L’intensità dello sguardo

L’artista americano John Currin, che attraverso forme distorte, dipinge la realtà, racconta dei suoi riferimenti culturali: dalla fotografia di Carlo Mollino, alla pittura di Poussin.

Guardare le opere di John Currin è come trovarsi proiettati nella storica pellicola di Rainer Werner Fassbinder Le lacrime amare di Petra von Kant. Nella sua pittura rivivono, infatti, le stesse donne borghesi protagoniste del celebre film, incarnazione di un modello femminile inquietante, costantemente in bilico tra raffinatezza estrema e il kitsch più triviale. In entrambi i casi, l’abbigliamento ricercato, la gestualità costruita e l’uso narrativo del colore creano una messa in scena, una finzione che, paradossalmente, svela la realtà interna dei personaggi, portandone alla luce il profondo senso d’inadeguatezza.
In questa ricerca comune incentrata sull’artificio, Currin arriva poi all’estremismo più radicale e letteralmente deforma i corpi dei suoi soggetti. Accade così che i seni di alcune giovani sembrino esplodere come palloncini gonfiati all’inverosimile e il collo di altre si allunghi somigliando a quello tortuoso di un cigno, fino all’opera Nude in a Covex Mirror dove l’intera silhouette della modella è trasformata in un enorme e levigato liuto fatto di carne e ossa.
John Currin
“John Currin Paintings”, vista della mostra al Museo Stefano Bardini, Firenze. © John Currin. Photo Emiliano Cribari. Courtesy of Gagosian Gallery

Beatrice Zamponi: Che significato ha nel suo lavoro la distorsione fisica?

John Currin: Rappresenta la fantasia di poter cambiare un corpo, un’immagine, qualsiasi cosa, semplicemente attraverso l’intensità dello sguardo: è l’idea di un occhio maschile che guarda e trasforma la realtà a suo piacimento. Nell’elaborare questo concetto mi sono rapportato molto alla fotografia di Carlo Mollino e al modo in cui spesso, ha manipolato il corpo. L’alterazione in sé è una metafora del desiderio maschile, una forma di lussuria.

Beatrice Zamponi: Subendo questa trasformazione le sue donne, troppo formose o troppo magre, non risultano mai sane, ma quasi aliene. Perché? E chi sono realmente?

John Currin Credo che la parte bella e seducente dei miei personaggi s’ispiri a mia moglie Rachel, mentre quella che racconta una borghesia annoiata parli di me stesso, sia un autoritratto. Non sono mai stato interessato a un’arte dalle forme idealizzate. Citando Poussin, uno dei miei artisti preferiti, i suoi lavori sono espressione di un’insoddisfazione rispetto al mondo in cui viveva; attraverso le mie forme distorte, racconto lo stesso sentimento nei confronti della realtà che mi circonda.

John Currin
“John Currin Paintings”, vista della mostra al Museo Stefano Bardini, Firenze. © John Currin. Photo Emiliano Cribari. Courtesy of Gagosian Gallery

Beatrice Zamponi: I suoi personaggi sembrano psicologicamente rimossi, anaffettivi, slegati dalla loro interiorità, dal presente, al fuori di un tempo logico e reale.

John Currin: Il senso di evasione, di nostalgia, di assenza dei personaggi, le stesse fantasie sessuali di cui sono spesso protagonisti rappresentano sempre una metafora del mio inappagamento e inadeguatezza rispetto al presente.

Beatrice Zamponi: Nella sua pittura l’uomo è spesso una figura marginale e in qualche modo subordinata alla donna, perché?

John Currin: Anche gli uomini si possono considerare una forma di autoritratto, ma non sono mai riuscito ad affrontare completamente il soggetto maschile, ho sempre lasciato che venisse fuori dal pennello senza troppo pensare; ha assunto naturalmente quei connotati deboli e fiacchi. La questione rimane ancora aperta.

Beatrice Zamponi: Nel suo lavoro il riferimento a manieristi come Parmigianino e Pontormo sembra essere molto evidente. Penso a Nude in a Convex Mirror, un misto tra l’Autoritratto entro uno specchio convesso di Parmigianino e La grande odalisque di Ingres, altro pittore che ha utilizzato molto la deformazione del corpo. Che cosa può dirmi sulla genesi di questo lavoro?

John Currin: Anche se non in forma diretta il riferimento agli artisti citati è stato assolutamente presente. Per quest’opera l’idea veniva da una foto che avevo scattato a una modella con una tromba. Osservando l’immagine, avevo notato i riflessi della figura sull’ottone e ne ero rimasto affascinato. Decisi allora di fotografare la ragazza attraverso una palla di metallo, un vetro o specchio deformato, inquadrando non lei direttamente, ma il suo riflesso, per poi dipingere la scena su tela. Tornavo quindi a rappresentare l’occhio, lo sguardo che scruta la realtà dando forma a un’ossessione visiva.

