Biennale: i padiglioni nazionali ai giardini

Una scelta dei più interessanti padiglioni nazionali di questa edizione.

Ogni anno, in occasione della Biennale, Venezia si trasforma in un modello in scala ridotta della situazione geopolitica globale; e i nuovi equilibri mondiali, facendosi tangibili, generano nuovi padiglioni nazionali. Il loro significato, e la loro stessa legittimità, in un mondo che si dichiara ormai globale, vengono rimessi in questione ad ogni edizione; eppure il loro numero aumenta inesorabilmente: quest'anno sono 89. Il fatto è che uno spazio di rappresentanza, a Venezia, lo vogliono tutti; e i paesi che ancora non lo hanno sono disposti a grandi sforzi pur di ottenerne uno.

Così, se all'interno dei Giardini si possono visitare i padiglioni degli stati che da cent'anni rappresentano i punti di riferimento dell'assetto mondiale, per visitare gli altri bisogna uscire dalle grandi sedi storiche della Biennale e percorrere l'intera città.
D'altra parte, per chi, la Biennale, la visita, questi padiglioni costituiscono un punto di riferimento importante; quest'anno in particolare le sorprese positive sono numerose anche per chi si limiti a visitare i Giardini.

A partire dagli Stati Uniti, il cui padiglione si staglia in fondo al viale principale dei Giardini; qui il duo di artisti originari di Puerto Rico, Allora & Calzadilla, si annuncia sin dall'esterno dell'edificio con una spettacolare installazione consistente in un carro armato rovesciato in cima al quale è collocato un tapis roulant. Ogni ora il carro armato si risveglia, i cingolati del mezzo girano a vuoto fragorosamente, e per alcuni minuti un atleta dal fisico atletico corre sul tapis roulant.
In alto: Allora&Calzadilla. Padiglione statunitense; qui sopra: Dora García, L'inadeguato; fotografia: Andrea Basile. Padiglione spagnolo
In alto: Allora&Calzadilla. Padiglione statunitense; qui sopra: Dora García, L'inadeguato; fotografia: Andrea Basile. Padiglione spagnolo
Non distante sorge il padiglione della Gran Bretagna reso irriconoscibile da Mike Nelson, che al suo interno ha creato un intrico percorribile di minuscole stanze trasandate, di anfratti, di scale di legno. L'insieme si apre su un piccolo patio ed evoca Istanbul, ma anche Venezia; una Venezia ben diversa da quella che fa da scenario a questa Biennale: tutto, in questo microcosmo, parla di nostalgia, di abbandono, di povertà e di mancanza.
Il senso di ossessione che ne spira si ritrova, in una diversa accezione, nel padiglione tedesco che sorge poco lontano. Dedicato a Christoph Schlingensief, cineasta morto al termine di una malattia dopo essere stato invitato a rappresentare la Germania, di nuovo il padiglione risulta completamente stravolto. La sua struttura interna è stata trasformata in una chiesa, teatro di una dolorosa, personalissima riflessione, da parte dell'artista, sul ciclo della vita, sul disfacimento e sulla morte. Film, video, elementi pittorici distribuiti nello spazio concorrono a infondere allo stesso un soverchiante senso di fine.

