Jerwood Makers Open

Una mostra al Jerwood Space di Londra espone le opere dei vincitori del Jerwood Makers Open, concorso annuale che sostiene i giovani autoproduttori.

Jerwood Makers Open
L’autoproduzione negli anni recenti è diventata sempre più di moda. In un’economia globalizzata in cui la maggior parte di noi non produce e non sa dove né come siano prodotte le cose che ci circondano, il desiderio di sporcarsi le mani è palpabile. Ma nonostante tutta la retorica dell’autoproduzione dispiegata da economisti e politici, gli investimenti concreti scarseggiano.
Come tuteleremo l’avvento di una nuova generazione di autoproduttori senza la formazione e le risorse necessarie a creare oggetti e a comunicarne il valore?
Jerwood Makers Open
In apertura: FleaFollyArchitects, The Modern Prometheus (dettaglio) 2014. Tecnica mista, legno tagliato al laser, ottone, dimensioni variabili. Photo thisistomorrow. Sopra: Hitomi Hosono, Colouring and Carving – Tropical Island Project, 2014. Porcellana, dimensioni variabili. Photo thisistomorrow
È la mancanza di aiuti che rende tanto preziose iniziative come il Jerwood Makers Open. Questo concorso annuale, lanciato nel 2010, è pensato per aiutare i professionisti britannici agli inizi della carriera. Quest’anno – segno del suo valore e dell’interesse per la creatività legata all’autoproduzione – oltre 240 concorrenti hanno gareggiato per il premio di 7.500 sterline in palio. I vincitori – FleaFollyArchitects, Hitomi Hosono, Shelley James, Matthew Raw, Revital Cohen & Tuur Van Balen – espongono attualmente i frutti del loro lavoro in una mostra al Jerwood Space di Londra.
Riuniti della prima sala ci sono i lavori dei due ceramisti selezionati, Hosono e Raw. Quest’ultimo, laureato al Royal College of Art di Londra, ha realizzato la facciata rivestita di piastrelle di ceramica di un immaginario pub chiamato The Shifting Spirit (“Lo spirito del cambiamento”). Le piastrelle lavorate a mano e le lettere irregolari dell’insegna lo identificano come una superficie architettonica fatta a mano; e tuttavia non si tratta di un’esercitazione artigianale, ma di una notazione sociale. Raw considera il pub inglese un barometro del cambiamento sociale, in particolare dell’inesausta corsa alla trasformazione borghese delle città che in Gran Bretagna sta causando la chiusura, mediamente, di quasi trenta pub la settimana. Questa finta facciata intende provocare un dialogo sull’incidenza della trasformazione in senso borghese della città e sul ruolo che abbiamo in essa.
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Matthew Raw, The Shifting Spirit, 2014. Piastrelle ceramiche, dimensioni variabili. Photo thisistomorrow
Dall’altra parte della sala c’è Colouring and Carving – Tropical Island Project (“Colorare e intagliare: progetto Isola tropicale”) di Hosono. Come Raw la ceramista di origine giapponese ha frequentato l’RCA, ma il suo lavoro è radicalmente differente per dimensioni e per stile. La collezione di sette recipienti si fonda sui “rametti”, ovvero su particolari di argilla stampati aggiunti alle superfici ceramiche, che l’autrice ha trasformato da decorativi a strutturali: un lavoro lento e abile, reso ancor più difficile dal fatto che ha aggiunto al procedimento il colore. Gli intricati lavori ricordano la vegetazione tropicale e i tessuti alla William Morris, e testimoniano delle potenzialità della sperimentazione e della perseveranza nel lavoro della produzione.
La panoramica delle competenze prosegue con Elemental Symmetries (“Simmetrie elementari”) di James. Nascosto dietro un sipario in una stanza oscurata c’è un unico piedestallo nero, su cui stanno, illuminate una per una, cinque forme di vetro geometriche da cui promana un’atmosfera mistica. In collaborazione con un cristallografo, un maestro vetraio e altri, James ha creato una collezione di vetri con le forme platoniche, compresi il dodecaedro e l’icosaedro. All’interno le forme sono ancor più complesse, perché contengono strati di motivi decorativi disegnati con precisione che sono una sfida sia per le tecniche vetrarie sia per la nostra concezione della percezione e della forma.
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Revital Cohen e Tuur Van Balen, Giving More to Gain More series, 2014. Alluminio ed elettronica, dimensioni variabili. Photo thisistomorrow
Esposti nello spazio più grande della galleria gli ultimi due progetti non potrebbero essere più diversi. Al centro c’è The Modern Prometheus (“Prometeo moderno”), un modello di grandi dimensioni alto quattro metri di FleaFollyArchitects, ovvero Thomas Hillier e Pascal Bronne, due architetti formatisi alla Bartlett che hanno iniziato a lavorare insieme nel 2012. Come Raw, i FleaFollyArchitects hanno usato la narrazione architettonica come strumento critico. Attenti alle questioni della riservatezza e dell’identità in epoca digitale, hanno creato una ‘torre di Babele tecnologica’, uno scenario distopico sull’architettura dei computer costruito nell’Artico. Si tratta innegabilmente di un oggetto artigianale, che unisce le tecniche di produzione digitali a quelle tradizionali. E tuttavia il metodo produttivo  appare secondario rispetto al messaggio, comprensibile sulla base dell’interesse dell’architetto per l’attività speculativa, ma qui sorprendente.
Giving More to Gain More (“Dare di più per avere di più”), sta anche scritto all’esterno della sede della Jerwood. Dopo essersi laureati in Design dell’interazione all’RCA nel 2008, Cohen e Van Balen hanno adottato un’impostazione progettuale di tipo artistico, creando oggetti che spesso analizzano problemi della fabbricazione contemporanea. In particolare queste tre opere fanno riferimento al linguaggio del nostro sistema di produzione globale, usando frasi di pidgin (l’inglese semplificato che permette la comunicazione tra persone di madrelingua diversa) tratte dalla corrispondenza con fornitori di articoli elettronici cinesi, come It’s so Brightness e We Have to Work Hard and Work with our Heart (“È un tale splendore”, “Dobbiamo lavorare duro e lavorare con il cuore”). I due hanno usato alluminio, strisce di LED e altri materiali di questi stessi fornitori, e li hanno trasformati in grandi sculture di luce, con le parole che alternativamente appaiono e si dissolvono nell’astrazione.
Jerwood makers
Shelley James, Elemental Symmetries (dettaglio), 2014. Vetro, stampa, acciaio e ottone, dimensioni variabili. Photo thisistomorrow
Non sono sicura di che cosa pensare della mostra di quest’anno. L’assunzione del rischio, evidente in una selezione spinta al limite, è lodevole, e credo che il mondo dell’artigianato debba dare una risposta all’evoluzione di territori diversi, come il design e l’architettura della critica, sebbene l’accento su opere interessanti per le loro qualità speculative più che per le competenze che dimostrano in questo contesto non appaia sempre corretto. Comunque l’edizione di quest’anno presenta alcune opere interessanti e talvolta eccezionali, che non possono che confermare l’esigenza del sostegno che premi come il Jerwood Maker Open forniscono.
© riproduzione riservata

fino al 31 agosto 2014
Jerwood Makers Open
Jerwoos Space
171 Union Street, Bankside | London

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