Project Heracles. Un ponte Eurafricano

In uno scambio epistolare, due filosofi europei si interrogano sul valore simbolico di un ponte che colleghi Gibilterra a Ceuta.

Caro Dieter,
Come ci è venuta in mente l'idea di un ponte per l'Africa? All'origine deve esserci la mia vecchia ossessione per i muri di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in territorio marocchino, nelle quali (in modo fin troppo letterale) il filo spinato e il cemento isolano l'Europa dall'Africa. Questa cortina di ferro è stata costruita col sostegno della Comunità Europea. È il nostro muro. A Melilla ne fu costruito uno di 12 chilometri, lungo il quale vennero installate 70 tra telecamere, lampioni, sensori e posti di guardia. L'altra parte del muro, a Ceuta, ha una lunghezza di otto chilometri. È stato definito il nuovo Muro di Berlino, la nuova cortina di ferro, il muro della vergogna. È un muro non molto efficiente che ha prodotto effetti disastrosi, ispirando tentativi di attraversamento dello Stretto di Gibilterra spesso fatali. Ogni anno, in questo modo muore un migliaio di persone.
Nell'ordine globale precedente, il Muro di Berlino dava forma concreta alla separazione tra Est e Ovest; il muro di oggi dà forma concreta al nuovo ordine globale e alla separazione tra Nord e Sud. La recinzione non rappresenta solamente il punto in cui vengono separate Europa e Africa, ma è anche il modello di riferimento, dal quale sviluppa l'intera 'logica del filo spinato', ivi compresi i centri di detenzione per migranti illegali e rifugiati politici come il campo di Steenokkerzeel vicino all'aeroporto di Bruxelles. Essa simboleggia, soprattutto, il futuro del nostro mondo nella forma di ciò che ho chiamato 'civiltà incapsulata'. L'unica autodifesa dell'Europa contro la marea di 'barbari' sarà lo sviluppo di un sistema globale giusto. Se ciò non avviene, diventeremo tutti cittadini di una civiltà incapsulata, prigionieri di un mondo ristretto, ridotto a proprietà privata sotto sorveglianza, che si isola sistematicamente dalle correnti impetuose del 'mondo esterno'.
Per questa ragione, è così importante il ponte per l'Africa. Rappresenta una risposta concettuale alla realtà, anche troppo concreta di questo muro, un monumento culturale dell'immaginazione contrapposto a un vero e proprio monumento della barbarie culturale. Non mi faccio illusioni sull'effettiva possibilità di realizzare questo ponte. Un ponte che si estenda dall'Europa all'Africa attraversando lo Stretto di Gibilterra dovrebbe essere tecnicamente fattibile. Naturalmente, si potrebbe costruire anche un tunnel, ma un ponte è un monumento. Forse si potrebbe collocare una piazza a metà del ponte e chiamarla piazza Eurafrica. Il ponte potrebbe diventare esso stesso una città. E non mi dispiacerebbe qualche giardino pensile. Proviamo noi stessi a progettare qualche ponte. Questo ponte potrebbe salvare molte vite, ma soprattutto dimostrerebbe l'assurdità dell'ordine globale in cui viviamo. Il mondo dovrà cambiare prima che questo ponte possa essere costruito. Le discussioni sul ponte saranno feroci, questo è chiaro. Ed è per questa ragione che esso costituisce un progetto artistico e politico così bello.
