Intorno c'è la sua casa di Cosanti. Tende bianche tirate. Una poltroncina azzurra. Tavoli di lavoro ordinati. Piccoli spazi. Pacchi di cereali e barattoli allineati sul frigorifero. Come in un'altra grande pittura. Tom Wesselmann. Ma qui ci sono meno colori. Con l'effetto opposto. Immagini di vita quotidiana sobria e distante dalle icone del consumismo vorace. Dall'opulenza accattivante e inutile (perché mi vengono in mente le cattedrali outlet delle nostre città?). A guardare intorno non c'è nulla di inutile. Questo è un tema che attraversa gli spazi e i modi dell'esistenza dell'architetto pioniere. Invece c'è tutta una gamma di inutilità che rendono la vita degna. Il rispetto della natura. La solidarietà tra uomini e animali. Le fragilità finanche. A cosa serve la poesia e la musica e l'amore per l'architettura se non ad avere un lungo sguardo pulito? È tutto scritto in questo lembo di terra tra Phoenix e Flagstaff (nelle storie di Tex Willer c'è sempre il fischio di un treno che passa per Flagstaff).
Il letto con la coperta ripiegata. Gesto abitudinario di ordine. Lo fa chi provvede da sé a se stesso. Una sedia di legno scuro per comodino con una fotografia poggiata allo schienale. È un volto scolpito da uomo romano. Antico come il comò con lo specchio. Roba da casa della nonna. Qua e là solo oggetti indispensabili. Una lampada ripiegata. È povertà questa? Una dedizione, diresti. Una fedeltà al compito che non lascia spazio ad altro. Una difesa persino, contro la volgarità del troppo. Come nei monasteri. Dallo specchio si riflettono le solite tende bianche tirate.
"Eppure io sono convinto che nella creatività o, per meglio dire, nell'estetica noi possiamo trovare le risorse necessarie per sottrarci all'ottuso potere di questo «impero tecnocratico». L'immensa riserva di buona volontà ed eccellenza immagazzinata nelle persone non deve essere gettata via in un'ovattata trivialità".
Tra ulivi e cactus la casa porta i segni di una continua stratificazione. Assi di legno inchiodate e rappezzate. Mattoni. Vetri. È l'America questa delle fattorie. Dei pick up e delle camicie di flanella a quadroni. Si può dormire all'aperto sul limitare dei grandi pascoli e impregnarsi degli odori del deserto vicino. Lavarsi all'abbeveratoio di pietra. Roba dolce. Da giovane Soleri abbandonò Taliesin West in contrasto con il suo maestro Wright – gran coraggio, non c'è che dire – per vivere nel deserto, dormire all'aria aperta, progettare con la natura. È l'America dei sogni. Che qui possono diventare realtà. Che altro è se no Arcosanti?
La stanza dell'architetto ad Arcosanti ha un letto ricoperto da un tessuto a scacchi e finestre circolari aperte sul paesaggio. Come uno sguardo verso l'altrove. Tavoli di lavoro ordinati e un bollitore del caffè sulla cucina. Poltroncine, grandi cassetti porta disegni e quattro piatti allineati sull'acquaio lindo.
Piante spinose e grasse in una terrina sospesa come cupola capovolta e l'acqua striata di riflessi di giada in una grande piscina. C'è un cielo solcato da nuvole bianche schierate come gli stormi di anatre selvatiche nei racconti di Richard Ford. È ancora America. Ma Paolo Soleri è nato in Italia. Allora vado a vedere la sua unica opera italiana, la fabbrica di ceramiche Solimene a Vietri. Per entrare nello spirito. Cercare un contatto. Sentire.
È una giornata di autunno distratto. C'è il sole. La fabbrica è lì dopo una curva da cui appare il mare come una chiazza di acciaio dai riflessi accecanti. È un magma di coni rovesci che riveste il costone lacerato da altri uomini. Un completamento. Anzi no. Una trasformazione. Qualcosa che si materializza. Come il magma ha fessure e spaccature colmate da vetri e infissi di ferro. Per entrare occorre salire una stradina puntata verso il sole. I dischi di ceramica, infiniti, si accendono come una miriade di specchietti. All'interno i pilastri si divaricano come fanno gli alberi quando vogliono accogliere qualcosa. Un nido o che. Qui la grande spirale dei percorsi. C'è un colore di sabbia granulosa e liscia. Se ti concentri ne senti l'odore nelle narici. La luce cola dall'alto e si frantuma in mille riquadri come una caduta di coriandoli.
Qua e là visibili i ferri delle armature, macchie di umidità. Ma non c'è trascuratezza nelle persone che vi lavorano. Sembra uno spazio amato. Poggiate sul pavimento cataste di piatti bricchi vasi piastrelle medaglioni di mille colori accesi. Blu. Verde. Giallo. I colori del mare. Delle praterie e del deserto. Tutto qui. A portata di mano. Si possono toccare. Davide Vargas