OMA / Progress

La mostra, a cura di Rotor, alla Barbican Art Gallery di Londra presenta una straordinaria quantità di lavoro trasversale.

Appeso al muro in cucina (in ogni cucina degli uffici OMA a Rotterdam come a New york, Hong Kong o Pechino) c'è un foglio firmato da Rem Koolhaas, più o meno con lo stesso messaggio da circa 15 anni. Nel 1998 Koolhaas decise di comunicare ai suoi collaboratori che, sebbene l'ingenuità di chi è concentrato al lavoro - più che al foglio su cui sta disegnando - porta a sottovalutare le tracce sulle quali cresce un'idea, era ormai tempo di raccogliere e catalogare responsabilmente tutto quanto si andava producendo, senza buttare via nulla. Chi se non Rotor poteva comprendere, e gestire, mole e significato del "non buttare via nulla"? L'incontro magico è avvenuto alla Biennale di Venezia 2010 dove Koolhaas ha visto Rotor all'opera e ha deciso di aprirgli le stanze del 'subconscio' di OMA. Rotor, demolitore professionale di false sovrastrutture, ha lavorato per mesi col fiuto di un segugio: tutto è stato annotato, classificato e archiviato (solo l'indice dell'archivio conta 17.000 pagine). Rotor ha vissuto e testimoniato gli ambienti di OMA. È l'origine di una banca dati che tra i quattro studi di OMA nel mondo, ammonta a più 3,5 milioni di immagini (senza contare modelli, documenti, pezzi sparsi e cose altre che prescindono dal progetto specifico), come annuncia l'installazione video in cui l'ignaro osservatore è avvisato di non illudersi di completare la visione in giornata: servono 48 ore continuative per scorrerle tutte quelle immagini, a una velocità di innumerevoli scatti al secondo.
In apertura: video installazione. Fotografia Emilia De Vivo; qui sopra: veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
In apertura: video installazione. Fotografia Emilia De Vivo; qui sopra: veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
Due scene importanti fanno da contrappunto e preludio al senso profondo della mostra OMA/Progress al Barbican. Da una parte, in un angolo su un podio bianco illuminato da un fascio di luce sapiente, come in una galleria di gioielli antichi, si scorgono appena due "pietre bianche" non ben identificabili; dall'altra il mega schermo che quasi inghiotte, con le slide che corrono, sfumate una sull'altra come per far presto, nel raccontare quanto è enorme per senso, contenuto e forma, la produzione di OMA. Da una parte il nulla (apparente): le due pietre sono state 'salvate', grazie a quel biglietto nelle cucine, ma lo stesso catalogatore non sa dire se siano modelli o avanzi di argilla. Dall'altra la mole che travolge, la massa di informazioni che nessun umano può contenere a quella velocità. Nella prima scena, di penombra statica, ci si sente interrogati; incuriosisce l'essenza del dettaglio, il rispetto dell'incomprensibile (quel senso di responsabilità cui Koolhaas invitava nella catalogazione dei "rifiuti" durante le pulizie settimanali). Nell'altra scena si è improvvisamente travolti, quasi ipnotizzati da un mondo che scorre velocissimo; torna in mente il mondo che c'è fuori, la consapevolezza che parteciparvi per migliorarlo è un dovere, rinunciando però a essere infallibili.
Maggie's footprint. Fotografia Lyndon Douglas
Maggie's footprint. Fotografia Lyndon Douglas
Alla sala in penombra segue una zona semivuota con alle pareti blocchi di stampe dei lavori in corso, prodotte in tempo reale così come arrivano gli aggiornamenti dai cantieri. Come a dire "cominciamo dalla fine: qui i progetti in realizzazione". A seguire, i pensieri in formazione, le attuali preoccupazioni di AMO, braccio di ricerca di OMA. Un invito a staccare le pagine dai blocchi tematici organizzati ad abaco, per argomento e foto, e portare tutto a casa, dove le riflessioni funzionano meglio. Poi la stanza dei segreti, dove soffitto e pareti sono tappezzati dai fogli raccolti nei cestini della carta straccia/banca-dati OMA nel mondo. Poi su al piano superiore, dove si pensa: bene, ora comincia la mostra. Dodici ambienti per dodici temi di lettura, una sorta di "fiera d'arte" come Koolhaas stesso la definisce. Per ogni stanza un tema indipendente: Eppur si Muove and yet it moves (come quelle assurde quanto fantastiche poltrone 'pistonate', a scomparsa nel pavimento, progettate per la Milstein Hall della Cornell University); Sight lines and how they shape buildings; Revisiting; Public Loop; Italic living inside the truss; Places and what to do with them; White or shiny; On display so much to look at; Ornament setting the stage; Adaptation instead of quitting. Dal pensiero utopico in luoghi estremi, come la sede del centro di ricerca a Skolkovo in Russia, o il masterplan per il turismo nel deserto libico, all'ossessione delle telecamere a circuito chiuso per il (super extra large) CCTV di Pechino, fino alle collezioni di travertini, alle sperimentazioni sui materiali in "Materials", alle tappezzerie, agli ornamenti, alle Serie di Serie. La mostra termina e sembra ancora non iniziare.
