Mamma, io sono un barbaro?

La curatrice della 13a Biennale d’arte di Istanbul racconta a Domus la sua posizione tra un’istituzione, gli artisti e il pubblico all’indomani dell’occupazione del parco Gezi.

Si è aperta il 12 settembre a Istanbul la 13ma edizione di una delle più importanti Biennali d’arte del panorama internazionale. Nel tempo, la Biennale di Istanbul è stata affidata a curatori attenti a tematiche urbane e al rapporto tra arte e trasformazione sociale. La scelta è stata più che mai marcata nel caso di quest’ultima edizione: Fulya Erdemci è stata per anni direttrice di SKOR, Foundation Art and Public Space, Amsterdam, e ha sempre declinato l’idea di un’arte che non si accontenta di rappresentare ma, rivendicando un ruolo attivo, ambisce a dare forma al mondo presente e a quello che verrà. Senonché, proprio in questo ambito, quest’anno la realtà ha superato, se non l’arte, sicuramente la Biennale.
L’esplosione di proteste da Gezi Park in poi, ha scosso la Turchia quando ormai il progetto per la Biennale era stato definito. Le marce, i presidi, le grandi manifestazioni popolari e le diverse forme di resistenza hanno superato sul campo molti interventi artistici. In uno scenario così repentinamente e radicalmente mutato, le controversie hanno investito la Biennale, che si è trovata a giocare in difesa. Se molte opere esprimono senso di speranza, coraggio, radicalità, pensiero critico, per la Biennale rendere ragione di queste istanze tempestivamente e con energia è una sfida ancora aperta. Certo è che questa Biennale, con il suo iter travagliato e le polemiche che ha generato, non solo riflette le complessità del momento, ma ha anche contribuito a far emergere stereotipi e superficialità del discorso intorno all’arte e ai suoi significati.

Gabi Scardi: La situazione di Istanbul influisce sul tuo lavoro per la Biennale? E se è così, in che senso? Qual è la tua posizione?

Fulya Erdemci: Il quadro concettuale della Biennale si articola lungo tre assi: uno teorico, fondato sul concetto di sfera pubblica come possibile luogo di dibattito politico pubblico, e uno pratico che assume gli spazi urbani pubblici e la trasformazione urbana violenta come luogo della prassi. Certamente, prima del parco Gezi, avevamo previsto di realizzare molti progetti che intervenivano sugli spazi pubblici urbani di Istanbul, compresi lo stesso parco e piazza Taksim.

In apertura dettaglio di: Sener Ozmen, From the series Untitled (Megafon), 2005. Courtesy: the artist and Pilot Galeri, Istanbul; qui sopra i manifesti della 13ma Biennale di Istanbul

Quello che oggi accade a Istanbul è più grande della vita e certamente non è paragonabile a qualsiasi mostra o manifestazione artistica. Siamo tutti molto sorpresi, entusiasti e una volta di più pieni di speranza. La cosiddetta sfera pubblica, che prima era solo una questione di probabilità, è stata squarciata con una tale energia creativa che le strade hanno iniziato a parlare, a cantare, a danzare, a camminare e a interagire. Le domande formulate dall’inquadramento teorico della Biennale di Istanbul – direttamente collegata alla sfera pubblica in quanto luogo di discussione politica e allo spazio urbano in quanto componente spaziale delle istituzioni democratiche – si sono dispiegate come per alchimia e sono entrate nella sfera dell’esperienza. Questo ci ha cambiato, ci ha tutti trasformati. Ha aperto orizzonti nuovi che non potevamo neppure immaginare.

Nel corso dell’occupazione del parco Gezi e subito dopo (l’occupazione terminò nella violenza il 15 e il 16 giugno) non avevamo molto tempo per pensare e per lavorare alla Biennale. Dato che tutto è molto recente e ancora in via di evoluzione non è facile reagire alla situazione attraverso una mostra a scala biennale. Tuttavia l’inquadramento concettuale della Biennale ha già articolato questi temi, opere d’arte e progetti sono stati selezionati in accordo con queste considerazioni e secondo questi criteri. Credo che l’esposizione biennale apra uno spazio per riflettere sull’esperienza di trasformazione che abbiamo attraversato.

