Il flusso della vita umana

Tra le poche donne architetto nell’America degli anni ’60 e ’70, Mary Otis Stevens racconta a Domus le tappe di una vita straordinaria: la rivoluzionaria casa di Lincoln, gli anni del MIT, la casa editrice i Press e le serie sull'ambiente umano, fino al suo più recente impegno civile e culturale.

Pubblicato su Domus 967, marzo 2013, questo articolo nasce da tre interviste con Mary Otis Stevens, che Ute Meta Bauer e Pelin Tan hanno registrato, nel maggio 2011, sul tema dei movimenti culturali degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.

Dopo aver studiato filosofia allo Smith College di Northampton, Mary Otis Stevens si è laureata in architettura nel 1956 al MIT, negli anni in cui era un mondo intellettualmente e artisticamente vivissimo. Alvar Aalto vi insegnava, mentre ne progettava i dormitori per gli studenti; Eero Saarinen vi teneva le proprie lezioni mentre costruiva l’auditorium e la cappella; e Buckminster Fuller, grande amico della famiglia di Mary, era solito trascorrere parte del trimestre di primavera al mit, quando lei frequentava l’università. “Facevamo spesso colazione insieme e Bucky passava del tempo con i miei compagni di corso, cosa che faceva piacere a loro, ma non altrettanto ai docenti, ai quali non andavano giù le cupole geodetiche che riempivano i loro studi!”. Benché all’epoca poche donne si dedicassero alla progettazione, questo—secondo Stevens—non riguardava l’area di Boston e Cambridge, nota invece per l’impegno sociale e politico.
Mary Otis Stevens
Mary Otis Stevens fotografata nella sua attuale residenza a Cambridge, Massachusetts. Il lampadario in vetro, a sinistra, è uno dei pochi oggetti rimasti della casa di Lincoln

Dopo aver lavorato per un breve periodo per l’Architects’ Collaborative sotto la guida di Walter Gropius, Stevens si associò all’ex professore del MIT e suo marito Thomas McNulty e ad alcuni dei suoi colleghi per dare vita a uno studio d’architettura sperimentale. Trovarono committenti disposti ad accettare le loro idee e a sostenere i loro progetti, alcuni dei quali furono premiati. Sulla scia della loro partecipazione, insieme con György Kepes (fondatore del Center for Advanced Visual Studies del MIT) alla Triennale di Milano del 1968, curata da Giancarlo De Carlo, Stevens e McNulty fondarono la casa editrice iPress Inc. (1968-1978) per pubblicare libri sul tema del contesto sociale in architettura. Stevens ha fondato nel 1975 Design Guild, società interdisciplinare dedicata alla costruzione sostenibile, alla conservazione degli edifici storici e al riuso adattivo. Abbandonata la professione di architetto nel 1992, ha trascorso il decennio seguente impegnandosi in altre attività culturali e civili, la più recente delle quali è stata la campagna elettorale del 2012 a sostegno della rielezione di Barack Obama.
Mary Otis Stevens
Appeso alla parete, il poster della Lincoln House

ute meta bauer: Negli Stati Uniti, un’architettura modernista viene demolita: che colpo! Mi chiedevo quando e perché è successo alla Lincoln House.
mary otis stevens: Fu demolita nel 1999, in un periodo in cui gli edifici modernisti venivano abbattuti, da Cape Cod alla California, per colpa di un diffuso rifiuto culturale: un’ostilità al Modernismo e a tutto ciò che rappresentava. Nel Paese, la rabbia che oggi si esprime sul fronte politico con il Tea Party si è manifestata prima sul fronte della casa. Quel che Thomas McNulty e io avevamo costruito era una residenza privata, non un edificio pubblico: senza porte, senza gerarchie. Pur essendo la nostra abitazione, era anche un esperimento; e proprio qui stava la minaccia. Abbiamo scelto Lincoln perché era la città in cui Walter Gropius aveva compiuto le sue esperienze. Sembrava una buona cosa, all’epoca, costruire la nostra idea di casa, a quasi tre decenni di distanza da Gropius. Columbus, cittadina del Midwest nello Stato dell’Indiana, aveva stabilito la tradizione consolidata—a partire da Eero Saarinen—di invitare architetti e artisti contemporanei a sperimentare le loro idee. E ai cittadini di Columbus piaceva. Ma Lincoln, sobborgo residenziale della Boston del dopoguerra, non lo gradiva affatto. Quando Gropius visitò la nostra casa, mi raccontò che, nel 1938, gli abitanti di Lincoln avevano soprannominato la sua “il pollaio”.

