Reframing back

Quello dell’Egitto alla Biennale di Venezia è quest’anno un padiglione speciale. Il concorso è stato vinto da un gruppo di cinque giovani nati tra il 1991 e 1992, tre dei quali studenti del Politecnico di Milano, uno egiziano e due italiani. Il testo di Manar Moursi inquadra la situazione del paese.

Padiglione Egitto, Biennale Venezia 2016, Reframing back
ll concorso per il padiglione egiziano è stato vinto da un gruppo di cinque giovani nati tra il 1991 e 1992, tre dei quali studenti del Politecnico di Milano, uno egiziano e due italiani. Già questo è un bel risultato che si deve, anche, alle primavere arabe. Sì, perché nel 2011 uno degli esiti della primavera egiziana è stato la pressione sul Ministero della Cultura affinché i processi di selezione dei progetti culturali fossero più trasparenti.

Facendo rete con diverse istituzioni, a dimostrare che i ragionamenti sono e possono essere frutto di molteplici collaborazioni, i curatori hanno coinvolto l’Accademia Egiziana a Roma, la National Organization of Urban Harmony e anche il Master of Urban Design dell’ETH di Zurigo, School of Design of University of Pennsylvania, Mittelmeerland of AA School of Architecture, Lund University, e MSA Dipartimento di architettura, oltreché studi e collettivi egiziani e Traslochi Emotivi, progetto d’arte contemporanea italiano.

Il discorso dell’architettura egiziana è stato costruito per esempi di progetti che, a partire dalla situazione reale, intervengono dal basso sia nelle situazioni più difficili, come nelle sterminate bidonville del Cairo, sia, ad esempio, nella analisi per la ricostruzione di un corretto rapporto con le acque del Nilo delle aree sottratte all’agricoltura.

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back/Imperative confrontation, modello di Ard El Liwa con le proposte degli studenti di MAS Urban Design

Il padiglione africano si propone perciò come interprete, senza la pretesa di essere esaustivo, di numerose situazioni e azioni architettoniche che cercano di rispondere alle domande pressanti della sempre crescente popolazione, e dove l’architettura può incarnare valori di democrazia anche nella situazione politica odierna dove sono per molti altri aspetti negati. Sembra proprio che sia nel melting pot culturale, che molti ragazzi vivono, che si trovano le possibilità di un discorso culturale che, armato di molteplici strumenti relazionali e di pensiero, permette alla globalità di assumere valori positivi.

Il desiderio dei curatori è quello di condividere la discussione sulle possibili soluzioni ai problemi, tanti, evidenziati. Di nuovo cercando risposte e confronti col mondo con l’intento, esplicitato anche nel catalogo, che le conoscenze condivise possano aiutare a migliorare la situazione abitativa in condizioni economiche, geografiche, demografiche e politiche difficili. 

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back/Imperative confrontations, rappresentazione del Abdelhalim Ibrahim’s Cultural Park a Sayyeda Zeinab

 

Presentiamo la versione riveduta di un testo sul padiglione dell’Egitto alla 15.Biennale Architettura di Venezia. I contenuti presentati al padiglione dell’Egitto di quest’anno sono stati commissionati dal giovane architetto egiziano Ahmed Hilal insieme con un gruppo italo-egiziano di curatori di cui facevano parte Eslam Salem, Gabriele Secchi, Luca Borlenghi e Mostafa Salem. Autrice del testo è Manar Moursi, dello Studio Meem.


Che cosa sta accadendo alla produzione del sapere? A proposito del padiglione dell’Egitto alla Biennale Architettura di Venezia di quest’anno

 

In risposta alla trasformazione del panorama socioeconomico, all’esplosione delle bolle dell’economia e al confronto con i limiti e la vulnerabilità delle risorse dell’ambiente, negli anni recenti una delle tendenze interessanti della pratica dell’architettura a livello mondiale è stata il cambiamento di rotta verso la ricerca e la produzione di saperi al di fuori dei tradizionali progetti costruiti e commissionati. Più spazio ha inoltre avuto chi analizza il ruolo dell’architettura nella realizzazione di ambienti costruiti socialmente ed ecologicamente sostenibili.

