Speculazioni nel laboratorio urbano

Il libro e la mostra “Chicagoisms”, curata da Jonathan Mekinda e Alexander Eisenschmidt all’Art Institute of Chicago, considerano la città come laboratorio privilegiato per l’architettura.

Chicagoisms
Nell’introdurre uno dei propri “racconti urbanistici” sulla città del Novecento, Bernardo Secchi osservava come l’intera storia urbanistica moderna si sia giocata tra due poli: da un lato il desiderio di una crescita continua della città, dall’altro la paura di una sua definitiva dissoluzione.
Installation view of “Chicagoisms” at the Art Institute of Chicago
Vista della mostra “Chicagoisms” all'Art Institute of Chicago
Il rapporto di ambiguità con cui gli architetti e gli urbanisti interagiscono con quell’oggetto, simultaneamente del desiderio e da repellere, riemerge nella mostra “Chicagoisms” come una costante dalla quale, forse, non ci si può davvero emancipare. La città vista come campo di sperimentazione, come luogo dell’avanzamento di forme di associazione, di collettività, di progresso tecnologico, di capitalizzazione del costante stato di crisi di cui quell’oggetto che chiamiamo città moderna è rappresentazione fisica nello spazio. Se queste categorie sono così connaturate al linguaggio con cui la retorica urbanistica ha crescentemente espresso il proprio operato, al punto di essere applicabili nella loro universalità a tante delle esplosioni metropolitane avvenute a cavallo tra Ottocento e Novecento, Chicago ha sicuramente ricoperto un ruolo chiave nella loro formulazione.
Installation view of “Chicagoisms” at the Art Institute of Chicago
Vista della mostra “Chicagoisms” all'Art Institute of Chicago
Dal prototipo di parco a tema moderno nella White City del 1893 – corredata delle apposite affermazioni di progressismo tecnico e non-architettura raffigurate nella Ferris Wheel – agli esperimenti sociali di Jane Addams alla Hull House e la loro istituzionalizzazione in disciplina nella Scuola di Sociologia; dalla riaffermazione della città compatta attraverso la “invenzione” del grattacielo, alla simultanea sua inevitabile dissoluzione come conseguenza delle potenzialità offerte dalla griglia di ripensare il rapporto tra tessuto (costruito e sociale) e oggetto. Sotto ciascuno di questi aspetti, Chicago è presentata come anticipatrice di soluzioni spaziali urbane, un “incubatore” nelle parole di Alexander Eisenschmidt e Jonathan Mekinda, gli autori del libro Chicagoisms. The city as catalyst for architectural experimentation e da cui l’esibizione omonima, attualmente in mostra all’Art Institute of Chicago, trae origine.
Installation view of “Chicagoisms” at the Art Institute of Chicago
Vista della mostra “Chicagoisms” all'Art Institute of Chicago
Quella che sottende il libro e la mostra è quindi l’idea di considerare la città come il laboratorio per l’architettura. Mekinda e Eisenschmidt selezionano quindi nove studi di architettura (Sam Jacob Studio, Port A+U, Dogma, UrbanLab, Bureau Spectacular, Sean Lally/WEATHERS, MVRDV, WW, ORG-Organization for Permanent Modernity) e chiedono loro di presentare una propria “speculazione” sulla città di Chicago, che verrà presentata con un solo elaborato – un modello – e un breve testo. Ma il laboratorio contiene in sé l’essenza di uno spazio in cui il dissenso è altrettanto importante del consenso: speculazione e sperimentazione non sono in sé garanti di un giudizio condiviso su un risultato coerente. Tale inevitabile dissenso sul modo di comprendere la città riafferma quell’ambiguità di rapporto, che architetti e urbanisti intrattengono con essa, che notava Secchi e che si ritrova sia nelle pagine del libro di Eisenschmidt e Mekinda sia nel modo in cui i nove gruppi di architetti hanno risposto alla loro chiamata per presentare una propria “speculazione” sulla città di Chicago – che, letta come laboratorio o catalizzatore di sperimentazioni architettoniche, si propone di validità universale per la più generale condizione urbana contemporanea.
Mekinda e Eisenschmidt selezionano quindi nove studi di architettura e chiedono loro di presentare una propria “speculazione” sulla città di Chicago, che verrà presentata con un modello e un breve testo.
Cinque temi sono stati offerti agli architetti con l’intenzione di stimolare una giustapposizione di risposte/proposte capaci di interpretare alcuni aspetti chiave dell’essenza di Chicago: vision shapes history, crisis provokes innovation, optimism trumps planning, technology makes spectacle, ambition overcomes nature. Piuttosto che indagare se le risposte siano adeguate al singolo tema al cui interno vengono fatte ricadere – infatti, inevitabilmente le proposte si collocano a cavallo dei temi o, forse, ne sollevano di ulteriori – è nel considerarli come un insieme che si rende palese la non scontata retorica del dissenso cercata dalla mostra, già implicita nei temi scelti.

