Give Me Yesterday

La prima mostra fotografica del nuovo Osservatorio di Prada si concentra sul tema del diario: pagine tutt’altro che segrete ci parlano di vite quotidiane un po’ disfatte, un po’ banali, decisamente smagate.

Give Me Yesterday
Nel romanzo La chiave (Kagi) (1956) dello scrittore giapponese Junichiro Tanizaki, due coniugi tengono ognuno un diario segreto nella speranza che venga letto di nascosto dall’altro coniuge – la chiave del titolo è quella del cassetto dove il marito, professore di mezza età, conserva il proprio diario e che egli lascia intenzionalmente in vista confidando che la moglie Ikuko, dieci anni più giovane e invaghita dell’amico di famiglia, il Sig. Kimura, lo apra e si comporti secondo le aspettative sessuali del suo sposo. L’intimità viene qui trascritta come in un post di Facebook, nella misura in cui si sa (si spera) venga letta – mentre la si scrive ci s’immagina già chi la leggerà e cosa farà.
Quello del diario è un tema alla portata di tutte le borse. Tanto che il curatore Francesco Zanot ne ha fatto il refrain della mostra inaugurale del nuovo spazio espositivo milanese di Fondazione Prada, spazio che prende il nome di “Osservatorio”, e a ragione: allocato al civico numero due (quinto e sesto piano, 800 metri quadrati) di quella strada pedonale coperta, cinta dai negozi delle grandi firme, che è la galleria Vittorio Emanuele, dà sulla fiera cupola in ferro e vetro dell’Ottagono. “Osservatorio” rinvia, va da sé, allo sguardo, e pure, vedi i suoi modi d’uso (O. metereologico, O. vulcanologico, O. avifaunistico, O. militare) – all’idea di monitoraggio. In questo caso a venire monitorata sarà la fotografia. A partire da questa prima mostra, di sole foto, di una quindicina di – per lo più – giovani autori (diversi del Novanta).  

 

Fra questi, il più noto è di certo l’americano Ryan McGinley (1977), sul cui lavoro Sylvia Wolf, curatrice della sua personale al Whitney Museum nel 2003, scriveva: “Nel primo McGinley, skateboarder, musicisti, graffitari e gay sono del tutto consapevoli di essere fotografati [...] I soggetti che ritrae performano davanti e per la macchina fotografica, esplorando se stessi con lucida auto consapevolezza. Comprendono pienamente la loro cultura visuale di appartenenza, consci di come l’identità possa essere, non solo comunicata, ma anche creata” (fonte Wikipedia).

Queste della Wolf sono parole che potrebbero ben spiegare, non solo l’opera di McGinley (ragazzi nudi, ammiccanti, capelli al vento, sullo sfondo di paesaggi bucolici) ma, pure, tutti gli altri lavori esposti. Qui non è il diario che, con un certo patema, si scrive e poi si apre e rende pubblico (scatti rubati di fatti reali, vissuti e talvolta subiti; di persone consapevoli o ignare o incuranti d’essere ritratte: il diario alla Nan Goldin, Larry Clark e Richard Billingham, per intenderci, che pure sono i riferimenti obbligati di questa mostra), ma il racconto di una quotidianità, più che documentata, sbattuta e montata come si fa con i tuorli d’uovo per fare la maionese chantilly. Messa in scena, recitata.
Give Me Yesterday
Antonio Rovaldi, Orizzonte in Italia (dalla serie), 2011-2015. Installazione della mostra “Give Me Yesterday”, Fondazione Prada Osservatorio, Milano. Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti Courtesy Fondazione Prada
Ecco allora venire alla ribalta una donna, tale Tina, in giarrettiera nera e seno nudo (in un’altra foto, la stessa, inginocchiata sul letto, indossa una vestaglia trasparente), che si scopre poi essere la madre dell’artista Leigh Ladare (USA, 1976), il quale, nella serie Pretend You’re Actually Alive (2000–2008), ritrae il disinibito genitore nella sua sessualità più spinta. Viene meno a certi tabù familiari anche la ceca Vendula Kopová (1987), che pesca anch’essa dalla figura materna, o meglio dal suo hard-disk, per dar vita a Tutorial (2015): una compilation di ambigue e demenziali scenette domestiche. Stesso soggetto per l’olandese Maurice Van Es (1984) e per la sudafricana Lebohang Kganye (1990).
Il primo mette in fila cinque oggetti insignificanti riordinati dalla madre (un asciugamano, un telecomando…) e li fotografa come fossero sculture (To Me You Are a Wok of Art, 2011). La seconda, con Her-story (2013), riesuma alcune foto dall’album di famiglia, e su queste sovrappone la propria figura a quella della madre scomparsa. Prende invece le distanze, pur facendo della fotografia uno strumento di misurazione degli affetti, l’italiana Irene Fenara (1990): nella sua serie di Polaroid Ho preso le distanze (2013), i diversi piani di ripresa (Rosetta è a figura intera; Leo è a mezzo busto; di Axel c’è un primissimo piano) corrispondono alla misura in cui l’artista si sente “vicina” ai soggetti fotografati.