In Egitto questo modo di produzione, per quanto marginale, ha accresciuto la sua attualità come in ogni altro luogo. Un numero sempre crescente di architetti e di accademici formulano e pongono domande, esprimendo nuove idee e lavorando con strumenti inconsueti.

L’Egitto è tuttavia un caso d’emergenza per i ricercatori dell’architettura e dell’urbanistica, in parte tra l’altro a causa del suo tasso di crescita demografica senza paragoni, che richiede una soluzione immediata. Si valuta che nel 2016 oltre la metà della popolazione egiziana abbia tra 25 e 45 anni. L’ago della bilancia si sposta perciò verso l’affermazione delle aspirazioni giovanili. La rivolta del 2011 è stata solo la fermata di un treno in viaggio, con molte fermate e molteplici rivendicazioni.

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back/Imperative confrontations, National Organization of Urban Harmony’s Khedival Cairo, mappatura

Espansione selvaggia e urbanistica informale sono state le due dinamiche parallele della crescita delle città egiziane nell’ultimo mezzo secolo. Dove lo Stato non è riuscito a trovare una soluzione, una vigorosa economia informale ha fornito abitazioni alle famiglie di reddito medio-basso, provocando un tasso senza precedenti di urbanizzazione, di edificazione e di invasione degli scarsi territori agricoli.

Mentre i diseredati hanno fatto ricorso all’architettura e all’urbanistica fai da te, la classe dirigente si è rintanata e sviluppata nella sicurezza dei nuovi quartieri suburbani recintati del deserto, promossi dallo Stato. Invece di affrontare alla radice i problemi della città, la soluzione è stata l’evasione dalla realtà. Tuttavia, per quante abitazioni fai da te vengano realizzate, nel contesto di una vera e propria esplosione demografica migliaia di famiglie mancano ancora di un’abitazione e di un adeguato accesso alle infrastrutture.

La giustizia sociale – compresa l’uguaglianza nell’accesso alla casa, alla salute e alle possibilità di lavoro – era una delle richieste fondamentali delle forze rivoluzionarie del 2011. Sull’onda del contesto postrivoluzionario alcuni architetti, alcuni urbanisti e alcuni ricercatori hanno messo seriamente in discussione il doppio percorso dello sviluppo egiziano, con l’obiettivo di creare una potenziale forza di cambiamento e di riforma. Sono i frutti del loro lavoro quelli presentati alla 15.Biennale Architettura di Venezia.

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016. Reframing back/Imperative confrontations, la ricerca di Baladilab su Downtown Cairo

Nell’antichità l’Egitto veniva comunemente chiamato Kemet, “terra nera”, probabilmente in riferimento allo scuro terreno fertile del Delta del Nilo, in contrapposizione con Deshret, il rosso e sterile territorio desertico. Analogamente al contrasto tra queste due condizioni territoriali che costituiscono la base del paese, anche il sistema di governo egiziano è stato a lungo caratterizzato da un netto dualismo. Probabilmente l’Egitto è stato governato da regimi autoritari fin dai tempi dei faraoni, e un ininterrotto filone nepotista corre lungo tutto il suo sviluppo: una classe dirigente allineata al regime in carica investe sui propri interessi particolari e, nella misura in cui tali interessi sono tutelati, si lascia che il resto della popolazione si organizzi da sé.

Il carattere informale, in questo contesto, non è una conseguenza non voluta della carenza di risorse, ma una chiara strategia per evadere dalle proprie responsabilità e ridurre gli investimenti sociali. Da un lato produce situazioni difficili: la carenza di accessibilità delle infrastrutture, per esempio. Ma genera anche contrasti negli spazi pubblici cittadini. Una delle manifestazioni di questi contrasti è il gioco a rimpiattino tra venditori del mercato informale e autorità municipali.