John Currin
“John Currin Paintings”, vista della mostra al Museo Stefano Bardini, Firenze. © John Currin. Photo Emiliano Cribari. Courtesy of Gagosian Gallery

Beatrice Zamponi: Il manierismo è stato un periodo di estremizzazione e di crisi degli stilemi classici, anche in conseguenza di un contesto politico e sociale difficile: quello della controriforma. Nel suo lavoro c’è un riferimento a una crisi della società contemporanea?

John Currin: Sicuramente le mie opere riflettono una rottura della fiducia nel sistema e lo svilupparsi di un pensiero sempre più individuale, al limite del paranoico. L’uso dello specchio convesso simboleggia l’isolamento e il blocco fisico rispetto a qualsiasi funzione sociale o politica dell’individuo. Qualche tempo fa, con il mio amico artista Rudolf Stingel, parlavamo dell’attuale declino americano: lui sosteneva che quando una società è in disfacimento, produce sempre un’arte straordinariamente potente. Secondo questa teoria quindi, questa dovrebbe essere la nostra età dell’oro artistica, perché di certo stiamo andando verso il collasso politico.

Beatrice Zamponi: Oltre alla deformazione, nella sua opera si trova anche la trasformazione: spesso ha ritratto donne incinte, c’è una ragione particolare?

John Currin: La gravidanza mi ha sempre affascinato come conseguenza inaspettata: improvvisamente il corpo di una donna cambia. L’intenzione non è mai stata rappresentarla come qualcosa di grottesco, ma come una grande sorpresa, soprattutto dal punto di vista visivo.

Beatrice Zamponi: Lei attua una trasformazione continua anche nel mischiare citazioni differenti e diversi periodi storici: il pastiche, l’eclettismo e l’incoerenza stilistica sono alla base della sua pratica artistica. Rispetto al suo lavoro ha parlato di una “volgarizzazione del passato” sostenendo che il progresso nell’arte è legato a questa idea.

John Currin: Credo che il processo di attualizzare, il rendere contemporaneo, sia di per sé una forma di volgarizzazione. Quando Goya rielabora o letteralmente copia opere di Velázquez, trasforma i personaggi e le loro espressioni in forme paradossali e fumettistiche. Gli stessi quadri di Poussin sono in fondo una parodia dell’arte classica, una semplificazione dell’antico, quasi una versione popolare.

Beatrice Zamponi: Molte delle sue opere mostrano espliciti soggetti erotici. Lei ha detto che la pornografia oggi è l’unico mezzo per rappresentare una forma di nudità che sia mitica. Può spiegare meglio?

John Currin: La pornografia ti consente di avere diversi corpi in un unico frame, l’unico altro contesto in cui oggi questo accade è in scene sportive, nel football ad esempio. Tornando all’attualizzazione, la pornografia diventa dunque strumento per realizzare una nuova versione dell’opera di Poussin e della sua travolgente carnalità.

E poi c’è un altro fatto: di solito si tolgono i vestiti per non avere distrazioni e implicazioni sociali, in questo caso levandoli le implicazioni sociali diventano ancora più forti perché il soggetto è pornografico; lavorare su questo paradosso mi ha sempre molto stimolato.

John Currin Paintings
“John Currin Paintings”, vista della mostra al Museo Stefano Bardini, Firenze. © John Currin. Photo Emiliano Cribari. Courtesy of Gagosian Gallery

Beatrice Zamponi: “Uno dei motivi per cui dipingo è quello di liberarmi dalla tirannia della lente fotografica”. Che cosa intendeva dire?

John Currin: Era un modo per negare l’idea che la fotografia corrisponda al reale. Nei quadri con le lenti convesse, ne svelo la mostruosità e il fatto che non sia assolutamente uno strumento neutro. La luce e il colore sono utilizzati come metafora in pittura tanto quanto in fotografia. È un medium che può inquinare la realtà, invaderla, togliendoci la possibilità di ricordare o vedere qualcosa per quello che è realmente.

Beatrice Zamponi: All’inizio della sua carriera lei aspirava a diventare un pittore europeo romantico. Un’ambizione piuttosto reazionaria. Può parlare meglio del suo primo approccio alla pittura?

John Currin: Quando ero alla scuola d’arte, guardavo a pittori come De Kooning o Pollock, mi confrontavo con l’espressionismo astratto. Finiti gli studi, ho iniziato però a immaginare la meraviglia di dipingere un lago, uno spazio fisico, allora ho cominciato a lavorare in una forma figurativa che tendeva al cartoon. In quel momento, ho capito quanto la mia reale aspirazione fosse in primo luogo la pittura europea.

Beatrice Zamponi: Recentemente ha dichiarato che in Europa oggi la gioia e la sicurezza necessarie per dipingere sono perdute. Che cosa intendeva dire?

John Currin: Credo che sia molto complesso per un pittore europeo crescere a confronto con un peso storico e una cultura così potente, il rischio è che l’eredità del passato, invece di stimolare, possa diventare un’incombente memoria da cui volersi solo sganciare. Tutti abbiamo bisogno di emanciparci dalle nostre origini, dalla nostra infanzia, ma anche di poterle ritrovare. Penso che l’unico modo per tornare ai fasti della grande tradizione europea sia proprio attraverso lo sguardo di uno straniero.

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