Viva Arte Viva

La mostra della curatrice Christine Macel pur con molti nomi nuovi, risulta nel complesso ordinaria: offre meno di quanto il titolo entusiasta propone, e non genera novità. #BiennaleArte2017

Katherine Nunez & Issay Rodriguez, In Between the Lines 2.0, 2015-2017. Crochet, embroidery & sewing. Photo Francesco Galli
“Viva Arte Viva”, la 57. Biennale Arte di Venezia, è una mostra dedicata agli artisti. Alla loro figura, alle loro modalità, alle loro opere; perché la loro vitalità è preziosa e in loro risiede l’energia positiva e prospettica che può indirizzare il mondo. La curatrice Christine Macel lo dichiara esplicitamente sin dalle prime righe del suo testo introduttivo: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo. Essa è il luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali. […] Viva Arte Viva è così un’esclamazione, un’espressione della passione per l’arte e per la figura dell’artista”.
Katherine Nunez & Issay Rodriguez, In Between the Lines 2.0, 2015-2017. Crochet, embroidery & sewing. Photo Francesco Galli
Katherine Nunez & Issay Rodriguez, In Between the Lines 2.0, 2015-2017. Uncinetto, ricamo & cucito. Photo Francesco Galli
È forse in conseguenza di questa convinzione che Macel ha optato per un impianto curatoriale decisamente leggero: una sequenza di nove capitoli, o “padiglioni”, dedicati a macrotemi piuttosto elementari che, in molti casi, fungono più da tracce che da fili conduttori veri e propri. Nella parte di mostra che si svolge ai Giardini si articolano il Padiglione degli Artisti e dei libri e il Padiglione delle Gioie e delle paure; mentre lungo il percorso dell’Arsenale si trovano il Padiglione dello Spazio comune, il Padiglione della Terra, i Padiglioni delle Tradizioni, degli Sciamani, il Padiglione Dionisiaco, quello dei Colori e quello del Tempo e dell’infinito.
Salvatore Arancio, <i>MIND AND BODY BODYAND MIND</i>, 2015. HD video, color, sound, 16’37’’. Photo Italo Rondinella
Salvatore Arancio, MIND AND BODY BODYAND MIND, 2015. HD video, colore, suono, 16’37’’. Photo Italo Rondinella

A Macel, gli artisti interessano tutti: di ogni età, provenienze e notorietà; in questo senso, manifesta una notevole libertà e la sua mostra risulta molto trasversale.

E anche degli artisti le interessa tutto: non solo il gesto creatore e il suo esito – l’opera – ma anche la quotidianità, i luoghi, i ritmi e i modi di vivere. E, infatti, la mostra si apre, nel Padiglione Centrale, con una serie di fotografie dell’artista serbo Mladen Stilinovic addormentato nel suo studio. È Artist at Work, opera del 1978: un atto concepito allora come rivendicazione di valori improduttivi come il tempo, la nullità, la non efficienza, nonché come resistenza passiva all’assorbimento da parte della politica.

Mladen Stilinović, <i>Artist at Work</i>, 1978. Eight silver gelatine prints, 2017. Photo Francesco Galli
Mladen Stilinović, Artist at Work, 1978. Otto stampe ai sali d'argento, 2017. Photo Francesco Galli
L’idea dell’otium come fonte d’ispirazione e, paradossalmente, come forma di lavoro, torna diverse volte nelle sale successive: da Franz West alle giovanissime Katerine Nuniez e Issay Rodriguez di Manila, che presentano il proprio studio stipato di libri, carte, tessuti e minuti lavori artigianali realizzati all’uncinetto.
Franz West, <i>Various works</i>, 1973-1978. Mixed materials. Photo Francesco Galli
Franz West, Vari lavori, 1973-1978. Materiali misti. Photo Francesco Galli
Dall’intimità della vita e dello studio si slitta poi alla collaborazione, con alcuni progetti partecipativi; per passare, quindi, al rapporto che gli artisti possono intrattenere con la propria e con l’altrui tradizione artistica: è il caso dei bellissimi disegni di Ciprian Muresan riferiti ai capolavori dei grandi maestri della storia dell’arte occidentali, le cui immagini, in Romania, risultavano un tempo irreperibili, mentre oggi sono riprodotte in misura massiccia, al punto da annullarsi nel mucchio. O, ancora, del video sognante e surreale Tightrope dell’artista russo-daghestana Taus Makha Cheva, che fa impersonare a un funambolo sospeso sul paesaggio un ponte tra le tradizioni dell’Occidente e quelle non occidentali, tra natura e cultura, tra passato e presente.
Ciprian Mureșan, <i>Various works</i>, 2012-2016. Pencil and graphite on paper. Photo Francesco Galli
Ciprian Mureșan, Vari lavori, 2012-2016. Matita e grafite su carta. Photo Francesco Galli

Nell’Arsenale, invece, proliferano le opere legate alla trama, alla rete, all’intreccio, al tessuto; nelle forme più diverse, dalle grandi sculture murali di Franz Erhard Walther – premiato con il Leone d’oro per la partecipazione alla mostra internazionale – con cui è possibile interagire, ai lunghi ed eleganti intrecci sospesi di Leonor Antunes, al momento di grande felicità del muro di colori di Sheila Hicks: una gigantesca, multicolore cascata di morbidi e accoglienti pompon di lana.