Ed è ancora un senso di negazione a spirare dal padiglione svizzero, affidato quest'anno a Thomas Hirschhorn; ma questa volta, nella voluta, impressionante, irriverente ridondanza di elementi disposti dall'artista in maniera apparentemente precaria, a sgretolarsi è la possibilità di un pensiero semplice e stabilmente lineare; sostituito qui da un approccio più vitale, aperto, dinamico.
Christoph Schlingensief, Via Intolleranza II, Premiere Kunsten Festival des Arts Brüssel May 15, 2010 © Aino Laberenz. Padiglione tedesco
Christoph Schlingensief, Via Intolleranza II, Premiere Kunsten Festival des Arts Brüssel May 15, 2010 © Aino Laberenz. Padiglione tedesco
Anche il padiglione spagnolo, affidato a Dora García, esprime inclusività e apertura agli sviluppi dei prossimi mesi. García dichiara di non essere "artista da Biennali", ed equipara la Biennale di Venezia alle grandi fiere. Adotta la posizione teorica della non autorialità. In realtà è presente nell'ambito di fiere e di biennali; ma le opere che propone sono effettivamente esito di modelli operativi alternativi: accomunate da una propensione per la condivisione e da una processualità dilatata nel tempo, raramente si cristallizzano in oggetti conclusi. Per lo più mantenengono invece la forma di processi, di interventi, di storie vissute direttamente da lei stessa e da chi le condivide. Così in occasione dell'invito a rappresentare la Spagna alla Biennale di Venezia, ha trasformato il padiglione in un centro di produzione culturale. Ha cioè orchestrato una serie di incontri destinati a svolgersi nell'arco di tutta la durata della Biennale. E, stimolata forse proprio dal senso di disagio rispetto al ruolo ufficiale che si trova a incarnare, ha individuato il tema degli incontri nell'"Inadeguato"; ha cioè deciso di trasferire nel luogo dell'ufficialità ciò che è normalmente considerato marginale, nel fulcro dell'attenzione ciò che tendiamo a vedere solo con la coda dell'occhio, e poi a scartare dalla mente. Ispirata dai testi di Franco Basaglia, psichiatra italiano morto nel 1980, dopo aver operato un recupero della follia come carattere sociale comune, Dora García ha invitato a conversare, nell'ambito del padiglione, artisti e pensatori che al tema della marginalità, dell'estraneità, della precarietà hanno dedicato il proprio lavoro; come Cesare Pietroiusti, Wurmkos, Nanni Balestrini; e ha idealmente convocato figure come Carmelo Bene e Fabio Mauri, che vivranno attraverso immagini, documentazioni e la parola di studiosi ed esperti.
Così, se la forma della sua opera è quella di una performance estesa nel tempo ed affidata a numerosissimi attori, il padiglione diventa luogo teatrale ed è accuratamente, benché sobriamente, allestito, con libri, testi, video, angoli di lettura e piattaforme pronte per presentazioni e discussioni.
In occasione della Biennale, Venezia si trasforma in un modello in scala ridotta della situazione geopolitica globale; e i nuovi equilibri mondiali, facendosi tangibili, generano nuovi padiglioni nazionali
Agency
Assembly (Speech Matters),
1992 -; fotografia: Andrea Basile. Padiglione danese
Agency Assembly (Speech Matters), 1992 -; fotografia: Andrea Basile. Padiglione danese
Dedicato a un tema attuale e cruciale, quello della libertà di parola, è pure il padiglione danese. Le opere presentate dalla curatrice Katerina Gregos, riguardano sia la situazione vigente nei regimi apertamente autoritari, sia quella di troppe democrazie fintamente liberali, basate sugli atteggiamenti demagogici di governi arrogantemente populisti.
Gli artisti coinvolti sono numerosi e le opere eccezionalmente pregnanti; tra le altre troviamo le storie a fumetti di Robert Crumb: parodie estreme che, intrise di umorismo fosco, trasgrediscono ogni possibile tabù; i disegni di Tala Madani, iraniana, che raccontano la libertà di espressione soffocata in società che agli individui richiedono sottomissione; i dittici di Zhang Dali, che investiga la relazione tra la storia e l'immagine fotografica, ed espone una serie di fotografie, ognuna delle quali presentata in due diverse versioni: quella ufficiale, dell'epoca di Mao, destinata ad essere diffusa pubblicamente, e quella originale tratta dai negativi dell'epoca ritrovati dall'artista attraverso una serie di ricerche di archivio. La discrepanza tra le due versioni risulta estremamente eloquente. Esposti anche i film di Jan Svankmajer, straordinarie metafore dei meccanismi di ingegneria sociale e delle politiche sottilmente coercitive messe in atto da sistemi oppressivi. In particolare il suo The Garden, del 1968, fa riferimento alla situazione della Cecoslovacchia dell'epoca. Sul fianco al padiglione, come un vero e proprio parassita, campeggia una struttura con un gigantesco megafono: uno "Speaker's Corner" costruito da Thomas Kilpper come esplicito invito a "farsi sentire".
Gli altri artisti presenti nel padiglione sono Agency, Ayreen Anastas e Rene Gabri, Stelios Faitakis, FOS, Sharon Hayes, Han Hoogerbrugge, Mikhail Karikis, Runo Lagomarsino, Wendelien van Oldenborgh, Lilibeth Cuenca Rasmussen, Taryn Simon, Johannes af Tavasheden, Tilman Wendland.
Sigalit Landau,
Salted Lake (Salt Crystal Shoes on a frozen Lake), 2011
HD-Video, 11:04
veduta dell'installazione,  © Sigalit Landau
Courtesy l'artista e kamel mennour, Parigi. Padiglione israeliano
Sigalit Landau, Salted Lake (Salt Crystal Shoes on a frozen Lake), 2011 HD-Video, 11:04 veduta dell'installazione, © Sigalit Landau Courtesy l'artista e kamel mennour, Parigi. Padiglione israeliano
È ancora l'afflato di libertà ad animare il padiglione egiziano. Ma questa volta l'arte si fonde con la vita, la vita si fa epopea, e si fa tragedia. Ci sediamo nell'oscurità e ammutoliamo. Di fronte a noi, su una serie di schermi, scorrono emozionanti le scene delle manifestazioni collettive di piazza Tahrir. Parte dei video riguarda le performance dell'artista Ahmed Basiony, che a quelle manifestazioni partecipò con tutto se stesso, e fu poi ucciso, a gennaio, proprio durante le rivolte. Il suo ultimo post su Facebook si chiudeva con la frase "If they want war we want peace. I am just trying to regain some of my nation's dignity."