Ma d’altro lato l’informalità lascia ai cittadini, a livello di strada, più spazio e più possibilità di esprimere soluzioni imprenditoriali creative per eludere le autorità, di riuscire a evitare accorciando i tempi la burocrazia, il formalismo e le responsabilità legali che spesso ostacolano lo sviluppo in altri contesti. Questo spazio di possibilità permette anche risposte immediate, efficaci e adattabili probabilmente meglio in grado di rispondere ai cambiamenti e ai problemi in gioco di quanto non possano fare gli urbanisti e gli strateghi politici.

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back/Imperative confrontations, veduta del padiglione

Paradossi e dualismo, perciò, danno forma alla particolare struttura d’osservazione in cui si colloca il Padiglione dell’Egitto. Mentre le occasioni dell’economia sembrano restringersi e in presenza di nuovi tassi di disoccupazione da primato, si constata contemporaneamente una netta crescita del lavoro giovanile qualificato, compreso quello degli architetti e degli urbanisti, senza possibilità di esercitarlo professionalmente nel senso classico. In parallelo permane anche un lavoro creativo non qualificato che vanta una forte tradizione di fai da te. Ad accrescere la complessità le stratificazioni storiche e la molteplicità degli interessi che riguardano ogni centimetro di terreno. Inoltre la particolarissima posizione geopolitica dell’Egitto ne fa una spugna che assorbe progetti e un frutto che involontariamente emana un forte aroma per chi gli sta intorno senza potergli dare un morso.

Il padiglione egiziano della Biennale di quest’anno non è un panorama esaustivo di tutte le iniziative e le opere recentemente realizzate in Egitto. Ma è comunque un tentativo di illustrare al grande pubblico il lavoro di individui e di gruppi che in Egitto sono andati alla ricerca di nuovi modelli operativi e che nel decennio trascorso si sono impegnati nell’architettura come campo di ricerca intellettuale critica. Le opere esposte dimostrano gli interessi di una vasta gamma di attori – Stato, università, centri di ricerca, professionisti indipendenti e studenti – nei riguardi della condizione urbana egiziana.

Il padiglione riunisce tutte queste prospettive e tutte queste impostazioni in un unico spazio e rispecchia la natura del sapere prodotto nell’ultimo decennio. È inoltre l’occasione di valutarne le potenzialità d’azione e di cambiamento.

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back/Imperative confrontations, Studenti di UPenn prodotto in collaborazione con il Ministero della Cultura e del patrimonio egiziano, la collaborazione durerà cinque anni

Le opere presentate possono essere suddivise in due grandi categorie: i progetti di mappatura e le proposte sperimentali che i curatori chiamano frames, “cornici”.

I progetti di mappatura, come Architecture and Stories of Downtown dello studio Baladilab, Mapping Cairo dello Studio Meem, Frozen Historic Cairo, realizzato in collaborazione con l’Unesco, cercano di censire le condizioni esistenti tramite l’uso di lenti analitiche, evidente nella rappresentazione dei risultati. Come nel caso di recenti tentativi di mappatura in altri contesti, la rappresentazione viene considerata uno strumento di riflessione e di comunicazione di nuove informazioni. Benché, come in altri casi, ci sia la possibilità che dati male analizzati portino a una prospettiva distorta o all’assoluta disinformazione, l’importanza del tentativo coordinato di mappare e documentare il contesto egiziano non va sottovalutata. Dopo anni di trascuratezza degli accademici e dei ricercatori c’è un pressante bisogno di riportare alla luce strati di informazione che risveglino la consapevolezza dei problemi fondamentali dell’ambiente costruito. Questi tentativi di mappatura possono essere considerati delle provocazioni politiche, degli appelli all’azione e delle fondamenta su cui costruire altre proposte. Possono innescare positive iniziative sociali ma, d’altro lato, dipendendo dagli interessi politici dei promotori di queste iniziative, possono poi tradursi in interventi sulla sfera pubblica che potrebbero acuire le tensioni tra tutela, esclusione, gentrification e, per esempio, futuri progetti di disneyficazione dei centri storici delle città egiziane.

