Risposta a Esporre l'architettura

Pubblichiamo il commento di Luis Berríos-Negrón, postato il 22 settembre in risposta al saggio di Carson Chan. L'architetto portoricano conclude il suo contributo ponendo alcune domande sul problema della rappresentazione nel processo espositivo.

Carson Chan sta diventando uno dei personaggi di punta dell'architettura sperimentale. La stimolante posizione che illustra nel suo articolo è per me tanto più convincente a motivo delle nostre numerose conversazioni degli ultimi quattro anni: so che siamo d'accordo su che cosa sia una mostra che abbia a che fare con l'architettura in quanto tale, e come progetti se stessa in quanto terreno sperimentale. E perciò vorrei intervenire sui punti di questa presa di posizione che sono contemporaneamente di forza e di debolezza.

"Come può l'architettura essere allo stesso tempo oggetto e contesto di un'esposizione?" È davvero una domanda molto importante, ben posta, senza risposta definitiva. In un mondo in cui l'architettura si è evoluta fino a diventare da un lato un'attività appassionante, programmatica, teatrale, imprendibile, fisica, mentale, biologica, collaborativa; e dall'altro una patologia tossica, inadeguata, cristallizzata, "irresponsabile" (proprio rispetto all'uso che Chan fa del termine positivo) la domanda punta dritto al cuore del fondamento ontologico oggi costituito dall'architettura.

Indubbiamente "un problema di fondo legato alle mostre d'architettura [è] quello della rappresentazione". In prima istanza è davvero curioso che gli studenti dell'École des Beaux-Arts siano uno dei principali capisaldi dell'argomentazione di Carson per discutere della polemica tra oggetto e contesto in architettura, e in particolare del disegno come proposta dell'idea architettonica. Curioso ma metaforico se si pensa al termine carrette, sinonimo corrente per indicare l'esercizio incessante, industriale della produzione architettonica accademica, e nemmeno tanto accademica. Un fenomeno che si è sviluppato proprio a partire da quegli studenti dell'École des Beaux-Arts i cui disegni destinati alla valutazione finale venivano raccolti con una carretta (la carrette), non diversa da quella usata per condurre i condannati alla ghigliottina. E giustamente, se la presentazione di un lavoro da studente è il precedente dell'esposizione di opere d'architettura, sarà magari un fattore fuorviante, ma si inserisce bene nella polemica sulla rappresentazione e sull'autorialità in architettura nel privato, poi nelle istituzioni, e infine nella sfera pubblica.

"La funzione del curatore delle mostre d'architettura è quindi duplice."

Benché io sia inequivocabilmente d'accordo con la seconda delle funzioni indicate da Carson, lavorando a Berlino e potendo testimoniare della correttezza dell'affermazione relativa all'"educazione del pubblico" (che so Carson pratica con continuità), devo esprimere il mio profondo disaccordo con la prima delle due funzioni:
"Creare mostre d'architettura e non solamente la sua rappresentazione". È un'affermazione in contraddizione con quanto sostiene il saggio. Fa pensare che l'attività del curatore, come quella espositiva, sia in qualche modo un processo di produzione culturale non soggettivo. Io credo che la linea maestra di un curatore, e la sua forza, sia la rappresentazione. Con questa affermazione voglio intendere naturalmente che l'agire del curatore è esso stesso inevitabilmente un fatto di rappresentazione. Cioè che l'autorialità e la pre-sentazione dell'opera spettino all'autore dell'opera esposta – in questo caso un architetto – e che il curatore debba inevitabilmente da traduttore a un dialogo con il soggetto e con il suo autore, da vivo o post mortem.

Sono d'accordo con Carson, se capisco bene che lo scopo sia affermare che la creazione di una mostra d'architettura, in contrapposizione con la mostra di un architetto, è intrinseca nella complessità multiforme e spesso mutevole di un gesto architettonico come proposta spaziale in sé e per sé, dal punto di vista concettuale e da quello fisico, per non dire della complessità allestitiva e performativa che le sono così inestricabilmente collegate. Ma separare così nettamente esposizione e rappresentazione riflette non un'affermazione ma un luogo comune, che manca di affrontare la vera difficoltà della questione. Altrimenti si ritorna a parlare del curatore come artista, non della fruizione di idee architettoniche, in questo caso della loro esposizione.

