Dak’art 2014

Il fai-da-te resta la migliore strategia per produrre arte e cultura alla Biennale dell’arte africana contemporanea di Dakar, che ancora oggi offre un’idea della produzione del continente.

FabLab Defko Ak Niëp, Dakar, 2014
Per la prima volta nella sua storia, Dak’Art comincia a somigliare a una vera biennale d’arte. Dev’essere per via dell’edificio industriale affittato per ospitare l’esposizione internazionale dove un nuovo ritmo domina la scena: bandiere bianche di Mehdi-Georges Lahlou all’ingresso, il video con frammenti onirici di John Akomfrah sull’ampia parete laterale di una sala, le creature animate di Wangechi Mutu, la città sonora di Emeka Ogboh, un girasole di chiodi e cucchiai di Olu Amoda, il futuristico mondo a fumetti di Milumbe Haimbe...
In apertura e qui sopra: FabLab Defko Ak Niëp, Dakar, 2014. Courtesy Kër Thiossane
Somigliare a una biennale è una strana cosa. Le biennali sono, in effetti, le grandi manifestazioni dell’arte contemporanea, che – se negli anni Novanta erano forse una novità –, oggi sono semplicemente una consolidata struttura culturale e d’intrattenimento all’interno della quale ci aspettiamo di trovare un gruppetto di appassionati che le collezionano come figurine, opere d’arte e una città da visitare. Ogni evento è profondamente diverso, ma la parola “biennale” e il desiderio d’identificare un fenomeno globale dell’arte hanno prodotto nel tempo la convinzione che “le biennali del mondo” si somiglino un po’ tutte. 
Sidy Diallo, Not for Sale, 2013. Acrilico e pastello su tela, 147 x 243 cm. Courtesy of the artist e Dakar Biennale
Dak’Art non fa eccezione. Vanto o condanna, l’evento è entrato da subito nella rete delle biennali internazionali, rappresentando agli occhi del mondo la versione africana del franchising delle biennali e il posto giusto dove osservare come l’Africa si autorappresenti. Dedicata specificatamente all’arte contemporanea africana, Dak’Art è ancora oggi per molti visitatori l’occasione per farsi un’idea della produzione del continente. Con questo modo d’interpretare e contestualizzare, Dak’Art funziona però soltanto quando si osserva la manifestazione da lontano; la situazione, invece, cambia quando ci si avvicina.
FabLab Defko Ak Niëp, Dakar, 2014. Courtesy Kër Thiossane
L’aspetto più determinante dell’esposizione internazionale è l’appello alla candidature. Dopo un primo tentativo nel 1992 di accogliere artisti, più o meno selezionati, proventi da tutto il mondo, nel 1996 la biennale ha creato un open call aperta a tutti (purché di nazionalità o origini africane). L’approccio voleva essere aperto, democratico e trasparente. Di fatto, però, il metodo si scontra subito con la sua reale applicazione e con la situazione del continente: comunicare l’evento, raggiungere efficacemente gli artisti, produrre un portfolio, convincere gli artisti più noti a candidarsi era tutt’altro che facile. Ciononostante, l’appello alle candidature è proseguito per anni, con una commissione che si è ritrovata a scegliere quello che arrivava, anche se non necessariamente fotogenico. Nel 2006, il sistema cambia: Yacouba Konaté è nominato direttore artistico della biennale e la selezione è curata direttamente da lui e da una serie di curatori aggiunti. Nonostante il successo di aver ripensato il funzionamento dell’evento, i costi appaiono però insostenibili. Nel 2008, riprende l’appello alle candidature e da quest’anno anche il curatore della biennale sarà selezionato con un bando (candidature entro il 31 maggio 2014) e i curatori di questa edizione Elise Atangana, Ugochukwu-Smooth C. Nzewi e Abdelkader Damani hanno avuto una situazione mista: un po’ di selezione diretta e un po’ di selezione attraverso portfolio. Ma quale Africa hanno rappresentato?
John Akomfrah, Peripeteia, 2012. Video HD, colore, sonoro, 18'13''. Courtesy of the artist, Gallery Caroll Fletcher, Smooking Dogs Films e Dakar Biennale
Dalle loro parole sembrano ben coscienti che una biennale – anche se in Africa – non può certo rappresentare un continente. Hanno evitato di scegliere artisti già esposti a Dak’Art, hanno inserito nell’esposizione protagonisti africani che vivono nel continente e fuori, e hanno scelto – forse meglio e in modo più coerente rispetto a tutte le esposizioni internazionali precedenti – delle opere e un allestimento che strizza l’occhio all’intrattenimento, forse quello che più di tutto fa somigliare questa biennale alle altre. Dichiarano che la loro selezione vuole dare spazio ad artisti “attivamente impegnati”, capaci di produrre quel commun (common in inglese) che in italiano è veramente difficile da restituire. Il titolo dell’esposizioni internazionale è infatti “produire le commun” (in inglese “producing the common”), ma più che su beni comuni, comunità e collettività, penso possa essere interessante concentrarsi sull’altra parola: produrre.
