Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 933, febbraio 2010
Quando suggerisco come giardino del nostro tempo l’orto, meglio ancora l’orto scolastico, scorgo talvolta disappunto. Come se, provocando, eludessi la questione. Il giardino di cui il nostro tempo ha bisogno deve prima di tutto sanare una ferita, riconnettere l’uomo alla natura nel senso primario del termine, di corpo a corpo in cui l’uomo coltiva le piante e il paesaggio da cui trae nutrimento in tutti i sensi, fisico ed emotivo.
Gardens are for people, recitava mezzo secolo fa il titolo del libro scritto dal paesaggista californiano Thomas Dolliver Church. Potremmo, oggi, ribaltare: le persone sono ciò di cui il giardino, divenuto planetario, non può fare a meno. In greco antico il termine per designare la natura – physis – significava processo di crescita e venuta al mondo, non qualcosa di reificato o divinizzato, ma un movimento che coinvolge anche gli umani: qualcosa su cui riflettere adesso che pare più che mai necessario tornare alla radice del nostro antico cercare, tra le piante, la vita. Vita, quindi energia per alimentarla, cibo ottenuto instaurando una relazione attenta, partecipe e vitale col mondo. Ciò, tuttavia, sarà possibile a patto di risvegliare il gusto di prendersi cura della terra e di ciò che vi cresce, di riattivare facoltà cognitive andate perdute dopo una troppo lunga stagione di vera e propria guerra all’orto, alle campagne, ai contadini.
Credo sia questa consapevolezza a ispirare il rinnovato interesse per gli orti, anche nelle situazioni più impensate: sui tetti, sui balconi di grattacieli, in verticale. Oppure in nuove declinazioni: orto scolastico e sociale, ma anche terapeutico o carcerario. Se l’orto fa notizia, è perché ci pone di fronte a qualcosa di non più familiare. Qualcosa di fronte a cui ci sentiamo analfabeti. Pensiamo a certe affermazioni divenute luoghi comuni: non sappiamo più da dove venga il cibo; i bambini credono che cresca direttamente al supermercato; i sapori sono scomparsi. E così via.
Questo diffuso sentire indica che all’orto non si torna soltanto per procurarsi cibo, ma per ristabilire, in ambienti dominati quasi esclusivamente dall’inorganico, una qualche nozione di che cosa sia la materia viva, oltre che per recuperare un sapere centrale alla civiltà scaturita, nel bene e nel male, dal Neolitico. Per questo, in alcune città l’orto sociale non è riservato ai soli pensionati. A Londra, non importa a quale età, si può ottenere in gestione un appezzamento da tenere a orto ricavandone vantaggi non soltanto materiali. In questo spirito, architetti e urbanisti di tutto il mondo cominciano – come già aveva suggerito Leonardo da Vinci – a prevedere spazi da destinare alle coltivazioni in area urbana. L’iniziativa non parte soltanto dall’alto.