Mary Otis Stevens
L'attuale residenza di Mary Otis Stevens a Cambridge, Massachusetts

pelin tan
 A proposito della Lincoln House, dimmi delle tue idee sul progetto negli anni Sessanta e Settanta: parlavi di flusso e movimento e ho letto anche qualcosa sull’‘esitazione’.
mary Se si guarda alla vita in termini di movimento e di ‘esitazione’, possiamo osservare che oggi, come sempre, ci muoviamo. Anche quando siamo seduti, è un periodo di transizione, un momento, un battito—o come lo vogliamo chiamare—del flusso della vita umana. Ci muoviamo e ci fermiamo, ma non siamo mai totalmente immobili e, allo stesso tempo, non siamo neppure sempre in movimento.

Mary Otis Stevens
L'attuale residenza di Mary Otis Stevens a Cambridge, Massachusetts

ute 
A differenza della casa come “macchina per abitare” di Le Corbusier, il progetto della tua residenza aveva un’origine più organica.
mary  Certo, come le piante: ora stanno crescendo—è primavera—in estate sbocciano e in autunno si spogliano, prima di cadere nel letargo invernale. E poi, di nuovo, si risvegliano! Tutto è in movimento. Ma la vita non è solo una corsa ad alta velocità, come Zaha Hadid che disegna i suoi edifici sempre a cento all’ora. No!

ute  Mary, mi parlavi del corso di grafica che hai frequentato. Non sapevo che esistesse già un corso del genere alla facoltà d’Architettura quando eri studente  al mit.
mary Sì, comprendeva anche lezioni di Light and Color (“Luce e colore”) ed era un corso obbligatorio.

ute  Guarda un po’ e chi lo sapeva!? È una storia tutta da scrivere. Quando sono arrivata al mit, spesso mi chiedevano—dato che siamo uno dei cinque indirizzi disciplinari di architettura—perché mai l’arte o la formazione visiva dovessero far parte del nucleo fondamentale della preparazione degli architetti. Invece, è da molto che il progetto grafico e l’arte hanno un ruolo nel piano di studi d’architettura del MIT.
mary Una parte vitale!

Mary Otis Stevens
Mary Otis Stevens fotografata con i suoi studenti al MIT, durante un picnic di gruppo

ute
 Anche i libri di Kepes della collana Vision + Values sono straordinari! Basta guardarli per vedere che cosa proponevano in fatto di leggibilità e visualizzazione: sistemi e strutture biologici. Ma tornando a te, non erano molte le donne al mit in quegli anni, né tra gli studenti né tra i docenti. Quante donne facevano architettura?
mary  Non molte. Io, ovviamente, ero un’anomalia. Ma ero un’eccezione anche sotto altri aspetti più significativi: avevo già una laurea in filosofia e, quindi, affrontavo l’architettura da una prospettiva più ampia. Ero cresciuta nell’era di Roosevelt e durante il liceo ero stata una militante per i diritti civili, prima che il segregazionismo avesse ufficialmente fine e prima che Martin Luther King organizzasse le sue marce. Molti dei miei compagni d’università avevano vedute piuttosto ristrette: il loro unico scopo era acquisire le competenze necessarie per diventare professionisti di successo.

pelin Insieme con György Kepes, tu e Thomas McNulty partecipaste alla Triennale di Milano del 1968, diretta da Giancarlo De Carlo.
mary Giancarlo era molto stimato dagli studenti e dai docenti della Scuola di Architettura e di Urbanistica del mit. Teneva regolarmente seminari, un semestre al mit e uno a Urbino.
pelin Che rapporti avevate, tu e Tom, con Giancarlo? Cosa pensi del laboratorio di Urbino e del mit?
mary  A Urbino, Giancarlo illustrava attraverso i suoi progetti le sue idee in materia di urbanistica per portare quella comunità medievale verso la modernità, senza trasformarla in una trappola per turisti, come stava succedendo nel resto della regione. Giancarlo era un personaggio molto interessante e sia a Tom sia a me piaceva molto. Tom l’aveva conosciuto nel 1952, quando studiava in Italia con la borsa di studio Fulbright ed era solo agli inizi della carriera.
pelin Dev’essere successo a Venezia, perché Giancarlo, all’epoca, vi si era trasferito per studiare architettura, dopo aver frequentato la facoltà d’Ingegneria a Milano. Rimase a lungo a Venezia.
Mary Otis Stevens
Album di fotografie della Lincoln House

mary
 Conobbi Giancarlo in occasione del mio murale luminoso per l’installazione La città di notte della Triennale.
ute È stato quando hai dichiarato che “la vita è ritmo”?
mary Movimento, sì, ma era più il movimento cui mirava Kepes.