Candice Breitz, Extra #1, 2011. Stampa cromogenica, 56 x 84 cm. Ed. 5 + 2 A.P. Commissionata dalla Standard Bank Gallery. Courtesy Goodman Gallery e Dakar Biennale
La caratteristica che certamente accomuna tutte le biennali è riuscire a produrre, quanto meno un’esposizione. Ovunque l’impresa presenta delle sfide. Lo sanno benissimo anche quelli che, dopo essersi goduti gondole e spritz, si ritrovano a Venezia a trasportare su barchette opere, proiettori e dépliant nella più longeva e iconica biennale del mondo. A Dakar riuscire a produrre rappresenta una vera vittoria, spesso conquistata nonostante la biennale. Il premio (non ufficiale) alla produzione di questa edizione va senza dubbio alla curatrice di “Dak’Art Campus” Ndeye Rokhaya Gueye, che ha arruolato studenti ed è riuscita a trasformare – con scopettoni, ramazze e una serie di cinque opere site-specific – l’orto botanico della facoltà di Medicina dell’Università di Dakar in un piccolo e poetico giardino. Diversamente dal meraviglioso spazio del vecchio e abbandonato Palazzo di giustizia (usato dalla biennale nel 2002 e 2004 anche se si erge su una scogliera instabile), forse questo giardino conquistato potrà essere mantenuto (e documentato su Open Street Map nella cartografia degli spazi verdi di Dakar all’interno del festival Afropixel “Jardins de Resistence” – giardini di resistenza – contemporaneo alla biennale). Bello anche l’omaggio a uno degli artisti più importanti del continente Mustapha Dimé (1952-1998), che riporta a Dakar le opere di proprietà della famiglia conservate dal 2008 in Francia presso la Fondation Blachère.
Mehdi-Georges Lahlou, 72 (virgins) on the sun, 2014. Scultura / installazione, tecniche miste, dimensioni variabili. Courtesy of the artist and the Dakar Biennale
Il DIY “Do It Yourself” è in effetti una rilevante strategia di produzione che paradossalmente caratterizza sia gli eventi ufficiali della biennale che quelli a latere (il cosiddetto programma off che quest’anno conta 230 presenze – navigabili sull’app per Android realizzata da DevEngineLabs e Aude Guyot). Tra i tantissimi eventi, CCA Lagos ha organizzato a Dakar la quarta edizione del suo programma di formazione “Àsìkò” che nasce proprio per colmare un vuoto nell’accompagnamento di artisti, curatori e critici del continente africano. Raw Material Company ha presentato in “Precarious Imaging” una serie di ritratti fotografici e video che, con delicatezza e pudore, aprono uno spazio alla riflessione su violenza e omofobia nei confronti dell’omosessualità in Africa. Il FabLab Defko Ak Niëp (una stanza con serranda creata da Kër Thiossane in una via in cui tutti gli artigiani hanno una stanza con serranda) ha ospitato laboratori, prodotto portachiavi con stampanti 3D costruite con materiale di recupero e tessuto sciarpe e borsette in maglia realizzate integrando una scheda di Arduino su vecchi macchinari.
Wangechi Mutu, The End of eating Everything, 2013. Animated video, 8’10", Edition of 6. Courtesy of the artist, Gladstone Gallery New York and of the Dakar Biennale
L’Institute for Comparative Modernities della Cornell University e l’Institute of African American Affairs della New York University hanno organizzato la densa conferenza “Global Black Consciousness” e sono state presentate delle esposizioni di artisti di Congo Brazaville, Mali e Algeria. Poderosa la presenza della Royal Air Maroc, che ha siglato un accordo con Dak’Art come sponsor tecnico fino al 2018, per fornire 120 biglietti aerei ad ogni edizione e contribuire alla sua comunicazione; mentre il personale della compagnia aerea fa corsi antirazzisti per imparare a trattare con cura la nuova clientela, Dakar è tappezzata di manifesti che annunciano il trasportatore ufficiale della biennale, c’è un vero e proprio palcoscenico RAM nello spazio dell’esposizione internazionale, ministro della Cultura del Marocco all’inaugurazione ufficiale, e c’è pure un padiglione, non del Marocco, ma proprio della Royal Air Maroc (che presenta il risultato di un workshop internazionale organizzato in Marocco al quale ha partecipato anche Pélagie Gbaguidi). 
FabLab Defko Ak Niëp, Dakar, 2014. Courtesy Kër Thiossane
Ancora a questa edizione ci s’interroga sul perché la Biennale di Dakar faccia così fatica a garantire una qualità e una maturità organizzativa che ormai dovrebbe già aver acquisito. Il Senegal ha la stabilità politica e un livello di sicurezza e comfort adatti ad aggregare intorno a sé tutte quelle iniziative ed energie già attive nel contribuire all’arte contemporanea africana, dell’Africa e in Africa. Si tratta di trarne pienamente vantaggio e mostrare al mondo che Dak’Art non somiglia semplicemente a una biennale, ma è un grande evento capace di produrre – e facilitare la produzione culturale – in Africa.
© riproduzione riservata

Fino all’8 giugno 2014
Dak’art 2014
11. Biennale d’arte contemporanea africana
diverse sedi, Dakar

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