En toute chose

La stagione del Palais de Tokyo è incentrata sulla nostra relazione con le “cose”, con artisti e curatori impegnati nell’individuare contesti tangenziali all’idea di oggetto senza mai pronunciare la parola.

En toute chose, Palais de Tokyo, Parigi 2017
La nuova stagione del Palais de Tokyo è incentrata sulla nostra relazione con le “cose.”
Una stramba idea di oggettualità che si presenta come un campionario di ricerche artistiche decisamente agli antipodi. Costruite attraverso escursioni e razzie nei territori del magico, dell’incerto e dell’inverosimile. L’esercizio antropologico di artisti e curatori in mostra è impegnato nell’individuare contesti tangenziali all’idea dell’oggetto senza mai pronunciare la parola corretta, che è molto semplice e richiama il più preciso concetto di artificialità. Un flusso di opere e gesti curatoriali, stemperato in una punteggiatura di solo-show che contraddicendosi sul piano estetico si accumulano in un magazzino di oggetti pleonastici e pratiche ridondanti.

 

Il covare uova di Abraham Poincheval, come il tentativo di fare salire le scale a un gruppo di sedie di Dorian Gaudin si presentano come la riedizione metafisica di processi conosciuti. Non tanto il gesto politico delle macchine celibi di memoria duchampiana ma la riattivazione di un macchinoso atto del vedere. Tutto coadiuvato dall’ausilio di tecnologie sovradimensionate e da sciamanici atti di fede. Una forzata riedizione del ritorno al Dadaismo, pieno però di declinazioni semantiche e ideologiche che, a un secolo di distanza, diventano tecniche rassicuranti, epurate come sono da ogni spavalda tentazione d’avanguardia. Senza particolari crucci l’oggetto domina gli innumerevoli capitoli di una vasta esposizione nella quale proprio come nelle fiere campionarie del moderno è il culto della macchina a reintrodurre omelie o mantra surrealisti.

La posizione sembra assunta consapevolmente nell’installazione di Emmanuelle Lainé Where the rubber of our selves meets the road of the wider world che pur essendo un fermo immagine della sua ricerca sull’architettura come protesi mentale non può non richiamare altri incontri fortuiti come quello su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello!

Visto che l’atmosfera complessiva è decisamente ispirata a una teologia dell’oggetto, e davvero Lautremont sembra il cadavere curatoriale nell’armadio, ecco sequenze di titoli via via più perfetti. “Sous le regard de machines pleines d’amour et de grâce” è quello scelto da un brevissimo testo poetico di Richard Brautigan e distribuito nelle strade di San Francisco nel 1967.

Mel O’Callaghan, "Dangerous on-the-way", Palais de Tokyo 2017. Photo André Morin
Mel O’Callaghan, "Dangerous on-the-way", Palais de Tokyo 2017. Photo André Morin
È così che il curatore Yoann Gourmel ripropone, dopo aver firmato “Le sentiments des choses”, la mostra di qualche anno fa più in periferia, ricongiungendosi all’idea di confezionare spazi teorici praticabili. Dietro l’angolo un estremo oriente di prossimità, e il restare fedele all’estetica dell’impermanenza che nutre l’attitudine mono no aware di tanta curatela contemporanea. Al Palais de Tokyo vanno decisamente di moda o il vuoto totale coreografato da Tino Sehgal, o si apparecchiano mostre (come fossero tavole) alla John Cage. Qui più che l’esposizione, riesce una magnifica lista di opere davvero eleganti come quelle di Mika Tajima, Maria Lund o Lee Kit. Artisti che sanno combinare materiali raffinati con un gioco concettuale fatto di parametri essenziali della contemporaneità. Algoritmi a go-go e tessuti jacquard per intendersi, dove la tensione tra interno ed esterno propone allo spettatore un perverso gioco sui suoi sentimenti. Eccoci a nostro agio come pubblico istruito e intento a migrare su altre piattaforme d’intrattenimento. Qui non possiamo non sentirci prossimi ai lavori che flirtano con i social media, arborano la loro fede nel numerico e non dimenticano di scimmiottare una materialità ereditata dall’interior design.
Si incontrano comunque gioielli in questa che è la sezione più riuscita. Sono interessanti le epifanie filmiche di Isabelle Cornaro e di Marjorie Keller, le cui opere impongono al mezzo cinematografico una resa dei conti con il valore simbolico ed economico degli oggetti. La prima, nella forma del trittico, regala riuscite inquadrature e composizioni a quella che è la pratica ricorrente nel suo lavoro che flirta con l’idea della decorazione e del feticcio. Marjorie Keller invece non rinuncia all’aspetto politico della quotidianità presentando un film simile ad un archivio, Objection del 1974, nel quale l’horror e il documentario si mescolano facendo sfilare tutti gli oggetti presenti nella casa della sua infanzia.

Nell’idea di spettacolarità e di mezzi produttivi assolutamente necessari per sottolineare concetti davvero semplici si impegnano i due artisti che beneficiano sostegno del Sam Art Projects: Taro Izumi e Mel O’Callaghan. Sembrerebbero fornire alla stagione un cuore pulsante, un’anima alla quale credere per definire la validità di tutto il progetto. Taro Izumi sceglie la strada della parodia e ha dalla sua la cultura giapponese nella quale, come nei film poco riusciti di Takeshi Kitano (e sono davvero pochi), è lo humour che viene a perturbare le nostre abitudini e definisce la scala di turbolenza della realtà. Tutto si mescola, performance, video, scultura nonsense con l’idea di non uscire dallo spazio a noi familiare, e soprattutto non da quello di una mostra.

Mel O’Callaghan sceglie invece l’idea del set, quasi il contemporaneo avesse già dimenticato i rituali e o le imprese di Matthew Barney. L’artista australiana si appropria dei perigliosi gesti dei raccoglitori di nidi d’uccello del Nord Est del Borneo. Se il corpo è il luogo possibile della rivelazione e della trascendenza, la sua installazione ricorda la scena epurata di tanta opera lirica contemporanea intrisa di estetismo stagionale intento a far sopravvivere musica atemporale. Gesti e pratiche più semplici come quelle di Emmanuel Saulnier in Black Dancing riconciliano con un disegno dello spazio decisamente più centrato sulla scala di questo luogo. In fondo ciò che manca alla mostra e a tanti di questi lavori è una corrispondenza poetica tra pensiero e situazione. La produzione di oggetti finisce per cancellare la magnifica presenza del silenzio delle cose. Un piccolo Morandi in una qualsiasi sala di un museo ci ha già confrontato con gli stessi problemi in formati decisamente più accessibili.

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