pelin
 Certi artisti e intellettuali di sinistra criticarono Giancarlo e la Triennale.
mary  Quando Giancarlo diede il posto d’onore di tutta la mostra milanese ad Alison e Peter Smithson non si rese conto di che cosa ne avrebbero fatto. Non si aspettava un ritorno al Rinascimento, perché gli Smithson venivano identificati con l’edilizia sociale britannica del dopoguerra, ispirata all’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia. Purtroppo, il clima inglese delle regioni industriali in cui si trovano i loro progetti è umido e uggioso, poco incline a stili di vita mediterranei.

pelin  È anche importante comprendere l’interpretazione dello spazio domestico degli Smithson, le loro idee utopiche sulla vita quotidiana e i bambini. Benché gli Smithson usassero le stesse parole, quando si analizza il modo in cui—secondo loro—strade e luoghi pubblici avrebbero dovuto fornire ai ragazzi un ambiente domestico, si scopre che finirono invece per creare un’architettura del controllo. Credo che il loro atteggiamento sia agli antipodi rispetto a come Yona Friedman concepisce lo spazio domestico e la prassi della vita quotidiana nelle strade.
mary  Pur essendo pensati per favorire gli scambi tra vicini, le lavanderie automatiche, gli ambulatori e tutti gli accessori sociali di queste enormi strutture di calcestruzzo spesso erano controproducenti, perché tenevano i residenti lontani dalla vita comunitaria della strada, alimentando l’isolamento sociale. Forse per l’esperienza acquisita nei loro lavori e per criticare indirettamente l’ingegneria sociale del Movimento Moderno, Peter e Alison Smithson usarono la loro parete alla Triennale per riprodurre scene rinascimentali di Firenze in primavera. Cortei di famiglie aristocratiche ben vestite—con cani e cavalli ad allietare la compagnia—esprimevano gioia di vivere. Perciò credo che gli Smithson avessero cambiato idea, che si fossero innamorati dell’Italia. Li conoscevo e li apprezzavo, e so che avevano allestito la mostra in buona fede. Tuttavia, molti artisti e intellettuali, attivi nel movimento studentesco del 1968, vi si opposero in modo violento scendendo in piazza e provocando la chiusura della Triennale per il resto dell’estate. Di fatto, impedirono al pubblico anche solo di vedere che cosa era stato esposto.
Mary Otis Stevens
Nella Lincoln House, Stevens e McNulty applicarono la loro idea di ‘movimento’ ed ‘esitazione’, trasferendola dalla scala urbana a quella residenziale. Per massimizzare la libertà di spostamento, decisero di eliminare quasi tutte le porte interne, favorendo la comunicazione tra le diverse zone della casa, ma anche tra interno ed esterno. Le foto storiche di questo articolo, scattate da Julius Shulman sono state pubblicate su Life il 3 dicembre 1965, a corredo di un articolo dal titolo A Playground for Living. Lincoln House. © J. Paul Getty Trust. Used with permission. Julius Shulman Photography Archive, Research Library at the Getty Research Institute (2004.R.10)

pelin
 Che cosa pensi di Constantinos Doxiadis, uno degli esponenti del Team X, e del suo seminario estivo?
mary  Il suo seminario estivo attraeva, oltre che un’eccellente compagnia di architetti e di urbanisti, anche mostri sacri come Bucky Fuller e Margaret Mead, che se ne andavano in giro per il Mediterraneo sul suo grande yacht accessoriato di tutto punto, discutendo i gravi problemi dei nuclei urbani. Doxiadis non aveva un’aria austera come i Modernisti puri. Le sue concezioni emanavano una luce più calda. Durante la Seconda guerra mondiale la vita era stata così dura che poi, per molto tempo, il divertimento non fu uno degli interessi principali nella ricostruzione della società. Ma nei prosperi decenni del dopoguerra, l’atteggiamento cambiò: “Perché non goderci la vita, visto che si può avere questo e quest’altro?”. Il richiamo della società dei consumi si diffuse come un’epidemia. Nessuno voleva più fare l’operaio. Tutti volevano essere borghesi e in America era facile perché, dopo una giornata di lavoro, ci si poteva cambiare d’abito e tornare a bordo di un macchinone nella propria casa suburbana con tanto di barbecue e dondolo sul retro. Era bello, no? Le città industriali americane erano intasate e sporche, mentre le loro comunità satelliti offrivano una via di scampo: terreni disponibili e a buon mercato. Cosa ancor più convincente, i sobborghi residenziali promettevano di non dare preoccupazioni sociali. Le famiglie non dovevano curarsi dei vicini, perché, grazie a un’accurata scelta degli immobiliaristi, erano tutti omogenee. Mentre i poveri e le minoranze restavano in città—a eccezione delle élite ricche raggruppate intorno ai centri culturali progettati per loro—la borghesia bianca migrò nei quartieri residenziali suburbani. La differenza sociale e culturale era l’opposto di tutto ciò per cui la società americana precedente, più egualitaria, si era battuta: l’integrazione.