Dopo questi fatti, la Biennale è stata sull’orlo di cambiamenti radicali: abbiamo preso in considerazione la possibilità di ritirarci completamente dalla sfera pubblica e di lasciare la scena a ciò che succedeva e ancora succede nei parchi, nelle strade e nei quartieri, senza capitalizzare i fatti o dar loro una cornice. Alla fine ci siamo chiesti seriamente che cosa significasse collaborare con le autorità alla realizzazione di progetti artistici nelle strade con la loro autorizzazione, mentre le stesse autorità cercavano di reprimere la resistenza con la violenza, anche le performance più innocenti: azioni e happening come Man Standing oppure le cene collettive del Ramadan (Earth Tables) per le strade. Dopo incontri e dibattiti per chiedere l’opinione di artisti, curatori, critici e militanti, abbiamo raggiunto la decisione finale di ritirarci dagli spazi pubblici urbani.

A sinistra, la curatrice della Bienniale di Istanbul Fulya Erdemci con la direttrice dell'evento Bige Örer

Gabi Scardi: Dal punto di vista del curatore deve essere una situazione molto spinosa. Qual è la tua posizione di curatore che sta tra un’istituzione, gli artisti e il pubblico?

Fulya Erdemci: Come istituzione artistica provvista di un comitato di indirizzo indipendente la Biennale di Istanbul è in grado di garantire un terreno libero per le attività e per le idee dei curatori. Ed è così che sono stato in grado di esprimere le mie riflessioni critiche sul concetto di biennale e sulla selezione delle attività artistiche. Come ho accennato a proposito dell’inquadramento concettuale della Biennale, osserviamo come, mentre le attività artistiche che prediligono la sfera pubblica si fanno prevalenti e contemporaneamente subiscono il fascino della privatizzazione, le istituzioni d’arte sono passate alla dipendenza dai finanziamenti privati e al sostegno degli sponsor. La nostra ricerca per la Biennale si amplia a un’indagine sul rapporto tra arte e capitale e, più oltre, al modo in cui il boom del mondo dell’arte, in particolare del suo mercato, si realizza a Istanbul e altrove, e a quali tracce di questo influsso si possano reperire. E certamente i metodi e le pratiche artistiche non ortodosse, tra cui le performance relative ai temi del rapporto con la sfera pubblica (come luogo di discussione politica) costituiscono uno degli aspetti principali del mio programma di curatore.

Freee, Protest is Beautiful: Tottehnam, 2007/2013
Freee, Protest is Beautiful: Tottehnam, 2007/2013. Photo: Ben Fitton/courtesy: Freee art collective

Gabi Scardi: Qual è la posizione degli artisti coinvolti nella Biennale?

Fulya Erdemci: Per gli artisti la mediazione con le istituzioni e con i sistemi di sponsorizzazione fa parte della prassi espositiva. Ho invitato degli artisti che estendono questa prassi fino a introdurla nella loro produzione artistica. Quindi esprimeranno le loro affermazioni critiche su territori così rischiosi senza rinunciare alla loro posizione politica.

Gabi Scardi: L’alto grado di energia, di tensione e di conflittualità del contesto influisce molto sui loro progetti? Instaurano un dialogo con il contesto e con gli avvenimenti della Turchia? Ci sono opere nuove nate da questa situazione? Puoi fare qualche esempio?

Fulya Erdemci: L’alto grado di energia, di tensione e di conflittualità si avvertiva nell’aria da parecchio tempo, ben prima che esplodesse la resistenza del parco Gezi. Per questo motivo la selezione delle opere e lo sviluppo di nuovi progetti si sono realizzati in questo contesto. Tuttavia certi progetti abbiamo bisogno di ripensarli, e attualmente stiamo attraversando una fase di revisione. In realtà non intendo chiedere agli artisti un commento diretto sul parco Gezi, perché è troppo presto per assorbire il fenomeno o rispondere, e quindi ciò potrebbe portare a dei parti prematuri. E tuttavia certi artisti hanno già alluso a queste domande o le hanno previste nelle loro opere, e hanno voluto ampliare le loro idee per collegarle con queste nuove domande politiche sollevate dalla resistenza del parco Gezi, con la quale intrattengo un dialogo proprio in questo periodo.