Numerose le opere di carattere collettivo legate allo spazio pubblico, per lo più degli anni Sessanta e Settanta: Antoni Miralda, Joan Rabascall, Jaume Xifré, per citarne alcuni. Come a ribadire che queste opere hanno una forte relazione con la sensibilità odierna e hanno ancora molto da dire.

Taus Makha Cheva, <i>Tightrope</i>, 2015. HD video, color, sound, 58’10’’. Photo Francesco Galli
Taus Makha Cheva, Tightrope, 2015. HD video, colore, suono, 58’10’’. Photo Francesco Galli
Alcuni lavori di grande forza compaiono nel Padiglione della Terra: quella di Shimabuku, per esempio, che esprime attraverso video minimali la relazione tra gli esseri viventi e il loro ambiente. In The Snow Monkeys of Texas l’artista fa riferimento a un gruppo di scimmie trasferite forzatamente da un ambiente montano al deserto del Texas per parlare di questioni di memoria e di adattamento. O Les Immobiles di Marie Voigner, che attraverso una sequenza di immagini frontali relative a cacciatori e trofei, scattate durante i safari e sfogliate a mo’ di ricordi da una guida di caccia in pensione, racconta la violenza feroce e l’atteggiamento coloniale tuttora radicati nella società occidentale.
Franz Erhard Walther, Various works, 1975-1986. Mixed materials. Photo Andrea Avezzù
Franz Erhard Walther, Vari lavori, 1975-1986. Materiali misti. Photo Andrea Avezzù
Intenso è anche il lavoro di Kader Attia, che con la sua densa installazione sulla tradizione musicale in Nordafrica e Medio Oriente si conferma tra gli artisti più importanti della scena internazionale. La mostra si chiude nel Giardino delle Vergini, con la natura allucinata di Salvatore Arancio che dissemina questo luogo ameno di concrezioni laviche e totem psichedelici, ironici ma anche inquietanti, come a ricordarci che la realtà oltrepassa di gran lunga il visibile.
Leanor Antunes, <i>…then we raised the terrain so that I could see out</i>, 2017. Mixed media installation, 900 x 300 x 2.400 cm. Photo Italo Rondinella
Leanor Antunes, …then we raised the terrain so that I could see out, 2017. Installazione con tecniche miste, 900 x 300 x 2.400 cm. Photo Italo Rondinella

Se singoli episodi significativi come questi incoraggiano a trattenersi e ricordano che l’arte può colpire e sorprendere, l’insieme della mostra non risulta altrettanto motivante.

Lungo tutto il percorso le opere sono giustapposte in “stanze” che accolgono un artista ciascuna; un andamento all’insegna della leggibilità, che però genera un senso di reiterazione più che di sviluppo; tanto più che tra un’opera e l’altra la connessione è labile, o addirittura assente. La ripetitività dell’allestimento è particolarmente evidente nell’Arsenale, soprattutto nelle Corderie, per via del ritmo regolare, con le opere installate prevalentemente sui due lati dell’asse di scorrimento centrale. La scansione per sezioni contribuisce all’effetto didascalico dell’insieme. Questo assetto livellante influisce anche sulla percezione delle singole opere, che appaiono in molti casi inoffensive.

Sheila Hicks, <i>Scalata al di la dei terreni cromatici / Escalade Beyond Chromatic Lands</i>, 2016-2017. Mixed media, natural and synthetic fibers, cloth, slate, bamboo, sunbrella, 600 x 1.600 x 400 cm. Photo Andrea Avezzù
Sheila Hicks, Scalata al di la dei terreni cromatici, 2016-2017. Tecniche miste, fibre naturali e sintetiche, abiti, bambù, sunbrella, 600 x 1.600 x 400 cm. Photo Andrea Avezzù

Pur con molte presenze poco ovvie e con molti nomi nuovi, la mostra risulta nel complesso ordinaria, offre meno di quanto il titolo entusiasta proponga e non genera novità.

Ma ciò che soprattutto colpisce è la sensazione di scollamento rispetto al tempo che viviamo. Il nostro presente è drammatico, feroce, è fatto di grandi scontri, di disgregazione, di emergenze umanitarie e di barriere che si alzano. Lo sentiamo incombere inesorabilmente. E gli artisti, i grandi rabdomanti di ogni tempo, le urgenze le sanno cogliere e le sanno esprimere; ne abbiamo avuto innumerevoli prove.

Kader Attia, <i>Narrative Vibrations</i>, 2017. Mixed media installation dimensions variable. Photo Italo Rondinella
Kader Attia, Narrative Vibrations, 2017. Installazione con tecniche miste, dimensioni variabili. Photo Italo Rondinella
Se Christine Macel stessa, nelle prime righe del suo testo, fa riferimento ai conflitti e ai sussulti del mondo, stupisce che poi, nella mostra, malgrado un buon numero di opere rilevanti, tutto risulti filtrato e neutralizzato fino a generare la sensazione di un’assoluta mancanza di presa sulla realtà. Di quei conflitti, di quella pressione e di quella tensione resta veramente poco.
© riproduzione riservata

fino al 26 novembre 2017
Viva Arte Viva
Giardini, Arsenale, Venezia
Curatrice: Christine Macel

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