Per essere più precisi, affinché le mie argomentazioni non cadano a loro volta in questo pantano, voglio chiarire quella che appare come una condanna del disegno d'architettura (disegno tecnico, pianta, sezioni e così via) in quanto tecnica ambigua di esporre e fare critica d'architettura. Vorrei sviluppare un'analisi più precisa dell'atto di "incorniciare" e "appendere" disegni in un contesto molto più rigoroso. Due sono le rispettive ragioni.

Per essere più precisi, affinché le mie argomentazioni non cadano a loro volta in questo pantano, voglio chiarire quella che appare come una condanna del disegno d'architettura (disegno tecnico, pianta, sezioni e così via) in quanto tecnica ambigua di esporre e fare critica d'architettura. Vorrei sviluppare un'analisi più precisa dell'atto di "incorniciare" e "appendere" disegni in un contesto molto più rigoroso. Due sono le rispettive ragioni.

Prima di tutto fare riferimento a istituzioni e mostre che hanno anch'esse applicato a lungo lo stesso metodo di incorniciare e appendere disegni in installazioni architettoniche strutturate appare difficile da comprendere come argomentazione volta a criticare contemporaneamente la pratica di esporre idee d'architettura. L'uso dello schizzo e del disegno tecnico è ancora uno strumento epistemologico prezioso, se non indispensabile, e secondo me un'espressione architettonica potenzialmente sublime. A tutt'oggi, e a dispetto di alcuni straordinari sforzi di rinnovare la "rappresentazione" delle idee architettoniche attraverso il disegno, come risultato sia di una modellazione parametrica e di una realizzazione digitale, sia di un'ottimizzazione della costruzione, il disegno, generato con il CAD oppure a mano, appiattito in pianta o arricchito in assonometria, è secondo me efficace come ogni altra fase dell'esperienza architettonica.

In secondo luogo l'argomentazione più sorprendente del saggio è che il non essere riusciti a "esprimere delle idee architettoniche del tutto nuove" equivale, o più precisamente scade, a diventare alla fine qualcosa di "semplicemente strumentale alla scenografia". Mi chiedo se non sia un caso di insularità o di protezionismo architettonico. È proprio la scenografia con il suo enorme potere e con la sua durevole profondità semiotica che può aiutare i curatori che lavorano sull'architettura a comprendere e ad analizzare le idee architettoniche esposte, in particolare in questa, contestualmente inedita se non opportunistica, posizione di operatore culturale. È proprio la condizione di fatto legata al tempo, scultorea e performativa di una mostra che si rivela tangente e, caso mai, indissolubilmente legata alla scenografia. Questo rapporto costituisce un modo gradevole di affrontare le idee dell'animazione e della creazione di uno spazio che si riversi sulla vita esterna, idee intrinseche nel superamento delle ardue pieghe della pratica contemporanea, sociale e formale, dell'architettura e della sua rappresentazione.

Perciò, dato che interpreto questo riferimento all'esposizione di disegni e alla scenografia come una diminuzione della pratica architettonica, mi vedo costretto, in questo commento alla provocazione strategica di Carson, a porre alcune domande:

1. La presentazione di un disegno è la rappresentazione inefficace di un'idea architettonica, oppure è la sua esposizione in una mostra, a paragone di muri, oggetti, installazioni o performance, che corre il rischio di risultare banale e/o inarticolata?

2. Come si articola di preciso la distinzione tra il processo espositivo e la rappresentazione?

3. Perché la sfera della scenografia è inadeguata a sviluppare e presentare le idee architettoniche?


Luis Berríos-Negrón, architetto e artista.
Attualmente vive tra Madrid e Berlino.
La mostra <i>Immediate Archaeologies</i> allestita durante Program Berlin (2009). Foto Morgan Beleguer
La mostra Immediate Archaeologies allestita durante Program Berlin (2009). Foto Morgan Beleguer

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