desiderata (in media res)

Le stanze del Madre accolgono un’infilata di seducenti e affilate trasfigurazioni in opere di un pensiero, quello dell’artista inglese Mark Leckey, impeccabilmente attuale su come gli oggetti divengono desiderio attraverso il modo in cui sono rappresentati.

Mark Leckey, DESIDERATA (in media res) Veduta dell’installazione
La retrospettiva itinerante di Mark Leckey, nato nel 1964 a Birkenhead (Gran Bretagna) e vincitore del Turner Prize nel 2008, è approdata al Madre di Napoli.
Con diversi titoli e composta di costellazioni di opere ogni volta leggermente variate, in precedenza è stata a WIELS (Bruxelles) e alla Haus der Kunst (Monaco di Baviera).
L’agenda dell’istituzione napoletana prevede di dedicare delle ampie personali ad artisti mid-career (tra cui, in precedenza, Giulia Piscitelli, Mario Garcia Torres, Francis Alÿs e Walid Raad). Quella di Mark Leckey, che riprende il filo tematico dell’indagine sullo statuto dell’opera d’arte e della rappresentazione del reale già indagato dal museo con la autorevole mostra di Sturtevant che si è chiusa a settembre 2015, assume un senso molto speciale nel suo prendere forma in Italia.
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res)
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res), veduta dell’installazione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli Photo © Amedeo Benestante
Questa nazione per Leckey è prima di tutto un’icona pop, fin dal lavoro con cui lui ha ottenuto fama internazionale, il video Fiorucci Made Me Hardcore (1999). Quest’opera celebra il potere della moda italiana e dei suoi brand di dar forma, ma soprattutto di fornire l’ideale guardaroba, a un immaginario condiviso come quello della cultura dance britannica. Ma c’è anche l’episodio raccontato in conferenza stampa da Elena Filipovic (co-curatrice della mostra con Andrea Viliani), di un giovane Leckey con le sue aspirazioni di italianità che si concretizzavano nella passione per le pizze surgelate. La curatrice, più o meno scherzando, ha commentato dicendo che l’arrivo a Napoli della mostra, con la possibilità per l’artista di mangiare la vera pizza, è un corollario al suo lavoro, al suo confronto implacabile tra il vero e i suoi surrogati.
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res)
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res), veduta dell’installazione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli Photo © Amedeo Benestante
Le stanze del Madre accolgono un’infilata di seducenti e affilate trasfigurazioni in opere (video installazioni, sculture, poster…) di un pensiero impeccabilmente attuale su come gli oggetti divengono desiderio attraverso il modo in cui sono rappresentati. La mostra ha un prologo dedicato a uno dei protagonisti ricorrenti delle opere di Leckey, il gatto-cartoon bianco e nero Felix, qui presente in forma di scultura gonfiabile (Inflatable Felix, 2013).
L’artista racconta che un pupazzo di questo personaggio è stato la prima immagine trasmessa dalla TV statunitense. Felix, antesignano dell’animale reso simpatico grazie ai tratti umanizzati, è un avatar dell’immagine elettronica e un professionista dell’intrattenimento. È un gatto diventato famoso come immagine. Ed eccolo ri-prendere corpo, un corpo fatto d’aria ma gigantesco, e venir ficcato a forza dentro una stanza di museo, come era stato ficcato a forza dentro le prime scatole televisive. Felix è anche protagonista nelle performance di Leckey, conferenze colte, assurde e spettacolari in cui l’artista illustra una teoria dell’economia digitale nota come “long tail theory”. Anche il gatto, come il sistema di consumo che passa per internet, ha una coda sinuosa.
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res)
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res), veduta dell’installazione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli Photo © Amedeo Benestante