Cordialmente,
Lieven

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Caro Lieven,
Non c'è dubbio che la costruzione che adorna un lato delle banconote in euro sia il mito europeo per eccellenza. In senso strettamente giuridico, il nostro proposito non è quello di costruire un ponte tra la Spagna e il Marocco. Il nostro progetto riguarda un collegamento fisico tra il continente europeo e quello africano vicino allo Stretto di Gibilterra. A titolo di informazione, questo stretto ha un'ampiezza compresa tra 13 e poco più di 20 chilometri. Questo significa che dovremmo pensare di collegare Gibilterra a Ceuta. E così ci ritroviamo prigionieri del filo spinato di un'insolita e complicata questione di sovranità. Ceuta, che si trova sul continente africano, è in realtà territorio spagnolo, mentre Gibilterra, che si trova sul continente europeo, appartiene al meno continentale di tutti gli stati membri dell'Unione e resta (sino a nuovo avviso) una colonia della Corona britannica. Se volessimo adottare la retorica del realismo politico, dovremmo presentare la nostra idea come un ponte che collega due paesi europei: la Spagna e la Gran Bretagna. La resistenza all'esistenza concreta di un ponte tra l'Europa e l'Africa, qualunque forma esso dovesse assumere (potrebbe, in realtà, essere un tunnel, come anche una funivia attraverso lo stretto) è profondamente radicata nella coscienza europea. Potrebbe anche succedere che la nostra critica del ponte come mito europeo di un'Europa che si proclama aperta (non è un caso che l'altro lato delle banconote in euro sia adornato da immagini di finestre) sia silenziosamente messa a tacere. I fatti dimostreranno che anche l'apertura alle critiche è un mito. Prima che si arrivi a questo, dobbiamo tentare di interessare il lettore europeo al nostro progetto. Il lettore europeo ha voglia di sentire parlare di un ponte tra l'Europa e l'Africa? Non sarà sopraffatto dalla paura delle orde che sommergerebbero l'Europa grazie a un ponte che sarebbe addirittura finanziato dall'Europa? Quando parlo di questa idea folle, c'è sempre più di una persona che domanda se si tratterà almeno di un ponte mobile, evidentemente l'unico ponte che possa essere immaginato come adatto alla Fortezza Europa. Io sono solito rispondere che si tratterà certamente di un ponte mobile che, però, può essere alzato solamente dagli africani. Do per scontato che il nostro lettore non abbia bisogno di questo ponte. Come potrebbe dire qualcuno vicino al nostro modo di pensare: "È un'idea interessante, ma totalmente irrealistica da un punto di vista pratico, una fatica di Ercole, per così dire". Benissimo, parliamo di un vero mito europeo, parliamo delle fatiche di Ercole. Dopotutto, il luogo che abbiamo scelto per il nostro grandioso progetto è, a ben vedere, un luogo mitico, forse il luogo mitico per eccellenza. Inoltre, come apprenderanno certamente con interesse i nostri colleghi architetti, il nostro luogo ha anche un nome di origine mitica che fa direttamente riferimento a una forma architettonica, forse addirittura, non oso quasi dirlo, alla forma architettonica per eccellenza. Nella mitologia greca lo Stretto di Gibilterra è infatti noto con il nome di Colonne d'Ercole. Le diverse spiegazioni di questo nome ne rintracciano concordemente l'origine nei miti delle Fatiche di Ercole. Secondo una versione assai citata, il re Euristeo ordinò a Ercole di rubare le mele d'oro del Giardino delle Esperidi, che si trovava vicino allo Stretto di Gibilterra. Dal momento che l'ordine poteva essere eseguito solamente da Atlante, il quale era però impegnato a sostenere la volta celeste, Ercole non poté fare a meno di dare il cambio ad Atlante. Poiché Ercole dovette svolgere questo mitico lavoro interinale vicino a Gibilterra, le montagne sui due lati dello Stretto sono chiamate Colonne d'Ercole. In questa versione le colonne sono già una struttura portante; se possono sostenere i cieli, possono sicuramente reggere un ponte di una quindicina di chilometri. Io sceglierei le Colonne d'Ercole come simbolo delle strutture portanti di un ponte che deve ancora essere costruito. Ma come diffondere questo logo 'altermondialista'? Sarebbe senz'altro più costoso di quanto possano permettersi due filosofi. Tuttavia, errando per la rete come un Ulisse perduto, ho improvvisamente capito che le Colonne d'Ercole sono già il logo più diffuso del mondo. Per quanto possa sembrare inverosimile, miliardi di persone ne vedono quotidianamente una rappresentazione grafica. Sono onnipresenti. Tu hai presente quei momenti, nei quali pronunci a voce alta la parola ¥€$! Questo è uno di quei momenti. Un momento YES che può essere espresso utilizzando i simboli delle più importanti valute del mondo: lo yen, l'euro e il dollaro. La doppia linea orizzontale o verticale che in tutti questi simboli interseca il carattere non è niente meno che una semplificazione grafica delle Colonne d'Ercole. È noto che lo yen e l'euro hanno preso a prestito dal dollaro questa doppia striscia. È invece meno noto che, in questo modo, dopo una lunga traversata transatlantica, le Colonne d'Ercole sono tornate a casa con l'introduzione dell'euro. Il dollaro prese, infatti, in prestito la doppia striscia dal conio del Columnario, la moneta che gli spagnoli introdussero nel nuovo mondo.