Inoltre, come ho già accennato, “barbari” si riferisce al linguaggio, specialmente a quello che non conosciamo o dobbiamo ancora inventare per definire un mondo nuovo che sta appena delineandosi all’orizzonte. Tutti avvertiamo che le teorie e le formule esistenti non sono in grado di definire nuovi percorsi/modelli di vita e di governo comune, ma che l’arte può spalancare questa possibilità all’immaginazione collettiva. Perciò le opere d’arte dell’esposizione biennale che auspicano o intendono creare linguaggi eterodossi inediti (o imparare quelli sconosciuti) possono favorire la comprensione della nuova cultura collettiva e dei linguaggi della resistenza che si sono manifestati come una nebulosa.

E poi credo che l’esposizione biennale possa fungere non da strumento di cambiamento immediato ma da processo intellettuale, a parte tutto, come possibile via di costruzione di soggettività nuove simboleggiate dalla metafora del “barbaro”.

Jimmie Durham, The Doorman, 2009
Jimmie Durham, The Doorman, 2009, Mixed Media © Jimmie Durham & Kurimanzutto Gallery

Gabi Scardi: Mi pare che la sensibilità e la consapevolezza nei confronti della situazione siano differenti negli artisti turchi o non turchi. È così? E in quale senso?

Fulya Erdemci: Certi artisti turchi hanno vissuto direttamente l’esperienza di cambiamento dell’occupazione del parco Gezi. Certamente ciò crea una differenza importante nella psicologia delle opere.

Gabi Scardi: In che modo, su quale base e con quale genere di strumenti è possibile analizzare l’influsso, l’effetto e il valore di un’opera d’arte in rapporto a questa situazione?

Fulya Erdemci: Certe opere d’arte (tra cui la poesia e altre forme letterarie o cinematografiche) possiedono la capacità di creare un’esperienza di cambiamento che apre la possibilità di momenti utopici nella routine quotidiana. Quindi credo che questi progetti artistici possano aver aperto la strada alla formazione dell’immaginazione e della prassi collettive che abbiamo vissuto nella resistenza del parco Gezi. Tuttavia non credo che si possa paragonare l’incidenza dei progetti d’arte a quella della militanza. Anche se possono avere il medesimo obiettivo di cambiamento della società di fronte all’urgenza di imparare gli uni dagli altri, non si possono valutare con gli stessi criteri o secondo il tipo di impatto.

5533, Istanbul
5533 è uno spazio fondato dal giovane artista Volkan Aslan e da Nancy Atakan, un artista e storica dell'arte americana. La curatrice della Biennale ha cercato la collaborazione con diversi spazi d'arte contemporanea.

Gabi Scardi: So che ti interessano le opere ‘pubbliche’ per gli spazi ‘pubblici’ realizzate con interventi pubblici non autorizzati. In che modo l’attuale situazione di tensione influisce sulla possibilità di realizzare questo genere di interventi o la condiziona?

Fulya Erdemci: La nostra strategia iniziale nei confronti di questa situazione aveva due aspetti: prima di tutto la Biennale si concentra sui luoghi in discussione e sui quartieri in trasformazione per poter creare poli di dibattito politico pubblico al di là delle preesistenti posizioni polarizzate e dei relativi ruoli, per aprire la possibilità di una produzione comune della città insieme con i cittadini. In secondo luogo la Biennale si allea a certe organizzazioni di base, nel senso che favorisce la ricerca artistica e la collaborazione per mettere in luce e far emergere l’impegno e i rapporti di questi nuclei di resistenza con le comunità e i quartieri dispersi.

Come ho già detto, poco fa abbiamo deciso di ritirarci dagli spazi pubblici urbani tuttavia, quando stavo elaborando la struttura dell’esposizione prima del parco Gezi, non ho mai voluto affidare incarichi o includere direttamente nell’esposizione l’arte militante/contestatrice e immediata/spontanea che si supponeva si sviluppasse nelle piazze, perché penso che non vada addomesticata o domata all’interno della cornice istituzionale alla quale si ribella. Comunque pensavo che fosse possibile metterla in luce quando già esistente.

Gabi Scardi: Democrazia, vivibilità, sostenibilità sociale, carattere pubblico, lo spazio della città: tutte queste idee richiedono un dibattito urgente; e mi pare che questa Biennale, che si svolge proprio in questa situazione, sia un buon posto per farlo.