Emoziona anche il progetto di Yael Bartana, artista israeliana che rappresenta la Polonia con un'opera tra le più potenti di questa biennale: la trilogia "And Europe will be Stunned" composta dai video "Mary Koszmary" (Nightmares), "Mur I Wieza" (Wall and Tower) e Zamach (Assassination). Il lavoro è stato girato dall'artista in Polonia e rappresenta una sorta di versione alternativa della storia dei rapporti tra il Sionismo e la Diaspora ebraica. Con un allestimento che ricorda i chekpoint israeliani e un linguaggio filmico accuratissimo, che evoca il genere documentario ma include stilemi della propaganda comunista e sionista degli anni Quaranta e Cinquanta, l'artista crea una fiction in cui si fondono elementi legati all'antisemitismo europeo e alla Shoah, alle utopie socialista e sionista, al tragico rapporto che lega attualmente israeliani e palestinesi. Il racconto, straordinario per capacità sintetica, per densità di significato e per qualità visionaria, si sviluppa in un tono alto e drammatico sulla base di un immaginario politico che non teme di affrontare i traumi più profondi del passato e i nodi più complessi del presente; che nasce dall'esasperazione nei confronti di un'attualità inaccettabile e che invita a pensare che proprio laddove ogni soluzione tentata abbia fallito, è al coraggio e all'immaginazione che dobbiamo fare appello. Ma, evocando la tensione e le tragedie dovute all'incapacità di convivere, la metafora costruita da Bartana risuona assai al di là della storia recente, e trascendendo la contingenza acquista un significato universale. Invitando questa artista, la Polonia prova di aver avviato un percorso di riflessione sulla relazione ebraico - polacca.
Sigalit Landau
Salt Bridge Summit, 2011
12 canali video e   installazione sonora, ?300 cm tavolo tondo in legno, 12 laptop, con il video “Laces”.
veduta dell'installazione© Sigalit Landau
Courtesy l'artista e kamel mennour, Parigi. Padiglione israeliano
Sigalit Landau Salt Bridge Summit, 2011 12 canali video e installazione sonora, ?300 cm tavolo tondo in legno, 12 laptop, con il video “Laces”. veduta dell'installazione© Sigalit Landau Courtesy l'artista e kamel mennour, Parigi. Padiglione israeliano
Israele è invece rappresentato da Sigalit Landau con un insieme di opere che, pur mantenendo una componente di enigmaticità, risultano fortemente allusive all'attuale situazione del paese; le sue videoinstallazioni trasmettono un'impressione di insensatezza del presente, la consapevolezza di una nazione sospesa tra passato e futuro, sovraccarica di storia, impegnata in un gioco dal quale si potrà uscire solo quando si comincerà a costruire ponti. In uno dei suoi video, Azkelon, Landau mette in scena il gioco: si tratta di un passatempo comune tra i ragazzi che sulla spiaggia, che sia ad Ashkelon o nella confinante Gaza, tracciano i confini di un'area e poi si dedicano ad occupare porzioni del territorio altrui spostando continuamente i confini già tracciati in base alla posizione ottenuta lanciando affilati coltelli sulla sabbia. Se queste sono le regole del gioco, se oggi il gioco sembra dover continuare a ripetersi, pure immaginare un ponte è possibile e necessario; certo, in una situazione di ardua interdipendenza come quella israeliana, le modalità vanno ancora individuate. Ma l'arte ha il ruolo di fornire paradigmi; e Landau ne sta progettando uno di sale, per collegare il Mar Morto con la Cisgiordania. Una delle opere in mostra consiste nell'esposizione della corrispondenza relativa a questo progetto.
Decisamente più rarefatto il padiglione Austriaco, anche se gli individui che Markus Schinwald presenta nei propri video risultano sempre sospesi in un'atmosfera ansiosa, alienati da se stessi e dal contesto, impediti nei movimenti da forze contrarie e da imprevedibili intralci. Abbandoniamo il suo mondo frammentato e claustrofobico e prima di lasciarci alle spalle i Giardini, possiamo fermarci nello storico bar Paradiso. Qui, ad alleggerirci, troviamo l'esilarante lavoro di Navin Rawanchaikul che rappresenta la Thailandia. Da tempo l'artista s'impegna nella ricerca di una nuova, personale versione del Paradiso. Da un retroterra fatto di domande fondamentali sul concetto di cittadinanza e di nazione, è nata così Navinland, una comunità senza confini I cui componenti si muovono tra realtà e fantasia. Atteggiamenti e codici visivi di questo mondo sono mutuati da Bollywood e i personaggi in questione vivono avventure a buon mercato, inseguendo una versione pop delle moderne utopie.

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