I progetti sperimentali cercano di proporre interventi chirurgici e qualche volta di lasciare per loro tramite un segno concreto nel contesto urbano. Tra questi ci sono progetti come UN Safe Cities di CLUSTER, Downtown Passageways e il Children Cultural Park di Adelhalim Ibrahim, Ard El Liwa Proposals degli studenti del MAS Urban Design Program di Zurigo. Sono tentativi accademici oppure lavori di piccoli studi che cercano di elaborare programmi d’azione fondati sulla ricerca, sul coinvolgimento delle comunità e sulla volontà di usare materiali e conoscenze tecniche locali. Talvolta le loro vendemmie architettoniche sono fruttuose, talvolta no.

In certi casi i progettisti presentano piani mirati al bene comune ma il loro processo progettuale e le loro soluzioni non rendono giustizia all’obiettivo. In altre situazioni le buone intenzioni perdono il senso originario quando si integrano in piani di ristrutturazione edilizia di più ampio respiro. È il caso del centro urbano del Cairo, per esempio, che dal 2011 è stato radicalmente trasformato. L’equilibrio degli interessi in gioco è essenziale per ogni architetto che voglia agire in questo spazio, ma sfortunatamente non sempre si riesce a ottenerlo, al di là delle intenzioni. Non sono problemi solo del contesto egiziano, ma sono sintomatici di alcuni limiti, tra cui il ridotto senso di possibilità di intervento e il delicato intreccio dei rapporti con la politica che oggi l’attività professionale dell’architetto deve affrontare in tutto il mondo.

Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back
Padiglione Egitto, Biennale di Venezia 2016, Reframing back/Imperative confrontations, veduta dell'ingresso del padiglione con l'intervento di Traslochi Emotivi

Entrambe le scale di produzione presentate nel padiglione riguardano nell’insieme l’urbanistica informale, lo sviluppo selvaggio, la disuguaglianza, la carenza di spazio d’iniziativa e la tutela, che sono i temi centrali dell’urbanizzazione egiziana. Il padiglione è un terreno fertile per collocare tutti questi temi uno accanto all’altro in un unico spazio e per dare spazio a un dialogo tra pari destinato a proseguire in Egitto anche dopo la Biennale.

Separati dalla mostra ci sono i lavori dei non architetti che negli ultimi trent’anni hanno dato più contributi all’ambiente costruito che non gli architetti e gli urbanisti di professione. Come gli architetti, anche i progettisti edili non architetti, nel dar forma alla città, incontrano resistenze a causa del carattere informale e precario della loro professione. Un più ampio e inclusivo dialogo tra architetti e urbanisti, ma anche più largamente con la società civile, in materia di ambiente costruito in Egitto dovrebbe dare un riconoscimento al loro lavoro e trovare migliori modi di collaborazione professionale oppure di professionalizzazione, migliorandone il livello qualitativo.

In un momento in cui l’architettura diventa sempre più uno strumento e una prospettiva intellettuale, l’importanza del padiglione egiziano quest’anno sta nella dimostrazione, attraverso una miriade di progetti e di voci, della nuova condizione di fatto di costante trasformazione e della continua risposta di guerriglia che essa innesca, al di là della buona volontà e dell’adattabilità degli architetti come dei non architetti. Porta in primo piano questioni critiche riguardo alle pratiche architettoniche che vanno oltre le tipiche e diffuse affermazioni ufficiali sulla sostenibilità sociale e ambientale. Mette in discussione il valore del nostro modo di praticare la professione e i suoi risultati.

Dopo aver sottolineato la necessità di un dialogo più profondo e intenso, dovremmo anche cogliere questa occasione per formulare certe domande urgenti: quali sono i differenti modelli strutturali delle realtà di nuova formazione nel settore urbanistico? Che cosa rappresentano e di chi sono i portavoce? Come sopravvivono al mercato? Quali strutture di sostegno possiedono? È importante che sopravvivano? Che cosa implicano le collaborazioni accademiche nazionali e internazionali? Quali conseguenze politiche comportano?

E infine, la cosa più importante: quale incidenza pratica hanno tutti questi tentativi accademici, individuali e istituzionali? Che cosa accade alla produzione del sapere?

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