Fulya Erdemci: In realtà l’idea della Biennale è direttamente collegata a questo aspetto. Nell’inquadramento concettuale, tramite Chantal Mouffe, mi chiedevo come l’arte potesse allargare il conflitto per creare uno spazio agonistico senza ottenere il consenso (nel quale le voci più deboli vengono represse) per poter discutere dei problemi urgenti relativi ai diritti e alla cittadinanza, per poter aprire la strada all’immaginazione collettiva. In realtà la capacità di vita e d’azione creativa, collettiva, anonima e auto-organizzata si è manifestata nell’occupazione del parco Gezi, che ci ha insegnato (e ancora ci insegna) come visioni del mondo e prassi diverse, perfino conflittuali, possano convivere e agire insieme. Era (ed è tuttora) una delle domande più importanti che abbiamo formulato in Public Alchemy attraverso una citazione da Bruno Latour: “E tuttavia siamo tutti nella stessa barca, o per lo meno nella stessa flotta. Per usare la metafora di Neurath, il punto è come ricostruirla mentre ci stiamo navigando sopra. O piuttosto come possiamo farla navigare, dato che è fatta di una quantità di barche divergenti ma collegate reciprocamente? In altre parole possiamo superare la molteplicità dei modi di montaggio e smontaggio, e tuttavia porre la questione di un mondo comune?” [1].

Le opere e i progetti dell’esposizione, in linguaggi e forme diversi articolano e rispecchiano queste complesse stratificazioni. Tra l’altro l’espressione ‘barbari’ nell’inquadramento concettuale della Biennale è un riferimento preciso ai diritti di cittadinanza. Indica l’“antònimo di polites, il ‘cittadino’, da polis, la città-stato greca”. È un termine che si riferisce e opposto alla città e ai diritti di chi la abita. Ci siamo chiesti che cosa significhi essere un buon cittadino oggi, per esempio a Istanbul. In mezzo alle trasformazioni urbanistiche in corso – il ‘terreno dello scontro’ – significa allinearsi allo status quo o partecipare alle azioni di disobbedienza civile? Uno dei livelli dell’esposizione riguarda il concetto di barbaro come derelitto, bandito, anarchico e rivoluzionario. Implica anche immaginare un diverso contratto sociale in cui i cittadini si assumono la responsabilità gli uni degli altri, anche dei più deboli, dei più esclusi. Sotto questo aspetto specifico ciò che sta accadendo a Istanbul, ad Ankara, ad Antakya, a Izmir e in altre città è in rapporto diretto con la disobbedienza civile in funzione dell’assunzione di responsabilità per i propri concittadini, anche di quelli più derelitti. In questo senso l’intera resistenza riguarda un nuovo contratto sociale che le opere della Biennale aprono al dibattito.

LaToya Ruby Frazier, "Self Portrait In Gramps' Pajamas"
LaToya Ruby Frazier, "Self Portrait In Gramps' Pajamas", 2009

Gabi Scardi: Ma come puoi conciliare queste opere con la logica del sistema dell’arte e con motivazioni che, in grado diverso, sono inevitabili, parlando di biennali?

Fulya Erdemci: Ho considerato la macchina della Biennale come un apparato che si può usare per ragioni differenti. Nel mio caso l’ho usato come una macchina critica per analizzare e rendere espliciti questi sistemi dall’interno. Tra l’altro, ribaltando ciò che sta accadendo negli spazi pubblici urbani (privatizzazione e commercializzazione di ciò che prima era proprietà pubblica), cerchiamo di creare spazi pubblici dentro quelli (prevalentemente) privati. Nel quadro di questa consapevolezza abbiamo lavorato molto, ma finalmente siamo riusciti a rendere la Biennale gratuita per questa edizione, e quindi tutti potranno vivere l’arte senza alcuna barriera economica.

Gabi Scardi: In conclusione pensi di poter definire quale sia il ruolo dell’arte in rapporto con la società contemporanea e i suoi talvolta violenti cambiamenti?

Fulya Erdemci: Come ho già accennato, credo che l’arte possa aprire lo spazio di un’esperienza di cambiamento e che quindi abbia la capacità di alimentare la costruzione di nuove soggettività. Credo che l’arte possa creare un’esperienza di riflessione in grado di fermarsi a pensare ciò di cui abbiamo disperato bisogno oggi, nel corso di questa turbolenza (nella crescente violenza delle istituzioni, della detenzione e degli arresti) e di altre trasformazioni che stiamo per vivere.

 

 

[1] Latour Bruno, From Realpolitik to Dingpolitik – or how to Make Things Public, in Making Things Public: Atmospheres of Democracy, Cambridge, MIT Press, 2005

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