 

L’altro italiano in mostra, Antonio Rovaldi (1975), scrive il suo diario sul manubrio della propria bici e non appunta altro che orizzonti: novanta sono le foto che compongono la serie Orizzonte in Italia (2011–2015), allineate lungo quella linea immaginaria che divide il cielo dal mare. Nel centro esatto, una si discosta dalle altre: si legge una frase: “Nient’altro che noi”; accanto è scarabocchiato un cuoricino (il destinatario della dedica resta sconosciuto). Ed ecco che, dagli spazi siderali, l’orizzonte si avvicina, è alle porte, e diventa quello più prossimo dei sentimenti. Dal 2001 al 2008, il cinese Wen Ling (1976) fa del blog Ziboy.com il suo personale diario (qui ne è esposta una piccola parte).

E se Ling propone insipide vedute di quartieri e raduni, di gente che mangia e che corre, il giapponese Kenta Cobayashi (1992) riflette sì, come il primo, sul mezzo digitale, ma usando la distorsione come cifra stilistica – di una sua foto si può riconoscere solo un orecchio, un ciglio. E come Ling, anche l’altra giapponese, Izumi Miyazaki (1994), si affida a un blog (su Tumblr) per veicolare le sue foto (tutti autoritratti), e come Cobayashi le “trucca” – eccola sdoppiarsi, volare, ecco la sua testa decapitata sanguinare sul tappeto. Sua è l’immagine della réclame della mostra: qui la si vede stretta in un primo piano, occhi fissi al soffitto, mentre le vengono tagliati i capelli con un taglierino da ufficio.

Give Me Yesterday
Da sinistra: Kenta Cobayashi, Greg Reynolds, Antonio Rovaldi, Ryan McGinley. Installazione della mostra “Give Me Yesterday”, Fondazione Prada Osservatorio, Milano. Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti Courtesy Fondazione Prada

Rivolgono la macchina fotografica verso se stessi l’olandese Melanie Bonajo (1978), che riconosciamo in un catalogo di guance rubizze e occhi gonfi – l’artista si è fotografata ogni volta che ha pianto nell’arco di dieci anni (2001–2011) e il risultato è Thank You for Hurting Me I Really Needed It (2008–2016), un parato di sessanta selfie che fa tutt’uno con il muro e pure con il maniglione anti panico dell’uscita di sicurezza; e il portoghese Tomé Duarte (1979) che, scaricato dalla fidanzata, ha deciso di mettersi, letteralmente, nei suoi panni (indossando tutti i vestiti di lei trovati nell’armadio) fotografandosi, così grottescamente agghindato, in ogni angolo della casa dove aveva abitato con l’amata.

Sulle tensioni alla base delle relazioni, non solo di coppia, torna la polacca Joanna Piotrowska (1985) con Frowst (2013–2014), una serie che combina gesti correnti di conoscenti reiterati nella loro intimità ad altri più propriamente terapeutici messi appunto dallo psicologo Bert Hellinger per potare a galla i traumi più reconditi. Al passato guarda anche l’americano Greg Reynolds (1958), il quale dissotterra e ri-presenta sotto il titolo di Jesus Days, 1978–1983 (2016) alcune foto risalenti al periodo in cui – erano gli anni Settanta – ricopriva il ruolo di pastore all’interno di una comunità cristiana evangelica, prima di dichiarare la sua omosessualità e trasferirsi a New York per studiare cinema.

 

Infine, il titolo di questa esposizione: “Give Me Yesterday”, pizzicato da una vecchissima canzone di Harry Macdonough and the Orpheus Quartet,Turn Back the Universe and Give Me Yesterday (1916!). Così il curatore ha voluto chiarirci come siano di inchiostro fresco (di ieri) le pagine di diario appiccicate sulle pareti, pure di fresco intonaco, del nuovo Osservatorio di Prada. Pagine tutt’altro che segrete, che ci parlano di vite quotidiane un po’ disfatte, un po’ banali, decisamente smagate, che sembra non abbiano – intenzionalmente – molto da dirci e poco da spartire, riposte in un cassetto chiuso a chiave, con la chiave lasciata in bella vista.  

© riproduzione riservata

fino al 25 marzo 2017
Give Me Yesterday
Osservatorio Prada
Curatore: Francesco Zanot

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