ute Mary, io e te ci siamo conosciute molti anni fa grazie alla teorica e storica dell’architettura Liane Lefaivre, che stava scrivendo un saggio sulla Lincoln House. Fu lei a dirmi che avevi donato l’archivio tuo e di Thomas McNulty al MIT Museum.
mary Quando, Tom morì, nel 1984, a 65 anni, mi rivolsi al mit e gli donai alcuni faldoni che aveva portato con sé nel 1978 in Arabia Saudita, dove aveva trascorso i suoi ultimi anni, insegnando all’Università di Riad. Qualche tempo dopo, mentre Liane Lefaivre stava scrivendo il saggio sulla Lincoln House per l’Harvard Design Magazine, consultai l’archivio e mi accorsi che parecchi studi firmati da lui erano mescolati con i miei. Dato che avevamo lavorato a stretto contatto per oltre vent’anni non c’era da sorprendersi che le nostre idee si fossero confuse: si potrebbe dire che appartengono a tutti e due. Nel 2004, lavorai con Gary Van Zante, curatore del dipartimento di Architettura e Design del mit Museum, al trasferimento dei miei archivi e di quelli di Tom. Con l’idea di esporre questi materiali, Katharina Tanzberger, giovane architetto di Vienna e borsista del Governo austriaco, nel 2006 arrivò al mit per catalogarne una parte.
Mary Otis Stevens
La Lincoln House fotografata da Julius Shulman. © J. Paul Getty Trust. Used with permission. Julius Shulman Photography Archive, Research Library at the Getty Research Institute (2004.R.10)

ute
 Quando hai discusso di questa mostra, cosa avevi in mente di esporre?
mary  La materializzazione delle idee: dal pensiero all’azione, dall’azione al pensiero e così via, in circolo. Sta qui l’aspetto importante della creatività. L’azione è il frutto—ma, in potenza, anche l’origine—di un’idea: e così tutto si collega, una fase dopo l’altra. La Lincoln House non poteva essere separata da tutte le sue variazioni visive, cui Tom e io abbiamo lavorato per tutta la nostra vita comune.
ute Quando hai fatto notare questi legami agli studenti del mio corso al mit, è stato naturale passare dai microstudi al vero e proprio progetto. Entrambi sono rivolti alla realtà, ma in modo differente. È un processo di transizione, una trasposizione di scala e linguaggio. Fondamentalmente, quel che si verifica in arte e architettura è una specie di evoluzione, analoga a quella degli organismi naturali.
mary  Fatto ancor più interessante, la fusione crea qualcosa di completamente nuovo nell’universo umano. Quello che volevo comunicare al tuo corso di Studi d’arte visive era l’entusiasmo di costruire e rinnovare le forme espressive dell’uomo. Quando il mondo cambia—cosa che succede di continuo—, il linguaggio (verbale o visivo che sia) muta con lui. Si rispetta il vecchio, ma non lo si replica. Perché ritrarsi in uno pseudo passato, che non sarà mai reale? Qui sta il mio disaccordo con i Postmoderni. Questi hanno comunque avuto il merito di mettere in luce un importante difetto del Movimento Moderno: la sua astrattezza, che spesso—a causa di  un linguaggio destinato a pochi e, quindi, poco efficace—ne ha vanificato i contenuti umani. Ricordo che, in un seminario, Serge Chermayeff disse: “Io progetto per l’uomo assoluto”. Cos’è quell’uomo assoluto, non è molto diverso dai segni criptici che popolano le visioni degli architetti e degli urbanisti utopisti dell’Unione Sovietica e dell’Occidente? In ogni caso, considero il successivo periodo della Pop Art come una reazione eccessiva, ma in direzione opposta. La precisione delle immagini sminuisce ciò che esse potrebbero comunicare tra le righe. La replica, anche quando è una parodia, non fornisce la chiave della realtà: è stimolante, ma non creativa. Le sperimentazioni sul linguaggio visivo che Thomas McNulty e io abbiamo condotto nascevano da quelle di György Kepes e altri fondatori del Movimento Moderno: una grande sfida. Era un lavoro che valeva la pena fare. E documentare.


Pelin Tan, Ute Meta Bauer
Sociologa, storica dell’arte, docente KHAS Univ. Istanbul /
Curatrice e professore associato al MIT, Boston

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