Prese nel loro insieme, le risposte date dagli studi realizzano quanto di più lontano ci possa essere da una proposta unitaria e condivisa per la città, ma sollevano piuttosto un eterogeneo senso di nostalgia.

È la nostalgia per le grandi imprese tecnologiche – che non nascondono la società dello spettacolo – nella riproposta di un nuovo acquedotto romano inteso come limite della città, luogo di significato civico, spazio di abitazione, e strumento di preservazione della risorsa acqua, nel progetto Great Lakes Aqueduct di UrbanLab. È la nostalgia per un discorso non semplicistico sulla griglia, che da un lato ricorda di quando non si avevano remore nell’affermare che l’architetto crea oggetti (come ribadiscono WW nella loro proposta di riconsiderare il blocco urbano come oggetto) e, dall’altro, contrappone la matematica del piano urbano come fatto assoluto all’ostinatezza dell’architetto di reagire, trasformando il fatto in invenzione nella proposta di Bureau Spectacular. È la nostalgia per la città che non è stata o, meglio, che è stata senza capire di volerlo essere – quella ipotizzata da Ludwig Hilberseimer come diverso rapporto tra spazi di lavoro e di abitazione, tra spazi “privati” e spazi “pubblici” degenerata come “megalopolis is everywhere” di cui parla Albert Pope nel suo testo sul libro. Dogma, partendo dall’assunto proposto da Eisenschmidt e Mekinda che “la crisi provoca innovazione” definisce la crisi come opportunità di introdurre discontinuità nello status quo. Interpreta in questo senso, riproponendola, la proposta di Hilberseimer per Marquette Park che evita di ricadere nella solita retorica binaria in cui si contrappongono “urbano” e “suburbano” e che sembra ancora intrappolare, invece, la proposta di ORG-Organization for Permanent Modernity di “acculturare le tipologie suburbane” costruendo un modello urbano su regole suburbane. 

Copertina del libro <i>Chicagoisms</i>, di Alexander Eisenschmidt e Jonathan Mekinda
Copertina del libro Chicagoisms, di Alexander Eisenschmidt e Jonathan Mekinda
Nel limite raggiunto dalla mostra, si esprime infine la nostalgia per una speculazione intesa nel suo senso comunemente più spietato, ovvero come speculazione edilizia. Così, Port A+U fanno dialogare un quasi rassegnato sindaco di Chicago con il suo “consulente” – termine che sapientemente cela l’architetto – che la risposta alla crisi sta nello spostamento a est di Lake Shore Drive per guadagnare nuova terra di espansione urbana – con pace per i condomini di Mies a vedersi tolta la contemplazione del lago Michigan dall’interno del loro spazio assoluto. D’altronde, recita la mostra, Chicago non si è mai lasciata sfuggire le possibilità offerte da una crisi: perché rinunciarvi oggi?   
Nel limite raggiunto dalla mostra, si esprime la nostalgia per una speculazione intesa nel suo senso comunemente più spietato, ovvero come speculazione edilizia.
Se la città dei maiali, già da anni parte delle speculazioni di MVRDV, cerca in Chicago (la “macelleria del mondo”) la possibilità, forse, di emanciparsi dalla propria apparente ironia per rivendicare la propria scientificità di fatto credibile, alla rilettura da parte di Sam Jacob Studio del progetto per la Tribune Tower come ricombinazione di elementi è affidata l’interpretazione di come anche la storia sia parte di un processo sintetico di laboratorio. E nella griglia, ora ripresentata nei suoi termini di radicale memoria come piano continuo, un nuovo Campo Marzio fatto di Frankenstein architettonici chirurgicamente estratti dal grattacielo promette vita nuova alla città che da sempre ha potuto agire “libera dal peso della storia”.
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