Atelier Afrique

La grande mostra “Art/Afrique, le nouvelle atelier” alla Fondation Louis Vuitton di Parigi si basa su una splendida collezione, quella di Jean Pigozzi che, prestata ed esposta a più riprese, non è inedita ma è diventata fondamentale. Ora rivela il fatto di essere preziosa non solo per quel continente.

David Goldblatt, The dethroning of Cecil John Rhode
L’obiettivo di “Art/Afrique, le nouvelle atelier” è probabilmente quello di costruire un circuito espositivo impeccabile per scelta curatoriale e qualità delle opere.
In apparenza ci si astiene dall’utilizzo di ogni ideologia, scandagliando le motivazioni della creatività africana contemporanea, magmatica e decisamente in continuo fermento. Lo sforzo documentativo sulla regione subsahariana del continente, soprattutto attraverso il focus specifico, “Being There” sulla scena sudafricana, non elimina un evidente equivoco di fondo. All’orizzonte della mostra, a cui sicuramente riesce la rimozione di tanti stereotipi sull’arte africana, aleggia imperturbato il terribile destino dell’arte post-coloniale.
Tutti i curatori sembrano esserne consapevoli visto che un lavoro in situ del camerunese Pascale Marthine Tayou è qui per ricordarcelo. La Colonisation e Les independances Cha Cha seppur in accordo con gli stretti vincoli della collezione di Jean Pigozzi (solo artisti che risiedono in Africa) e la direzione artistica del suo curatore André Magnin, è un lavoro liminale. L’artista risiede oggi in Belgio, la sua opera di collegamento tra la sezione “Les initiés”, la più filologica, e il resto del percorso parla proprio di questa difficoltà di definire l’eredità africana e di essere inclusi in una scena predefinita. È un lavoro- autoritratto composto di sampietrini colorati che ribadisce la fine dell’idea di frontiera e “colore”. Completato da una mappa al suolo della Unione Africana e dalle bandiere dei 53 paesi del continente che si espandono sulle scale mobili della galleria è un modello di ibridazione culturale.

 

Autenticità, pathos e pratiche artistiche inedite, continuano ad infrangersi e spesso a naufragare, più o meno consapevolmente, sull’ultima spiaggia del mercato artistico contemporaneo. Lo spazio per fortuna si apre alle opere della collezione praticamente storicizzate. Un nucleo che nasce dalla folgorazione di Jean Pigozzi multimilionario illuminato, collezionista, filantropo e lui stesso fotografo che pur non avendo mai messo piede in Africa, ebbe una vera e propria rivelazione di questo territorio spirituale e di ricerca con la mostra del 1989 “Magiciens de la Terre”.

In seguito André Magnin uno dei commissari all’epoca più spericolati nelle scelte, lo ha seguito nelle ricerche sul campo e nei successivi perfezionamenti. Sono arrivati molti altri episodi espositivi, tra cui “African Remix” e “Beauté Kongo”, ed è ovvio che questo materiale si ritrovi, ora, al centro di questo interesse per l’Africa più che mai centripeto ed estremamente di tendenza. Siano le magnifiche maquette di città del congolese Bodys Isek Kingelez o le foto di vita quotidiana del maliano Malick Sibidé, scomparso di recente. È evidente che per coerenza e media siamo immersi in un vero progetto, una splendida collezione che non invecchia a 30 anni dalla sua nascita. Per chi segue l’arte di questo continente è quello che avrebbe potuto essere il nucleo di una sezione di arte africana contemporanea, tuttora inesistente alla Tate o al MoMA. Ed è ciò che ameremmo immaginare, uno splendido sogno di riscrittura della storia dell’arte recente.

Thenjiwe Niki Nkosi, Translator, 50x50 cm, 2016
Thenjiwe Niki Nkosi, Translator, 50x50 cm, 2016

I gesti del collezionare provano ora a ristabilire priorità e valore, sono una presa di posizione culturale ma anche economica, a cui probabilmente seguirà la formazione del pubblico. È urgente occuparsi della storia reale di questi artisti e dei loro lavori. Per convincersi basta guardare le terrecotte del senegalese Seni Awa Camara o farsi rapire dalla bellezza sempre più rarefatta e dalla perfezione della pittura di Chéri Samba. Tutti gli artisti in mostra sono importanti. La collezione è stata prestata ed esposta a più riprese, non è inedita ma è diventata fondamentale. Ora nella bella scenografia di Marco Palmieri, intelligentemente non appiattita sull’idea di etnicità, rivela il fatto di essere preziosa non solo per quel continente.

La strategia espositiva di “Art/Afrique” è quella di una raccolta di magnifici reperti contemporanei, trasformati in opere che si modellano su veri problemi geopolitici. È in generale un concentrato di ciò che attanaglia e riguarda tutta l’arte di oggi. Attraverso la lente della globalizzazione, persino l’amaro retrogusto della sua deriva economica assume una consistenza politica.

Abu Bakarr Mansaray, Allien Resurrection, 150x205 cm, 2004. Courtesy CAAC The Pigozzi Collection
Abu Bakarr Mansaray, Allien Resurrection, 150x205 cm, 2004. Courtesy CAAC The Pigozzi Collection

L’agenda dei drammi di un continente non è letta in filigrana e finalmente artisti come David Koloane o Kemang Wa Lehulere con due bellissime installazioni erigono uomini ed animali a grandi protagonisti siano essi eserciti di iene, come quelle di Jane Alexander, o gli immancabili randagi delle township. Al ritmo della mostra serve poi ritagliare una bellezza più consueta, come quella dei lavori recenti di William Kentridge, Triumph and Laments (Procession of Migrants) che si staglia con i suoi neri profili sui muri della Fondazione Louis Vuitton, echeggiando Sigmar Polke e Géricault. Non è un caso che nella creazione di una mostra block-buster tutti questi elementi convergano. Una selezione di opere nella collezione permanente della fondazione lo conferma, compaiono i lavori degli artisti della diaspora africana, il newyorkese Rashid Johnson o la ghaniano-londinese Lynette Yiadom-Boakye: il primo con un lavoro monumentale e imperdibile, la seconda con un dittico di rara intensità.

Le scoperte più interessanti arrivano però dalla generazione nata negli anni ottanta e in quella nata dopo la fine dell’Apartheid e che si definisce born free (nata libera). Sono i più bravi a liberarsi e liberarci dalle molte insidie ​​che hanno plasmato una stereotipata visione dell’Africa in “generale”. Che si tratti della pittura ieratica di Thenjike Niki Nkosi che mescola immagini di criminali e vittime, i tessuti kanga di Lawrence Lemaonna o le fotografie transgender di Jody Brand. Non è scomparso il lato oscuro di un continente e nemmeno il suo cuore di tenebra, ma ora prende in considerazione altri aspetti. La splendida installazione video di Sue Williamson It’s a pleasure to meet you ritorna sulla politica di riconciliazione sudafricana e ci offre un assaggio della vera Africa di oggi. Lo fa in modo semplice attraverso interviste a chi riflette sugli effetti della violenza di un passato recente, quasi fosse l’ineliminabile presenza genetica del nostro presente.  

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