Tutto è offerto in un'ambigua forma di disordine nel quale stranamente ci si sente a proprio agio, perché è il disordine che accompagna la verità dei precorsi di ricerca
Veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
Veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
Inutile spingersi nel tentativo di esprimere l'opera di un collettivo come OMA che è pensiero filosofico, politico, economico, ecologico, espresso in edifici, film, masterplan, arredamento, studi, ricerche, etica e pratica progettuale. È inutile anche il solo tentativo di immagazzinare (e digerire) tutto quanto è esposto: umanamente impossibile, le informazioni sono troppe. Quel che si assorbe dalla mostra OMA/Progress è la centralità del senso critico e dell'autocritica; il riconoscimento del reale come dato di fatto da cui prendere forza per l'immaginario. Rotor rivoluziona l'idea stessa dell'immaginare un'esposizione di architettura: è questo quel che spiazza. Ci si aspetta di trovare le opere di un architetto presentate come oggetti, messi lì per essere compresi; si è pronti a conoscerle come si è da sempre abituati: progetto, piante, modelli e dettagli.
Veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
Veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
E invece no. C'è innanzitutto la Project Machine: uno stand ricurvo cui sono appesi come in lavanderia, schede progetto dettagliatissime, stampate su carta-tessuto, sfogliabili in ordine cronologico per offrire, tutta insieme, una prima (abbacinante) idea dell'opera omnia di OMA. Dopo, si attraversa la zona studio, di libero accesso e attrezzata con libri (la completa produzione teorica di Koolhaas, nota e inedita) e con postazioni monitor per ricerche negli archivi OMA. Superata la zona shopping - solitamente posta all'uscita di una mostra - si entra da un improbabile 'retro' e ci si aggira tra setti di separazione in cartongesso non stuccato, proprio come quando si va per sopralluoghi nei cantieri. Solo lì ci si accorge che l'unica zona che si riteneva di avere sotto controllo altro non è che lo shop appena superato. Quel che viene dopo espone il visitatore a rimettere in gioco a ogni passo, ogni strumento disponibile per valutare la propria, individuale, esclusiva posizione rispetto a quel che vede. Le uniche didascalie/spiegazioni disponibili sono incollate al pavimento, e ci si accorge troppo tardi che son lì a suggerirci qualcosa. Koolhaas stesso commenta divertito che forse Rotor non ha preso OMA abbastanza sul serio, come OMA è solito fare.
Veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
Veduta della mostra. Fotografia Lyndon Douglas
L'introduzione di Rotor, scritta a mano (tremula) su un pannello bianco (di cartongesso), letta alla fine, ha dato voce all'esperienza OMA/Progress; ha risposto definitivamente alla fibrillazione che pungeva lungo il percorso fatto. Immagini e pensieri che sembravano consolidarsi lungo la visita, si sfaldavano puntualmente prima ancora di uscire da una zona tematica per affrontarne un'altra. Dubbi e interrogativi, tra ebbrezza e sforzo quasi fisico. Il progetto di Rotor per OMA include lo spettatore come parte del divenire. Rotor annuncia: "Il vero problema delle mostre di architettura è che non possono mostrare ciò che promettono, ovvero l'Architettura". Tutto è offerto in un'ambigua forma di disordine nel quale stranamente ci si sente a proprio agio, perché è il disordine che accompagna la verità dei precorsi di ricerca. Nulla è nascosto o rivestito da patine di rappresentanza. Tutto è lì esposto come pezzi di lavorazione di una grande fabbrica. Grande assente alla mostra OMA/Progress: la retorica.

OMA/Progress
Fino al 19 febbraio 2012
Barbican Centre
Silk Street
Londra

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