Microgravità: Héctor Zamora

Modelli di spazio micro-gravitazionale sanno alleggerirci dal peso della vita quotidiana e permettono di aggrapparsi a un velo di leggerezza.

Zamora (Messico1973) vive e lavora a San Paolo, Brasile. Si è laureato in Graphic Design alla UAM – X, Città del Messico, nel 1998. Lavorando sugli spazi pubblici, ha creato le sue opere più importanti, che spesso riorganizzano le caratteristiche fisiche di uno spazio urbano o architettonico. Inventa strutture leggerissime, che a volte galleggiano o danno l'impressione di farlo, spesso realizzate con materiali pesanti come cemento, mattoni o pietra. L'artista messicano si appropria dello spazio pubblico, coinvolgendo le comunità locali in complesse ma divertenti operazioni collettive, con installazioni che enfatizzano certi aspetti della vita urbana che, altrimenti, daremmo per scontati.
15 ottobre 2009: due piani di due edifici ad angolo modernisti quasi identici nel centro di Bogotá, in Colombia, sono imbottiti – dal pavimento al soffitto – con centinaia e centinaia di banane di un verde intenso.
8 novembre 2009: negli ultimi venti giorni, le banane, che sporgevano ormai dalle cornici delle finestre, erano lentamente passate dal verde al giallo, fino a un marrone muffito, spandendo tutto intorno un odore pungente. Sui quotidiani di Bogotá, i cronisti continuavano a chiedersi quale significato avesse questa installazione di Héctor Zamora. Forse l'artista intendeva sollevare una critica di carattere sociale alle aggressioni nel centro cittadino? Esprimere un commento sullo scandalo delle banane che, solo due anni prima, era culminato in una multa di 25 milioni di dollari alla Chiquita, accusata di intrattenere legami con gruppi paramilitari colombiani? O andava magari ancora più a fondo nelle piaghe nazionali, con riferimenti al Banana Massacre del 1928, quando il governo aveva brutalmente posto fine a uno sciopero dei lavoratori delle piantagioni? Niente di tutto questo.
Per quanto Zamora sia perfettamente consapevole del ruolo della banana nella storia della società colombiana, ha creato Atopic Delirium come responso intenzionalmente naïf all'ubiquità del frutto tropicale nella vita quotidiana delle strade della Colombia. Descrive l'installazione come un dipinto vivente, che cambia la nostra prospettiva sull'epidermide dell'edificio, costruendo un lavoro libero da riferimenti politici.
Quest'opera è spesso considerata centrale nella produzione di Zamora: ciò nonostante, io credo che il suo lavoro possa essere meglio compreso a partire da un intervento pubblico del 2008 intitolato Every Belgian is born with a brick in the stomach ("Tutti i belgi nascono con un mattone nello stomaco"). Nella cittadina di Genk, in Belgio, l'artista ha lavorato col pubblico locale alla creazione di parole realizzate con mattoni prelevati da una cava tra gli scarti di una miniera di carbone, un progetto descritto come "espressione in stile graffiti". Tuttavia, mi chiedo se questo lavoro non possa, invece, essere visto come un approccio intellettuale 'lieve' al tema della gravità: i nostri tempi sono, infatti, caratterizzati da una certa pesantezza, che contrasta vivamente con quel che accadeva all'incirca cent'anni fa, quando, nonostante il mondo sollecitasse un confronto politico anche aspro, era avidamente ed entusiasticamente coinvolto nella sperimentazione con aeroplani, dirigibili e metodi di costruzione.
Molte culture contemporanee sembrano, invece, gravate dal peso della responsabilità, da stress, paura, dubbi e, forse ancor più, dal peso della cultura consumistica. Nell'intervento di Genk, Zamora gioca con quel peso sullo stomaco che, di tanto in tanto, tutti sentiamo, in un contesto che può essere interpretato come un riferimento alla lettura di Newton della gravità, vista come forza di attrazione tra due oggetti, in questo caso la terra e il corpo. D'altronde, gran parte del lavoro di Zamora ruota intorno alla lotta tra peso e leggerezza: l'artista crea strutture leggerissime, che spesso galleggiano o danno l'impressione di farlo. C'è qualche ovvio legame con l'opera di icone della leggerezza come Frei Otto e Buckminster Fuller, ma forse anche una felice mancanza di ambizione architettonica: Zamora infatti non impressiona con progetti minuti, o con l'uso dei materiali leggeri più nuovi.
Per sfidare le nostre nozioni di leggerezza, utilizza spesso materiali pesanti come cemento, mattoni o pietra. La maggior parte dei suoi progetti non intende nemmeno entrare a far parte intrinseca del paesaggio urbano; sono transitori ed enfatizzano aspetti della vita urbana che altrimenti daremmo troppo facilmente per scontati. I suoi lavori variano da pezzi effimeri che modificano appena lo spazio urbano – come l'opera realizzata usando delle amache e concepita come un commento sulla mancanza di tempo libero (Nagoya, 2010), una struttura di galleggianti in gomma che cresce lentamente (San Paolo, 2006), una struttura in corda per giocare (L'Avana, 2006), passando per una serie di alberi sospesi sopra un canale (San Paolo, 2010) e palloni fluttuanti (Busan, 2006) – per giungere a pezzi che diventano quasi architettura. Come le lastre di copertura del tetto che galleggiano sopra un parcheggio (Cuernavaca, 2006), la membrana di plastica rossa che serpeggia attraverso, intorno e sopra gli spazi di una galleria (Città del Messico, 2003) o la struttura parassitaria che pende dal tetto del Museo Carrillo Gil (Città del Messico, 2004).
I progetti di Zamora misurano e riducono il peso della cultura e talvolta ci consentono di liberarci dal risucchio gravitazionale delle nostre città in una fuggevole periferia di microgravità: un ambiente in cui la forza di gravità è ancora presente, ma il cui effetto, almeno per il momento, è trascurabile. L'artista ci trasporta in questa prospettiva non per il fatto di essere molto diretto o di avere una visione politica come molti altri suoi colleghi, ma creando ambienti in cui nemmeno lui ha pieno controllo del modo in cui vengono usati, percepiti oppure cambiano. Così, proprio in questi modelli di spazio microgravitazionale, Zamora ci mostra come una banana, anche nel contesto culturale più carico, se lo vogliamo non è altro che una banana, e che qua e là nella pesantezza della vita quotidiana possiamo aggrapparci a un velo di leggerezza.

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