La via Emilia. Strade, viaggi e confini

L’XI edizione di Fotografia Europea esplora le diverse dimensioni del viaggio con grande lucidità e senza alcun intento dogmatico o retorico, intercettando le complesse dinamiche psicologiche, culturali, socio-economiche e politiche del presente.

Fotografia Europea, Antonio Rovaldi
L’edizione 2016 del Festival di Fotografia Europea a Reggio Emilia indaga con lucidità e senza tentazioni retoriche un tema che rientra nel DNA stesso dell’uomo: il viaggio, non solo in senso geografico ma anche come esplorazione di sé e ricerca di una possibile identità.
Comune denominatore è la volontà di lasciare alle immagini, per lo più non artefatte da post-produzione o tecnicismi, il timone della narrazione che è tanto più efficace e potente quanto meno è spettacolarizzata o enfatica. Una visione sostanzialmente condivisa, seppure con differenze interpretative, dai molti fotografi in mostra.
Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev, Hotel 2006
In apertura: Antonio Rovaldi, “Mo’dinna mo’dinna” (I wanna go back home), stampa fotografica in bianco e nero su carta baritata, Italia/America, 2016, 30x40 cm. Courtesy l’artista. Qui sopra: Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev, Hotel, 2006, c-print, 60x100 cm. Courtesy Laura Bulian Gallery, Milano
Punto di partenza ideologico è la mostra “1986 Esplorazioni sulla Via Emilia”, a cura di Luigi Ghirri, un evento che tracciò una svolta nell’interpretazione critica del mondo da parte della fotografia. Parte del materiale documentale, riproposto ai Chiostri di S. Pietro, ritrae la via Emilia come il leitmotiv lungo il quale gli elementi costitutivi della globalizzazione – dall’anonimato dei centri urbani allo spaesamento generato dalla perdita di radici – venivano progressivamente sostituendosi alla matrice rurale dei luoghi. È attraverso l’attenzione alla normalità, alla “qualsiasità più che all’eccezionalità” (per citare Zavattini) che i fotografi di allora registravano con struggente fatalismo il cambiamento in atto, allineandosi all’approccio concettuale di Walker Evans (“Anonymous” e “Italia”, Palazzo Magnani). Da qui muovono i passi gli interpreti che oggi, nella mostra “2016 Nuove Esplorazioni“ (Chiostri di S. Pietro), sono chiamati a indagare come si è modificato il paesaggio emiliano. Le strade ordinarie di Alain Bublex, la via Emilia inanimata di Sebastian Stumpf, la città desertica di Antonio Rovaldi: come allora, nessuna esasperazione alla moda nessun cedimento all’autoreferenzialità, solo una diversa libertà espressiva grazie alle tecniche di comunicazione attuali.
Cyrus Mahboubian Palm Tree, from the series Mulholland Los Angeles, 2015
Cyrus Mahboubian Palm Tree, from the series Mulholland Los Angeles, 2015. Unique polaroid 8.5 x 10.8 cm. © Cyrus Mahboubian

Ma la strada, il viaggio, la tensione alla ricerca oggi assumono dimensioni e declinazioni mai avute in passato e la manifestazione si spinge dal territorio emiliano al mondo, arricchendosi di suggestioni e riflessioni disparate.

Alcune mostre indagano come oggi viaggiare significhi ancora ricercare se stessi attraverso esperienze artistiche fortemente individuali: è la chiave di lettura di Giuliano Ferrari (“Gran Tour. Viaggio nel tempo dell’iPhoneography”, Galleria Parmeggiani) o di Cyrus Mahboubian e Sophie Nicole Culiére (“Wanderlust”, Chiostri di S. Domenico) che attraverso il digitale e processi di produzione lenti, doppia esposizione e assemblaggi, introducono a mondi intimistici e misteriosi. Altre mostre mettono l’accento sul fascino dell’esplorazione geografica di luoghi a-temporali, come negli scatti di Ikuru Kuwajima (“Trail”, Chiostri di S. Domenico) lungo il confine tra Afghanistan e Tagikistan.