Saluti notturni,
Dieter

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Caro Dieter,
il ponte è impossibile. Il muro è lì, il ponte invece non esisterà mai. Questa è la realtà. Finché l'Africa continuerà ad affondare come il Titanic, nessuno oserà costruire un ponte. Dovremmo dimostrare che l'Europa, invece, non affonderà, se accoglie tutti gli africani con l'acqua alla gola. Quando si sarà deciso di costruire il ponte, diciamo entro il 2020, si dovrà avviare una gigantesca azione di iniziativa europea, ma di scala globale per rendere l'Africa abitabile e preparare l'Europa alla nuova realtà del continente Eurafricano e, forse, a un maggior numero di immigranti, cioè a una reale globalizzazione. Questo è il problema insostenibile del nostro mondo. La gente dirà che questo ponte, anzi anche solo il suo disegno, è un progetto suicida per l'Europa. In altre parole, finché noi sopravviviamo, non ci interessa che l'Africa sprofondi. Sono in grado di costruire scudi spaziali, ma non un ponte per l'Africa. Bush II inaugura l'epoca della globalizzazione militarizzata attraverso un gigantesco aumento delle spese militari, che avrà come probabile effetto l'ulteriore africanizzazione di parti considerevoli della società americana. Per ora, i ponti restano soltanto sulle banconote. Una ragione per andare avanti con il progetto è sapere che nel 2050, secondo una stima preventiva delle Nazioni Unite, vi saranno su questo pianeta 9,1 miliardi di persone, la maggior parte delle quali nate nei posti sbagliati. Le migrazioni di massa faranno pertanto parte del Ventunesimo secolo. Intere popolazioni si trasferiranno. Non posso dire di trovarla una prospettiva rassicurante né attraente. La continua esplosione demografica potrebbe rapidamente assumere i contorni di una storia di disastri ecologici, sociali e umanitari. È questo che rende il nostro ponte così esplosivo. È un'utopia concreta.
Saluti,
Lieven

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Caro Lieven,
Tu dici che il mondo deve cambiare prima che noi possiamo costruire il nostro ponte. Io dico che il mondo cambierà una volta che avremo realizzato il nostro bridge. Tu dici che noi dobbiamo innanzitutto dimostrare che l'Africa non sta affogando. Io dico che, se l'Africa sta affogando, dovremmo certamente e urgentemente costruire questo bridge. E tuttavia stiamo ovviamente dicendo la stessa cosa. Quando dico che il mondo cambierà drasticamente a causa del nostro ponte e se tu sospetti che il mondo non vuole cambiare, allora il mondo dovrebbe veramente cambiare perché il nostro ponte possa essere accolto con favore. Tanto per cominciare, i no global sono ottimisti sulle prospettive di cambiamento. Come dicono, 'un altro mondo è possibile'. Il capitalismo, dopotutto, sarà presto costretto a fare i conti con una serie di contraddizioni che non sarà capace di risolvere. Le reazioni alla nostra idea di un ponte tra l'Europa e l'Africa metterebbero a nudo tutte le contraddizioni del nostro sistema capitalistico. Il capitalismo dovrebbe sentirsi offeso all'idea che questo ponte non possa essere realizzato. Il capitalismo dovrebbe fare ogni sforzo per dimostrare di essere perfettamente capace di realizzare una simile banalità. Non abbiamo intenzione di iniziare la tredicesima Fatica di Ercole, discutendo se questo ponte debba, o meno, essere realizzato. No, dovremo essere più accorti; dovremo far accettare il nostro ponte dall'opinione pubblica attraverso le donazioni di quanti sospettiamo essere i suoi maggiori avversari odierni. Faremo un viaggio a Seattle, andremo a trovare Bill Gates e gli chiederemo educatamente, ma con fermezza di versare i primi dieci milioni nella nostra misera scatola delle collette. Memori delle parole di Immanuel Wallerstein, prenderemo Gates in parola e lo ringrazieremo con una torta gelato. Abbiamo un'idea, abbiamo un logo e abbiamo un nome. Non abbiamo dimenticato qualcosa? Abbiamo velocemente convenuto che il ponte è un mito europeo, mettendo l'accento sulla parola mito. E se mettessimo l'accento sul fatto che si tratta di un mito europeo? Questo non significa anche che il ponte è un tipo di architettura europeo? Non è sintomo di eurocentrismo concepire il collegamento fisico tra Europa e Africa nei termini di una tipologia europea? Questo non deve essere un problema così significativo, se prevediamo che il ponte possa essere utilizzato in un modo diverso da quello che avevano in mente architetti e ingegneri. I suoi utenti lo riempiranno di un tal numero di chioschi e bancarelle da rendere impossibile il passaggio. Forse la piazza che hai immaginato a metà del ponte potrebbe finire per occupare l'intera estensione del ponte, rendendolo un luogo d'incontro invece che una zona di transito. Sto naturalmente pensando al lavoro di Rem Koolhaas, l'Harvard Project on the City, che documenta la trasformazione dell'incompiuto svincolo autostradale a