Il gonfiabile di Felix è accostato a un video digitale in cui si vede, appunto, una coda con riflessi metallici cangianti (Mercury Tail, 2015). Le forme simpaticamente stondate e stilizzate del disegno da cartoon assumono un carattere di fredda sensualità ottica, leggermente ipnotica. Questa coesistenza impietosa tra seduzione e glacialità ritorna soprattutto nelle prime sale della mostra, a interpretare in diversi scenari la meccanica che ci spinge a volere, a voler esserci, ad essere inspiegabilmente attratti, fisicamente soggiogati da qualcosa che appare come perfettamente chiuso in se stesso, inaccessibile e per questo sommamente desiderabile.
Mark Leckey, Pearl Vision, 2012
Pearl Vision, 2012, video HD, colore, suono, 3’:06’’, proiettato su macchina di retro-proiezione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli Courtesy l’artista; Cabinet, London; Gavin Brown’s enterprise, New York; Galerie Buchholz, Berlin-Köln
Il video Pearl Vision (2012) prende il titolo dalla gamma di tamburi e batterie Vision della casa di produzione di strumenti a percussione Pearl. È mostrato all’interno di una struttura che lascia perfettamente visibile il funzionamento della retroproiezione, così da chiarire subito che qui si andranno a mettere a nudo i meccanismi attraverso i quali il desiderio viene prodotto e mostrato. Il protagonista è un rullante che l’artista suona accompagnando un canto di sirene suadente e distorto. Leckey, prima vestito e poi nudo tiene il tamburo tra le gambe e lo percuote ritmicamente con le bacchette dalla punta stondata; non c’è alcun elemento in questo video che non sia un riferimento piuttosto spudorato al sesso.
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res), veduta dell’installazione
Mark Leckey, DESIDERATA (in media res), veduta dell’installazione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli Photo © Amedeo Benestante
Nella sala successiva l’installazione GreenScreenRefrigeratorAction (2010) ha per protagonista un frigorifero Samsung nero. Versione odierna del monolite kubrikiano o del sarcofago di Federico II, l’elettrodomestico sta al centro di un palcoscenico green-screen. È un attore, a cui Leckey presta la voce, distorta, per un video nel quale il frigo si prende la libertà di declamare i suoi pensieri sul proprio funzionamento meccanico e sui propri sogni. Poi è la volta di un altro oggetto lucido e desiderabile, la scultura Rabbit di Jeff Koons. Nel film Made in ‘Eaven il coniglietto gonfiabile (gonfiabile come Inflatable Felix) che Koons ha fatto di acciaio inossidabile immacolato (asettico come il rullante di Pearl Vision), sembra essere stato collocato nello studio di Leckey e ripreso con dedizione da una telecamera in continuo movimento. L’immagine, fantasmatica, in realtà è completamente digitale; la scena non ha mai fisicamente avuto luogo, la scultura di Koons è sempre e solo stata nel paradiso del mercato dell’arte.
Mark Leckey, Circa ‘87, 2013, stampa offset.
Mark Leckey, Circa ‘87, 2013, stampa offset. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli Courtesy Galerie Buchholz, Berlin-Köln

A questo punto della mostra ci si trova ad aver percorso una sorta di trittico degli oggetti del desiderio: il sesso, l’oggetto tecnologico, l’opera d’arte, tutti mostrati da Leckey come efficacissimi artifici.

Il percorso espositivo poi lascia spazio all’ormai canonico Fiorucci made me Hardcore e si conclude con delle sale vagamente paesaggistiche, con calchi in legno, gomma e cartone di piloni della luce, cavalcavia e altri oggetti da periferia rada. Questi spazi, dominati dall’installazione sonora Sound System (2011-2012) che riporta l’attenzione sulla centralità della musica e del modello operativo del DJ set per Leckey, sono illuminati da luci arancioni da autostrada.

La mostra si chiude al tramonto, in una malinconia artefatta che acuisce l’impaziente desiderio della danza, della bellezza da make-up notturno, del nero compatto degli sfondi delle immagini pubblicitarie, da cui possono emergere forme galleggianti in attesa della “next level perfection” (come recita l’etichetta del conturbante tamburo Pearl).

© riproduzione riservata

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