. Photo © Leo Veger
In questo senso, poi, l’eclettico programma della conferenza principale e degli eventi off non aiuta. Da un lato abbiamo gente come Cameron Sinclair, architetto impegnato da decenni nello sviluppare soluzioni abitative in contesti di emergenza, dall’altro ci sono eccentrici creatori sopra le righe come Bompas & Parr, scatenati designer con un grande amore per la gelatina, l’alcol e le feste imprevedibili. Chi è buono e chi è cattivo?
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Bompas & Parr. Photo © Leo Veger
Anche il discorso “come le ONG” risulta un po’ ambiguo, dal momento che l’impresa illuminata è stata ben rappresentata: Steve Rura di Google ha presentato Project Loon, innovativa infrastruttura connettiva a base di palloni aerostatici che vuole portare internet in ogni angolo del mondo, mentre Jonathan Spampinato dell’IKEA Foundation ha spiegato Better Shelter, collaborazione con l’UNHCR volta a produrre case low-cost per i rifugiati in paesi come Etiopia e Iraq. Michael Johnson, premiato graphic designer che ormai investe la maggior parte del proprio tempo nel curare la comunicazione di associazioni benefiche, durante la propria presentazione non ha fatto mistero del fatto che le commissioni orientate al business possono finanziare progetti eticamente più soddisfacenti. Anche qui, insomma, ci sono sfumature.
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Dutch Gospel Art Institute & Wazzup Singers. Photo © Leo Veger
Se vogliamo rispondere alla domanda implicita nel titolo della manifestazione, il tema dei rifugiati e più in generale dell’architettura ad alto potenziale sociale è stato uno dei più ricorrenti. Oltre al già citato Sinclair e alla IKEA Foundation, i campi per i rifugiati – vere e proprie città – sono esplorati visivamente dalle “soft maps” di Jan Rothuizen, artista olandese che ne ha realizzate diverse per il progetto Refugee Republic, offrendo uno sguardo documentaristico e umano sulla vita al loro interno. Mantenendo la dignità come perno etico, gli approcci architettonici sia di Michael Murphy (Mass Design Group) che di Diébédo Francis Kéré (Kéré Architecture) tracciano invece alcune linee guida di costruzione con focus locale: materiali locali, tecnologie locali, costruttori locali. Il primo lo fa usando il termine lo-fab (con relativa hashtag), il secondo evidenziando il proprio rapporto personale con le comunità del Burkina Faso.
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I fratelli Campana. Photo © Leo Veger
Un’altra cosa che il design può fare, stando al programma del festival, è amplificare la nostra esperienza, sensoriale e oltre. L’ispirazione può arrivare dallo sviluppo di una conoscenza più approfondita del nostro odorato (attraverso il “nasalo”, linguaggio creato dall’artista e alchimista olfattiva Sissel Tolaas), dalla riscoperta degli ingredienti della propria terra (come ha fatto lo chef brasiliano Alex Atala, stabilendo una relazione più diretta con i fornitori dell’Amazzonia) o affrontando questioni astratte quanto universali come la ricerca della felicità (tema centrale dell’Happy Show di Stefan Sagmeister). Particolare attenzione è stata data al cibo, anche come business: Cynthia Shanmugalingam di Kitchenette, incubatore londinese per start-up culinarie, spiega come fare network sia fondamentale per piccoli imprenditori che vogliono affermarsi nel mondo della ristorazione.
What design can do 2015
Alex Atala: ananas e formiche @ Taste it! Photo © Leo Veger
Se c’è un certo contrasto tra i due gruppi tematici, le breakout sessions (mini eventi extra sparsi in location varie, dentro e intorno al teatro principale, lo Stadsschouwburg) rendono la nozione di “impatto” definita da WDCD ancora più esplosa: dalla medicina al dating, dal packaging alla drug culture (workshop esaurito molto rapidamente), passando per uno showcase di design digitale sponsorizzato da Adobe dove l’accezione è da intendersi più nel senso di muscolarità tecnica. Il tutto è stato intervallato da manifesti gospel ed esibizioni musicali nei corridoi del teatro.
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Breakout WDCD for Sensorial Storytelling. Hosted by Design Bridge & Johnnie Walker. Photo © Leo Veger
A proposito di manifesti, mi ha colpito abbastanza quello che il giornalista Jeroen Junte ha fatto recitare all’intero pubblico della sua presentazione (canti e persino massaggi collettivi sono stati un leitmotiv dell’evento). Tra i punti del suo “giuramento ippocratico dei designer”, infatti, c’è un invito a riconoscere i limiti della professione. Forse si tratta del coagulante più efficace nel conciliare questa tensione tra temi urgenti ed edonismo, foto di sfollati in Africa e uomini nudi che compaiono a sorpresa sul palco. Non c'è niente di male nel mostrare le due anime del design – quella funzionale, al servizio di un bisogno immediato, e la sua potenzialità di elevare un’esperienza (come potrebbe essere una grigia conferenza piena di bullet points) tramite la bellezza e la gioia primitive che la creatività può manifestare. L’unico problema è che, senza nulla togliere al suo ritmo e al potenziale d’ispirazione, proprio il design e il marketing del festival rischiano di promettere un impegno e un impatto superiore a quello che può dare.
© riproduzione riservata
What Design Can Do 2015
What Design Can Do 2015. Photo © Leo Veger

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