quadrifoglio della Agege Motor Road di Lagos nel più importante mercato di strada della megalopoli. Non mi dispiacerebbe vedere nascere sul nostro ponte qualcosa di simile al mercato di Oshodi, se solo non si trattasse, a sua volta, di un nuovo stereotipo sull'Africa. Stiamo forse andando in cerca di guai, chiamando il ponte Ponte di Ercole? Dare a un ponte tra l'Europa e l'Africa il nome di una figura del mito europeo non è forse la più estrema forma di eurocentrismo? Non dovremmo dare al ponte il nome di una figura europea e di una figura africana? Certo, dopo tutte le allegre peregrinazioni nell'oceano digitale, mi dispiacerebbe dovere rinunciare al nome di Ponte di Ercole? Dal momento che ho udito, nel corso della mia odissea virtuale, tantissime storie strane e affascinanti, nonostante l'ora tarda mi metterò per l'ennesima volta a caccia di un socio africano all'altezza del nostro Ercole. Stenterai a credere che l'oceano ci ha mostrato, un'altra volta, la via della salvezza. Inizialmente, mi chiedevo se esistesse un equivalente africano della mitica figura di Ercole. La ricerca dell'espressione Black Heracles mi ha inizialmente indirizzato verso una serie di siti di tendenze leggermente omoerotiche, siti nei quali i muscoli di vari culturisti dalla pelle scura erano oggetto di analisi dettagliate e costruttive. Nonostante il fatto che, battendo questa pista, non fossi riuscito a trovare una variante africana della mitica figura di Ercole, mi sentivo tutt'altro che scontento. Avevo scoperto qualcosa di molto più interessante. E cioè che, proprio Ercole, era africano. I miti greci e specialmente quelli che riguardano Ercole sono di origine egizia. Questa è almeno la tesi provocatoria di un certo Samuel David Ewing, che si rifà all'avvincenti e dissacratorie ricerche di Martin Bernal, professore della Cornell University e autore del saggio intitolato Black Athena, con il quale ha aperto un dibattito di portata mondiale sulle origini afroasiatiche della civiltà classica. Secondo Bernal la culla della filosofia va collocata in Egitto . Ma non si ferma qui. La civiltà egizia, che ebbe un'influenza così considerevole su quella greca, era in realtà di origine etiopica. L'Egitto che affascinò i Greci era un Egitto nero. E così arriviamo alla tesi di Ewing, secondo la quale Ercole sarebbe stato nero. Questa figura del mito greco gode oggi del dubbio onore di avere prestato il proprio nome al C-130, l'aereo militare utilizzato spesso nelle missioni umanitarie per scaricare cibo in aree nelle cui vicende faremmo meglio a non immischiarci. In circostanze ancora più dubbie, gli aerei Hercules sono stati adoperati dal governo belga per rimpatriare stranieri illegali. Il 27 dicembre del 1993, l'esercito belga caricò su un aereo diretto in Somalia un gruppo di rifugiati politici, la cui procedura di ammissione si era conclusa con l'ordine di lasciare il territorio del paese. È per questa ragione che Ercole è oggi il simbolo dell'atteggiamento occidentale ora paternalistico ora repressivo nei confronti dell'Africa e del mondo impoverito in generale. Ercole ha urgentemente bisogno di riabilitazione. Il nostro progetto è una forma di riabilitazione mitologica. Non tollereremo che Ercole sia considerato il nome di un ponte aereo. Ercole sarà un vero ponte, un ponte che non esiste solamente nei recessi delle nostre menti. Dopo tutte le mie peregrinazioni mi è ormai chiaro che il tour de force che abbiamo iniziato con il nostro progetto per la costruzione di un ponte tra l'Europa e l'Africa non potrebbe avere un nome migliore che quello di 'Progetto Ercole'. Avendo appreso che Ercole è un africano, sono certo di essere sulla strada giusta. Il nero, come sai, è il colore della speranza. E così termino la lettera.
Con neri saluti,
Dieter
Originariamente pubblicato con il titolo Re: The Myth of the Bridge (an e-mail correspondence) in Hunch 5 (2002 pp. 54—68), questo scambio epistolare è stato tradotto dall'olandese in inglese da Danny Bosten. A partire dal 2002, data di pubblicazione di questo saggio, un attraversamento dello Stretto di Gibilterra simile a quello discusso da De Cauter e Lesage è stato proposto in varie forme e studiato tanto da ingegneri quanto da commissioni governative. I governi spagnolo e marocchino avviarono uno studio congiunto sulla fattibilità di un collegamento tra i due continenti ed esplorarono le possibilità di istituire una cooperazione tra l'Unione europea e 12 paesi del Mediterraneo e di sviluppare un'integrazione economica regionale. Numerosi ingegneri ed enti di trasporto pubblico hanno proposto progetti sia sopraelevati sia sotterranei per ponti e tunnel di attraversamento dello Stretto di Gibilterra al fine di collegare Europa e Africa. I progetti per un Ponte di Gibilterra sono caratterizzati da tracciati e configurazioni strutturali differenti.

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