Patrick Zachmann, On the road at night
Patrick Zachmann, On the road at night, a small family of illegal immigrants which fled the Taliban, has succeeded to cross the Egean sea from the Turkish border and reached Lesvos. Island of Lesvos, Greece, 2009. © Patrick Zachmann / Magnum Photos

Tuttavia, il cuore di questa edizione sta nel veicolare una drastica e poco accomodante declinazione del concetto di viaggio: un approccio disincantato che si respira nella parte di taglio più sociologico e documentaristico della edizione 2016. La fascinazione romantica della strada non è mai stata più lontana dalla complessità attuale che non è solo psicologica ma anche sociale, economica e politica.

Bruce Chatwin diceva che la vera casa dell’uomo non è una casa ma è la strada e che la vita stessa è un viaggio da fare a piedi: la visione sognante di un flâneur, opposta a quella di chi oggi interpreta il viaggio come un fardello dell’anima. In un quadro geopolitico complesso come quello attuale, la strada diventa un limes, una barriera laddove prima c'era continuità, o un trait d'union tra mondi e culture prima privi di comunicazione. La geografia del paesaggio e delle relazioni umane è profondamente alterata e lo sguardo fotografico non può che recepirne l’impatto storico.

Françoise Beauguion, In the Country Nowhere – 02, Kos Island, Greece, 2015
Françoise Beauguion, In the Country Nowhere – 02, Kos Island, Greece, 2015. 50 x 65 cm, print on durst Lambda Imager. © Françoise Beauguion
Sono gli scatti che intercettano la “gente senza terra”, persone invisibili e obbligate al transito come raccontano le immagini dei migranti di Françoise Beauguion (“In the Country Nowhere – Migrations to Europe”, Chiostri di S. Domenico); dei fotografi di “Exile Magnum Photos” (Chiostri di S. Pietro) che catturano la sofferenza della partenza in una dimensione meta-storica; di Paolo Pellegrin (“Another Country”, “Dalla via Emilia al mondo”, Palazzo da Mosto) che ritrae ingiustizia e deprivazione al confine sud-ovest tra Stati Uniti e Messico; di Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev (“A New Silk Road: Algorithm of Survival and Hope”, “Dalla via Emilia al mondo”, Palazzo da Mosto) che intercetta nel territorio immutato del Kirghizistan l’andirivieni perenne dei camion stracolmi di ferraglie in viaggio per la Cina come simbolo del processo di migrazione e cambiamento a cui da anni è sottoposta la popolazione locale.
Ikuru Kuwajima, Trail 2, View of Afghanistan from the Tajikistan side in the Pamir mountains
Ikuru Kuwajima, Trail 2, View of Afghanistan from the Tajikistan side in the Pamir mountains, The Pamirs 2012–2013. © Ikuru Kuwajima
Il contributo della manifestazione, al di là di qualsiasi intento risolutivo o dogmatico, sta soprattutto in una interpretazione aspramente realistica dei temi del viaggio e della ricerca dell’identità in senso tradizionale. Ciò che emerge è la matura consapevolezza che lungo la via Emilia, sulle montagne del Pamir o nella più anonima periferia tedesca, in questo tempo di globalizzazione è percepibile l’aspirazione affannosa a una vita o a un mondo migliori, attraverso la ricerca disperata di un’identità. Tuttavia, oggi il concetto di identità è labile come i confini, le lingue, le tradizioni. Le nostre radici forse non sono così profonde come crediamo o speriamo. E la transizione è una dimensione a cui siamo destinati, obtorto collo, al di là di qualsiasi visione di patria, confine o casa a cui restiamo accanitamente aggrappati. Al di là di qualsiasi vestigia di un passato dal quale mai come oggi siamo più distanti, come suggeriscono gli scatti di Paola De Pietri (“Questa pianura”, “Dalla via Emilia al mondo”, Palazzo da Mosto) dove gli alberi e le case ci osservano dalla nebbia come testimoni silenziosi di un tempo remoto, forse migliore, ma inesorabilmente scomparso.
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