Lisa Ponti ricorda Mario Tedeschi

Mario Tedeschi è mancato nel novembre 2005. Lisa Ponti lo ricorda

Tedeschi sa cosa vuol dire ‘casa’. Fra tutti gli architetti che abbiamo conosciuto, ammirato, pubblicato in Domus, è ancora unico in questa primitiva qualità del sapere. non bisogna farsi ingannare dallo humour con cui Tedeschi parla e scrive. Come i bambini, può dare del tu all’architettura e del tu all’arte. Sa cosa sono. Tedeschi – che entrò in Domus nel 1948, primo redattore architetto nella rivista riconsegnata a Ponti – è il giovane talento con cui Chessa, Viganò e Ponti stesso hanno avuto immediati rapporti congeniali.

Penso, in questo momento, al Viganò che Tedeschi pubblica subito in Domus (n. 231, 1948). Il compensato curvato di Viganò genera in Domus una indimenticata pagina/segnale e, nello stesso fascicolo, lo ‘studio’ milanese di Viganò – con le due grandi pale del Tintoretto sospese dosso a dosso e ‘librate’ nel vuoto – genera un discorso essenziale, di Tedeschi, sul co-abitare con l’arte. Per Chessa, penso alla casa ‘poliedrica’ che Tedeschi pubblica, splendidamente, nel 1952 (Domus 268): qui le pareti inclinate e la – isolata – “scala/catasta” (con balaustra ‘volante’) restituiscono all’architettura – scrive Tedeschi – “quella possibilità fantastica e acrobatica che hanno i praticabili in teatro”… “L’ambiente può, come una caverna, o una cella sospesa, o una chiglia capovolta, essere un corpo da toccare, sentire, o intuire, con testa, mani, piedi…”.

È un contrapporsi, questo, al dogma razionale – “astratto, matematico, puramente intellettuale e visivo” – dell’architettura ‘disegnata’. E questo è il Tedeschi che, tre anni prima, nel progetto Faust 1949 aveva pensato, per un solitario studioso, un “abitare in verticale” entro un’altissima ‘nicchia’, una nicchia come se ne incontrano nell’architettura antica. Niente paura dell’architettura antica! Niente paura del concavo, del convesso, dell’arcuato, del massiccio che l’architettura antica ci offre… Anzi, divertimento. Un divertimento concesso ai soli architetti italiani, forse (e ai bambini, che sanno ‘annidarsi’ e “fare casa” ovunque). La chiave, forse, di questo procedimento mentale è nel mantenere le diversità, nel non-uniformare (le superfici, gli spazi, le materie).

Insomma, nel “mantenere l’anomalo”. Anche l’introdurre il “fuori scala” (a Tedeschi sta a cuore) è un “mantenere l’anomalo” (Domus 246, 1950; Domus 254,1951). E anche i “mobili di fantasia” che Tedeschi realizza per la IX Triennale, 1951, sono un progettare anomalo, fondato come è sul distinguere, sul separare, la forma dalla funzione (Domus 261, 1951). È bello leggere quel che Tedeschi ne scrive (Tedeschi è tutto da leggere). In Domus (n. 245, 1950), Tedeschi si auto-intervista su “quel gioco fatto di estro, non di materia, che è l’arredamento”: “Una libreria, se la disegno avrà il minimo di materia e il massimo di carico. Con la luce ne faccio un pieno o un vuoto, la ingigantisco o la riduco…” e “Il vero arredamento è quello di Robinson Crusoe: dalla Bibbia all’accetta. Arredamenti principe sono, nella nostra mente, quelli di Antonello da Messina, quelli di Dürer: stanze arredate come cervelli, arredate di oggetti: pistole, piatti, cannocchiali, leoni…”. (A casa propria, a Milano, Tedeschi conviveva con un Melotti gigante – uno dei Sette Savi in gesso – fra modellini di velieri e armi antiche (Domus 286, 1953).

Un ambiente mai solitario, il suo. Le case che Tedeschi ha progettato e anche costruito – case in campagna, su un prato, vicino a un bosco, su un lago, vicino a un fiume… – sono case “per molti”, come le chiama. Ed è la vita di questi molti (adulti, giovani, bambini) che suggerisce l’architettura: gioco di dislivelli, tante celle minuscole e un soggiorno grandissimo, sotto l’ala obliqua del tetto. Quest’ala ci vuole. Lisa Ponti

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